Ne vale la pena? #5
di Giovanni Maderna
Purtroppo ancora una volta se mi viene da scrivere qualcosa è per indignazione. Mi piacerebbe che fosse sempre solo per gioia, invece, a meno di piantarla una volta per tutte oltre che con la tv anche con i giornali, internet e perfino i libri e i film, mi accorgo di essere condannato al risentimento.
Mi do come alibi che tanto scrivo alle 13.44, dopo essermi come al solito strafogato e bevuto quasi una bottiglia di refosco: in ogni caso non sarei in grado di fare nulla di meglio.
Ho seguito su Nazione Indiana la querelle sui romanzi di genere, scaturita dal pezzo di Scarpa su Covacich.
Non posso fare a meno di far mia la polemica. Anzi l’incazzatura.
Davvero, è inutile fingere eleganza negando l’evidenza, LA MEDIOCRITA’ E’ AL POTERE. Ed ha una fottuta paura di perderlo, il potere. Almeno a giudicare da come attacca, preventivamente, tutto ciò che non è mediocre.
E le armi oggi predilette dalla mediocrità, in ogni forma d’arte, sono: il rifugiarsi nel genere, nella formula (nella forma) narrativa intoccabile, il preoccuparsi del rapporto con un pubblico che si considera implicitamente cerebroleso, e l’ironia relativizzante che toglie mordente a tutto, anche all’intelligenza laddove ve ne fosse.
Innanzitutto questa storia del “genere”. Porca puttana ha ragione Scarpa! Anzi è troppo generoso e accomodante. Non so come stiano le cose in letteratura, ma nel cinema è ormai un insulto esplicito e lanciato con senso di superiorità quello di essere un “autore” (figurarsi un autore italiano!). Anzi di “voler essere un autore”, nel senso che in genere lo scafato criticuzzo, a cui non la si fa, è convinto di sorprenderti a far delle cose con la precisa intenzione di diventare un giorno un “autore”, proprio con questo unico scopo e movente. E di questa ingenuità, evidentemente, non si può che ridere. Perché anche secondo i cultori del genere gli autori esistono, ma appartengono ad altre epoche, o sono vecchissimi, oppure sono quelli che oggi si mettono con più brio e talento a giocare con i generi. Ma sempre DENTRO i generi.
E il primo degli argomenti, l’argomento principe e sempre inoppugnabile è che ormai oggi (da lustri, da decenni, boh?) ci troviamo in un orizzonte post-moderno, e le categorie di una volta non valgono più. Oggi è tutto il contrario. Dunque il momento ideale per chi non ha nulla da dire ma sa servire con classe quel nulla. Qualcuno su questo sito parlava poco tempo fa della “parlantina”, della scioltezza verbale da show televisivo live… Ecco, anche nel cinema, oggi, si richiede solo questo.
Disgraziatamente due giorni fa ho ceduto alla tentazione di comprare l’ultima pubblicazione di uno di questi guru del post-moderno cinematografico, di questi lucidi analisti dell’oggi. Ho acquistato “L’alieno e il pipistrello” di Gianni Canova. Libro appunto dedicato all’analisi delle saghe di Alien e Batman come specchio emblematico della nostra società.
Ebbene, al di là del tenore linguistico da bigino per studenti dello Iulm, la cosa più sconvolgente e inaccettabile è che le tesi dell’autore mirano a riscontrare, in prodotti cinematografici che qua e là egli stesso ammette essere non eccelsi, la profezia di una nuova era, la rottura clamorosa con tutto quanto viene prima, il superamento di concetti ormai vetusti quale, in primis, ovviamente quello di autore, cioè di qualcuno che lavora con la forma, che inventa nuove forme. Perché questi film grand publique dimostrerebbero che ormai è possibile solo il collage, l’impersonalità, il gioco con le forme preesistenti, i generi appunto, la citazione e l’associazione libera, imprevedibile, di elementi eterogenei. La scomposizione insomma, la frammentazione, la perdità di ogni tipo di identità tanto in chi fa i film, quanto in chi ne è spettatore… Anzi l’autore, con l’aria di chi sa di essere forse troppo in anticipo sui tempi, profetizza la perdità di centralità dello sguardo. Dell’occhio come strumento di comprensione della realtà…
E di questi concetti Canova scrive estasiato, come chi apra nuove, sconcertanti prospettive all’umanità. Come chi abbia finalmente il coraggio di infrangere dei tabù. E parliamo non solo di un docente universitario di grido, ma del direttore di riviste specializzate tra le più lette… Canova è colui che imbocca le decine di idioti emergenti nel panorama della critica cinematografica italiana, che disprezzano tutto ciò che non è genere, che non si rifaccia a Lucio Fulci o Umberto Lenzi come precursori del post-moderno. E che poi, se proprio si devono esprimere su quanto che esula dal loro territorio favorito, manifestano una inconfondibile predilezione per ciò che è più mediocre, più neutro, più televisivo e prevedibile, come se fosse tutto sommato il male minore.
Ora, è evidentemente necessario dire, o forse bisognerebbe addirittura scriverne un noiosissimo libro, che tutto ciò che si trova nelle innovative tesi del professor Canova si trova pari pari, ma con acume e sottigliezza infinitamente maggiore, nelle avanguardie che precedono di oltre mezzo secolo i suoi presunti capolavori post-moderni. Si trova nel surrealismo, in Cocteau, in Bunuel, in decine di AUTORI. Ed era anzi la forma elaborata dal cinema d’autore in quegli anni.
L’apologia di Canova è quindi un’apologia del derivato annacquato e riciclato spacciato per novità. Che tristezza! E il dibattito cinematografico italiano è in gran parte fermo lì. Quello si studia nelle scuole, al Dams, all’università. E questo insegnamento di retroguardia inculca il disprezzo proprio verso chi oggi sta invece davvero cercando di elaborare le forme dell’oggi. Magari seguendo strade molto diverse fra loro, talvolta anche imboccando false piste, come è sempre stato nella storia di tutte le arti in ogni tempo…
Qualche tempo fa, tenendo alcune lezioni alla scuola del cinema di Milano mi sono imbattuto nell’ennesimo studente sedicente cultore del cinema di genere, che mi ha presentato un suo progetto di cortometraggio horror. Nella discussione si è mostrato infastidito per l’accostamento che io facevo tra certi suoi procedimenti narrativi e il surrealismo, Bunuel in particolare. L’argomento era che non lo interessavano gli intellettualismi, che lui amava il cinema americano di serie B, senza pretese artistiche. Il giorno successivo gli ho letto un brano dagli scritti cinematografici di Bunuel. Una sceneggatura per cortometraggio del 1930 dal titolo “Allucinazioni intorno ad una mano morta”. Alla fine lo studente concordava non solo sull’estrema e davvero sorprendente somiglianza fra i due progetti (il suo, del 2003, basato sulla visione dei più innovativi film americani, e quello di Bunuel, del 1930, che pure era di gran lunga migliore) ma anche sul fatto che il soggetto surrealista prefigurava chiaramente, nel mostrare l’incubo di una mano che svolazza per la stanza, si appende ai lampadari e tende ad appiccicarsi al volto del protagonista, il mostro della saga “Alien”.
Il sottotitolo del volume di Canova è “la crisi della forma nel cinema contemporaneo”!!! Ma non si è accorto il professore, o è così in malafede da fregarsene, che la forma è in crisi, in ogni campo artistico, almeno da tutto il Novecento!! E che sono già state superate molte crisi, elaborate nuove forme, a loro volta poi superate… Che se quello che lui considera cinema vede la propria forma entrare in crisi solo adesso è perché si tratta di un PIETOSO BARACCONE ARRETRATO!!! Di un magniloquente bluff acchiappacitrulli!!!
Basta, davvero. Invece accendo la radio, Radio Tre, la radio intellettuale, e sento una sviolinata celebrativa della canzonetta alla Battisti unica vera grande forma della musica del secolo scorso.
VAFFANCULO!!
Metto su un cd di Bruno Maderna (non sono interessato, non è mio parente) e lo ascolto a palla finché quelli del locale di sotto non vengono a protestare perché non si sente più la telecronaca della partita…(non so come fanno ma con il satellite guardano le partite anche alle due del pomeriggio di venerdì 6 di giugno, sarà il campionato thailandese…)
EBBENE SI’, SIAMO VITTIME DI UNA BORIOSA SOTTO-CULTURA CHE ORMAI NON SI VERGOGNA DI SPACCIARSI PER L’UNICA ARTE POSSIBILE!