Ne vale la pena? #2
di Tiziano Scarpa
Ricopio una parte della “Premessa”, datata dicembre 2002, che apre la nuova edizione tascabile di Nudo di madre. Manuale del perfetto scrittore di Aldo Busi, pubblicato poche settimane fa negli Oscar Mondadori.
Due avvertimenti.
Il primo: l’autore fa riferimento al 1995, che è l’anno in cui scrisse il libro, pubblicato nel 1996.
Il secondo: tutte le sottolineature sono mie.
Dalla “Premessa” a Nudo di madre di Aldo Busi:
(…) Purtroppo, dal 1995 a ora, si è fatto strada e poi è sbucato fuori il predatore più imprevedibile e crudele per me: il rimorso di avere scritto la mia opera in italiano.
L’Italia è un paese piccolo e per sovrammercato trino, suddiviso in tre Sud di vario livello e uguale miseria, ormai non solo morale, patria del lavoro nero, di un analfabetismo istituzionalmente programmatico e di innumerevoli processioni per ingraziarsi un santo in terra, un paese minato da fascismo e clericalismo e mafia inestirpabili e ormai graziosi, dove la classe politica e giudiziaria e finanziaria è cresciuta sull’impunità delle stragi di Stato, dove non c’è stata rivoluzione e anche la restaurazione – dalla rivoluzione che non c’è mai stata – è passiva e incredula, e mi rendo conto che, per scrivere come ho scritto io, ho dovuto fare tutto da me, anche quella rivoluzione sociale che a Francia e Inghilterra ha permesso di avere le letterature moderne che hanno. Sono ormai dell’avviso che il novanta per cento delle energie che ho investito nella mia opera sono sprecate, e non alla luce dell’Italia contemporanea, ma anche di ogni possibile Italia che ci sarà finché ancora potrà accedere alle mie opere senza tradurle. Non è che questo paese desideri o no le mie energie, se restano televisive e ballettistiche, è che non sa che farsene di una letteratura sganciata da una finalità catechistica e quindi non sa che farsene della mia opera ovvero di un’opera di letteratura che non potrà mai fare propria perché non la può riconoscere, gli manca l’abbicì di base prima ancora della buona volontà o della malafede o dell’ipocrisia; il mio non è malanimo verso il mio paese natale, non gliene faccio una colpa, è come pretendere coordinamento, e quindi coerenza, fra impulso e conseguente movimento da un paraplegico dalla nascita. Lo sciocco sono io, che ho voluto sfidare più del dovuto me stesso e un paese che non c’è, un paese la cui intima sostanza politica sta proprio nell’essere rimasto un’espressione geografica le cui massime aspirazioni estetiche e civili sono quelle dei suoi stivali e dello scrivano che glieli lustra, e l’ho voluto sfidare più della nostra stessa e mutua capacità di reazione, tanto che ci siamo venuti a noia senza possibilità di ricrederci. E che velleitario quello Scrittore che, potendo decidere di porre le proprie energie all’opera in francese, inglese o tedesco, scrive per testardaggine e sprezzo del ridicolo in una lingua madre più sua che non del suo paese! Come poteva Egli ignorare che il Suo paese parla e intende tutt’altra lingua, e che la propria non la parlerà né intenderà intenderla mai e leggerla men che meno? (…)