Viaggio in Argentina #2

di Antonio Moresco

Scendiamo. I vestiti me li sono rapidamente cambiati nel cesso dell’aereo, perché sono partito che era pieno inverno e qui invece è piena estate. Ritiriamo i bagagli con la biancheria estiva. Libri non ne ho portati, solo le poesie di John Donne, perché mentre si viaggia non si possono fare lunghe letture in prosa, ma solo brevissime immersioni intense in qualcosa che sia concentrato e pieno di visione e pensiero… Le leggerò di tanto in tanto, se potrò, nei ritagli di tempo tra un viaggio e l’altro, e se alcuni versi mi colpiranno in modo particolare li trascriverò qui, per farne partecipi anche voi.

Buenos Aires
L’estate improvvisa, fuori dall’aeroporto. La luce accecante, mentre percorriamo in macchina la grande arteria che porta in città, e si vedono ai lati una grande scultura in legno colorato di due bambini che si rincorrono, i prati verdi, le palme, e poi case di tutti i generi e tipi, fatiscenti, sfasciate, grattacieli filiformi innestati su vecchie case precedenti o mozziconi di campanili, di palazzi, di chiese. Lungo le strade un fiume impressionante di taxi neri e gialli, più numerosi quasi delle altre macchine, altre auto sfasciate e mezze arrugginite che sputano un fumo nero dagli scappamenti, per lo più americane. Cominciamo a penetrare nella città, arriviamo fino a calle Chacabuco, nel quartiere di San Telmo, dove Laura ha prenotato due stanzette per me e per Giovanni, mentre lei è ospitata da amici in una casa che si trova a poca distanza, in calle Venezuela.
Li troviamo di fronte al piccolo albergo, Laura e Nicola Fantini, Nic, scrittore di fantascienza.
Che piccolo poi non è perché si estende in profondità, su due piani. E’ – ci spiega Laura – uno dei vecchi conventillos in cui passavano un tempo le prime ondate di immigrati italiani, una famiglia per ogni stanza lungo le ringhiere e i sottili patios, i bugigattoli con i water disseminati qua e là, dalle porte aperte, e altri piccoli pertugi bui dove si può cucinare qualcosa anche adesso. Chissà che confusione di voci, dialetti, strilli di neonati e bambini con la merda al culo, a quel tempo, prima che la febbre gialla allontanasse gli immigrati da questo quartiere troppo vicino ai miasmi delle acque gialle del Rio e li spingesse altrove! Adesso nel quartiere ci vivono soprattutto le nuove ondate di immigrati peruviani e boliviani.
Un vecchio gentile, coi baffetti sottili, argentini, ci porta su a vedere le stanze. Sono fatiscenti, perché non viene fatta manutenzione da decine di anni. Il letto è formato da un sottilissimo materasso di gommapiuma gettato sopra qualcosa di duro, il ventilatore sembra molto scassato. In una delle stanzette prima delle nostre c’è un uomo vecchissimo, scheletrico, gobbo, semiparalizzato, che cammina a fatica, tremando. Esce fuori a vedere i nuovi arrivati, sul ballatoio, in calzoncini da bagno per il caldo, succhiando mate con la cannuccia.
Ma questo posto ci piace immediatamente, è a suo modo meraviglioso, ha una sua dolcezza. Scendiamo col proprietario, paghiamo anticipatamente alcuni giorni, con i pesos argentini cambiati all’aeroporto, l’equivalente di circa otto dei nostri euro per notte. Nella vecchia stanza buia che funge da reception ci sono alcune immagini religiose, un grande quadro del Sacro Cuore, la Dolorosa, una vecchia foto del proprietario a una gara di tango, “Mister tango”, c’è scritto in un angolo della foto, addirittura!

Giriamo un po’ per la città. Marciapiedi sfondati. Nei posti dove si mangia ci sono griglie ricoperte di file di salsicce, visceri, grandi pezzi di carne e costate alte tre dita e ghiandole mammarie bianche o qualcosa di simile, nonostante qui sia piena estate e ci sia un caldo torrido, l’equivalente del nostro ferragosto. Le ragazze e le donne con le pance e l’ombelico scoperti, dagli scheletri eretti, da mangiatrici di carne, dall’aria macha, ribalda. Ce ne sono diverse a gravidanza avanzata, persino all’ottavo o al nono mese, con l’enorme ventre scoperto sotto il sole accecante, l’ombelico ornai tutto proiettato in fuori per la pressione del feto che si sta rosolando all’interno. Ondate di taxi che girano senza clienti, molti dei quali sicuramente abusivi, rallentando mentre rondano agli incroci, coi guidatori dalla testa girata per cogliere il più lieve cenno del braccio di qualcuno dei passanti. Certe volte, ai semafori, si fermano due o tre file di taxi, senza nessun’altra macchina in mezzo, sembra che ci sia una gara di corsa tra taxi. Ci sono sacchi delle immondizie aperti e disseminati dappertutto, negozietti poveri che vendono frutta, tenuti da boliviani, supermercatini un po’ desolati e con la merce fuori scadenza tenuti da cinesi, farmacie che vendono gelati, librerie che vendono reggipetti. Bambini seminudi e a piedi scalzi che bloccano i passanti e le auto, per chiedere l’elemosina, fanno i giocolieri uno sulle spalle dell’altro ai semafori delle grandi avenide. Mi sembra come una città cresciuta dentro un enorme cratere.

“Il firmamento è fratto in quarantotto parti, nelle costellazioni nascono nuove stelle, stelle antiche scompaiono dalla nostra vista, quasi il cielo patisse terremoti, pace o guerra, se sorgono nuove città o le antiche vengono distrutte.” John Donne.

Ci sono persone che frugano nei sacchi delle immondizie ammucchiate qua e là, di notte. Bambini e bambine, a piedi nudi, per le strade e le stradine dagli asfalti e dagli acciottolati esplosi. Anche ragazzi, ragazze, persone adulte, uomini e donne. Si contendono o si spartiscono di buon accordo il contenuto dei sacchi lungo ciò che resta dei marciapiedi.
Ieri notte, quando sono tornato al nostro hotelito con Giovanni, i marciapiedi della via erano tutti disseminati di immondizie sparpagliate e sezionate e c’era anche una donna bassa, scura, chiusa, tarchiata, dall’aspetto indio, che camminava maestosamente in mezzo alla strada spingendo verso chissà dove un pesante carrello metallico fregato a un supermercato, tutto carico di sacchi delle immondizie. Al suo fianco trottava come un piccolo scudiero vigile e assorto un bambino indio coi piedi nudi, orgoglioso di poter uscire ogni notte con la madre verso quella libertà e quella caccia e quella scoperta e quell’ avventura.

(2–continua)

Pubblicato in “Fernandel”, aprile-giugno 2003.

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