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Viaggio in Argentina #3

di Antonio Moresco

Visita all’edificio dalla ex Biblioteca National, quella di Borges, perché Giovanni vorrebbe fare delle fotografie dei luoghi borgesiani. Qui ce ne sono molti. Entri in un vecchio caffè dalle pareti di legno tutte incise e istoriate dai temperini e vedi appesa una fotografia di Borges seduto di fronte a Sabato, su un pavimento a scacchi…

All’inizio non vogliono farci entrare, poi diventano gentili. Un uomo ci accompagna in giro per l’edificio, ci fa vedere la sala un po’ ascensionale e diroccata con gli scaffali vuoti dei libri, il lucernario in alto, il posto dove Borges faceva le riunioni, la pennichella, e poi in alto, al termine di una scala, due grandi aperture circolari vertiginose da cui si può vedere in basso. Adesso la biblioteca è stata riciclata come Centro Nacional de la Musica, e io ho capito (male, probabilmente, perché l’uomo parla in fretta e devo avere equivocato qualche parola, o forse per un riflesso condizionato) che ospita orchestre di musicisti ciechi.
L’uomo imbrillantinato che ci conduce ci fa vedere altre cose, su e giù per le scale di quello che si compiace di definire “labirinto”. Ci sono alcune sale un po’ deliranti, con colonne di legno a decorazioni d’oro e grandi specchiere di fronte alle quali si stanno esercitando per qualche balletto dei ragazzi che reggono in mano bastoni e si muovono comandati da ordini imperiosi e ritmati. Giovanni scatta alcune fotografie. Laura dà una mancia all’uomo che ci ha guidato, perché Giovanni possa tornare con più calma nei giorni successivi. Vorrebbe fotografare anche me, nella biblioteca di Borges. Io gli dico che se lo deve scordare, che ho un’insuperabile insofferenza per Borges.

Usciamo. Ci rifugiamo per un po’ in uno dei grandi caffè che ci sono nel centro di Buenos Aires, per stare un po’ al fresco e berci una cerveza. Ci sono ben trentasei biliardi al piano di sotto, informa un cartello. Vicino a noi un siriano pelato e con un riporto violentemente tinto di nero e i baffetti color pece sta corteggiando una donna argentina di mezza età seduta al suo tavolo, guardandola fisso come se la volesse sgozzare. C’è una numerosa colonia siriana in questo paese, lo stesso Menem è siriano e qui lo chiamano “el turco”. Così come ci sono italiani, inglesi, irlandesi, svizzeri, tedeschi, molti nazisti scappati qui alla fine della guerra, i loro discendenti. Ciascuna comunità con le proprie abitudini, piantano nella loro zona gli alberi di casa loro, pini, abeti, in Patagonia, nei posti più impensati, in mezzo alla pampa. Alcuni – racconta Laura – vivono in grandi abitazioni fortificate, vicino alle Ande lungo la frontiera col Cile, le guardie armate, l’elicottero per scappare dall’altra parte se qualcuno di sospetto si avvicina per una di quelle strade diritte e vuote lunghe decine e centinaia di chilometri dove non passa mai nessuno. Hanno portato qui molte delle ricchezze del Reich, che hanno avuto un ruolo importante nella industrializzazione del paese. Si sapeva chi erano, eppure nessuno li ha toccati. Hanno preso Eichmann, in passato, nascosto dietro l’immagine inoffensiva di impiegato di una casa automobilistica tedesca. Le stesso Peron lavorava all’ambasciata argentina di Berlino, durante il nazismo, prima della sua ascesa politica in patria. Laura racconta che, quando è andata in Patagonia da ragazzina, per incontrare il nonno anarchico che era andato via dall’Italia durante il fascismo e viveva là da molti anni, tutti dicevano che nella grande casa vigilata da sentinelle armate che c’era a poca distanza ci vivesse Bormann, che lei stessa ne ha conosciuto la moglie, che era gentile, ecc…
Poi il siriano esce dal locale con la sua preda. Rotea paurosamente gli occhi neri pieni di occhiaie, cerchiati. Ce l’ha fatta, evidentemente! La donna lo segue come un automa. Ma non ha visto che occhi ha quell’uomo, che faccia?

“Ed ecco arrivano le dame. Come pirati che sanno dell’arrivo di navigli carichi di cocciniglia, gli uomini le abbordano, e tessono grandi elogi, così almeno credono, alla loro bellezza; lo stesso fanno le donne con l’ingegno degli uomini; e tutti e due abboccano.” John Donne.

Laura è una miniera di racconti, ha una conoscenza vasta e appassionata delle vicende dell’Argentina, e molte delle cose generali che racconterò qui le ho apprese da lei. La sua adesione a questo paese e alla sua lingua è impressionante. Ha evidentemente bisogno di avere dentro di sé, anche come scrittrice, un’altra patria e un’altra lingua, prima il duro dialetto lanzichenecco delle sue parti e adesso lo spagnolo del sudamerica. Parla persino con l’accento e con parole spagnole anche con noi, certe volte, e noi la prendiamo in giro. Tutto il contrario di me, che non ho nessuna intelligenza mimetica. Mi chiede cosa penso dell’Argentina. Io non so cosa dire. Posso solo girare attonito, lasciarmi traumatizzare dalle cose. Mi pare di non riuscire a stabilire nessun diaframma di conoscenza storica, culturale. Non è solo per la stanchezza, il sonno arretrato per via della notte in bianco passata sull’aereo che mi portava qui. E’ anche perché non sono in grado di inventarmi dei collegamenti culturali illusori che possano difendermi da tutta questa alterità e giustificarla e spiegarla e normalizzarla nella mia mente.

“E come quando si seziona un cadavere, il corpo non si conserva tanto da permettere di dissertare su ogni parte, e dunque si concentra il discorso sulle parti di massimo interesse, così la carcasse del mondo non durerebbe, se fossi sommamente puntuale in questa anatomia.” John Donne.

Incontro con uno scrittore argentino in un caffè annesso a una libreria, nel posto fisso dove a una data ora si è certi di poterlo trovare. Gli scrittori di Buenos Aires scrivono spesso nei caffè. Certo, in giro è tutto un disastro, qui almeno c’è l’aria condizionata, e ci sono librerie e bar meravigliosi, anche se i libri non li può comperare nessuno perché i loro prezzi sono proibitivi in questi anni per gli argentini. C’è persino una libreria dentro un teatro a più piani, gli scaffali dei libri fino al proscenio e nelle file dei palchi illuminati discretamente con piccole luci eleganti, una meravigliosa penombra, clienti che sfogliano e leggono i libri affacciati ai palchetti, il caffè sopra il palcoscenico. E anche qui gente che scrive, scrittori, scrittrici, tutti col loro quadernetto che scrivono, esibiscono il loro status di scrittori o aspiranti tali, avvengono incontri. C’è qualcosa che non va in tutto questo… Ma torniamo al punto di partenza. All’incontro con questo scrittore, David Viñas, semplice, affascinante, gentile, baffoni bianchi, perseguitato duramente in passato, mica un letterato nella bambagia, un fighetto! Eppure, eppure… Si mette in posa, sornione, quando Giovanni comincia a fotografarlo. Non vuole cambiare posto, anche se lì la luce non è molto buona, perché quello è il suo posto, il posto dove lui lavora, incontra gli amici. Mi vengono in mente quelle vecchie fotografie degli scrittori e poeti italiani del primo Novecento. Certo, là era tutto più garantito, protetto. Tutti attorno ai tavoli nei caffè letterari, con le loro congreghe, le loro tristi élite, sorridenti di fronte al fotografo mentre in realtà era tutto un covare odi, concorrenze, rancori, quando i letterati formavano ancora una qualche società, gli ultimi fuochi fatui, finti bagliori… Il caffè di qui, il caffè di là, le Giubbe Rosse, quell’altro… Vorrei ancora una cosa così? mi domando. Vorrei essere presente e immortalato anch’io con la mia faccia di cazzo in uno di quei cerchi di faccine fotografate che si credevano chissà cosa e venivano avanti verso il fotografo? Che sia o che ritorni ancora il tempo in cui gli scrittori credevano di contare qualcosa, e avevano ancora i loro piccoli riti? Poter afferrare un ultimo lembo di questo povero mantello tarmato che ormai non c’è più, dopo aver passato tutti quegli anni a scrivere sotto terra, da solo? No, no! mi rispondo. Per niente al mondo! Piuttosto il rischio, il nulla, la morte! Niente è peggio di tutto questo per uno scrittore!

(3–continua)

Pubblicato in “Fernandel”, aprile/giugno 2003.

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