Segni meno
testi di Marco Giovenale e foto di Francesca Vitale
Il tempo divora voce
ventre piegato che sembra un sacco
uno ne è stato un canto cenere
adesso avrà bisogno
di parlare nel pallore
degli argini. Sole uscito male
– li scalda, lecca
i battelli i barconi lance
ai margini mangiati
molli dove il fiume ruota pasta morsa
falda, la marcita le foglie nere
– cere perse.
Bruciata, Cerere
*
Sente di dover fare corpo tra il luogo – lo spazio breve – e il fatto che non abbia senso restarci.
Gli mette tristezza quell’abbandono, quella nicchia, il giro mal completato delle scale, il fosforo di chiocciole intorno, pezzi di rami, dell’anno prima, o parecchie ore. E si decide.
Decide: si sposta. Non può vivere sempre lì. Non può passarci tutto quel tempo. Nemmeno è vicino casa; lo osservano, lo additano.
Anzi: non può neanche dire che ci vivrebbe sempre; è vero perfino il contrario, è a disagio; però gli accade di desiderare sempre di dire (o sentire che) «qui potrei viverci sempre».
Non si può lasciare, è un posto abbandonato
*
Alla foce del Tevere trovata per caso, o Passo della Sentinella o Fiumara Grande, l’acqua a riscontro pensa bene di lasciare alle rocce quadre – che fanno bastione – fili di rame, anagrammi conclusi in vetro, plastica.
Che non finiranno su mobili a fare gli ilari lari di borgo.
Gli argani per la pesca delle baracche ruggine-stecchi regnano su una stanza chiesa vuota, la croce è anodizzati neri, giù due righe di terra sul verde segnano dove si fermano le macchine da smontare
(da Il segno meno , Manni, 2003)