L’Italia nel buco del Reale
di Antonio Piotti
Si fa presto a dire che non è come per le Torri Gemelle, che questo attentato ha avuto luogo sul territorio iracheno, mentre quell’altro nel cuore di una New York pacifica ed operosa, che i morti sono stati venti e non più di duemila, che erano soldati e non civili. Queste considerazioni vengono meno tuttavia, quando si constata l’apparenza che le immagini televisive ci rimandano: un buco c’è stato, un cratere piuttosto vasto intorno al quale le costruzioni sventrate non consentivano allo sguardo di divagare verso nessuna direzione immaginaria. La domanda più propria diventa pertanto: cosa fa l’Italia quando entra in contatto col Reale, quando cade il suo velo immaginario?
Sappiamo già cosa fanno gli altri: essi tendono ad esprimere una struggente nostalgia per il simbolico, sfoderano le bandiere, si fanno testimoni dell’Occidente e, il più delle volte, espellendo paranoicamente il lutto sull’Altro, partono per la guerra. Noi però, in quanto italiani, siamo portatori (a causa di una storia millenaria fatta di disillusioni e di commedie) di una differenza specifica che non va sottovalutata nemmeno quando si rischiasse di sfiorare la retorica. L’esplicitarsi di questa dialettica ha quattro momenti.
1. In cosa consisteva l’immaginario italiano che l’attentato ha svelato nella sua crudezza?
L’immaginario è che gli italiani siano pacifici anche quando fanno la guerra, che, piuttosto incapaci di fare veramente il male reso necessario dall’azione bellica (esercitare l’ordine con la violenza, sparare sui sospetti, difendersi all’interno di bunker inattaccabili), siano per ciò stesso straordinari nell’intessere rapporti con la popolazione civile, nel distribuire medicinali ed aiuti umanitari, nel favorire la ripresa di un’esistenza tranquilla anche nelle zone più martoriate dalla storia. I nostri soldati fanno peace keeping, sono, cioè, soldati pacifisti, sono combattenti obversi. Per questa stessa ragione si dice che il Fascismo da noi è stato meno grave del Nazismo tedesco, perché nessuno credeva in ciò che faceva e cercava pertanto di farlo nel modo meno insensato e crudele che fosse possibile. E’ assai presumibile che anche i carabinieri italiani morti in combattimento non credessero in ciò che facevano, non fossero cioè essi stessi convinti di morire in guerra: molto più probabilmente essi pensavano di morire per la pace, per aiutare le popolazioni a mantenere una vita decorosa (Nassiryia era effettivamente una delle poche città irachene nelle quali era stata attivata la corrente elettrica, era iniziato l’anno scolastico, avevano cominciato ad esistere delle normali attività economiche). Il loro stesso sacrificio è stato commemorato in nome della pace, dell’aiuto umanitario, del gesto caritatevole stroncato da barbari assassini, non in nome di un superiore interesse dell’Occidente cui dei nemici crudeli si opporrebbero anche suicidandosi. Curiosamente, in una trasmissione televisiva condotta da Giuliano Ferrara, gli attentati di Nassiryia sono stati inseriti nella tragica serie di violenze che aveva visto come vittime prima le sedi dell’O.N.U. e poi quelle della Croce Rossa. Come se sparare sugli italiani, in fondo, fosse un po’ come sparare sulla Croce Rossa.
2. Che cosa hanno voluto ottenere gli attentatori?
I Kamikaze (e i loro mandanti) hanno agito con l’intento di spazzare via tutte le situazioni di ambiguità e di mediazione. Come nel film Fa’ la cosa giusta di Spike Lee, ove la cosa giusta consiste appunto nel demolire un negozio italiano nel quartiere nero anche se l’italiano è un brav’uomo e tutti (più o meno) gli vogliono bene. Per quanto bravo, infatti, l’Italiano è un bianco e non un negro, è un Occidentale e non un Arabo, è un soldato e non un missionario, è un nemico e non un amico. Sembra allora assai chiaro il discorso dei terroristi: essi, ben lungi dall’inserire gli italiani nella serie che va dalla Croce Rossa alle associazioni umanitarie, li hanno presi alla lettera: hanno guardato le loro uniformi senza se e senza ma, senza badare alla loro dimensione immaginaria e senza tener conto di alcun distinguo. Gli italiani stanno nella stessa serie degli americani degli inglesi e degli altri nemici, perciò non c’è da stupirsi se vien loro riservato lo stesso trattamento. Soprattutto, dal punto di vista del terrorismo internazionale, sono proprio le posizioni di mediazione quelle che vanno combattute più risolutamente. Se, infatti, la missione italiana dovesse passare, se la gente fosse grata a questi uomini che portano la divisa senza crederci, che combattono con amore e che sembrano aver come primo obiettivo più la dignità della gente che il moloch ideologico di riferimento, per cui nessuno può pensare che essi credano veramente nella guerra in cui sono coinvolti, e di cui appare subito chiaro che se ne sentano vittime tanto quanto chiunque in Iraq soffra per i disastri in cui versa quel Paese, se questo modo di pensare si diffondesse veramente, allora è chiaro che i terroristi si sentirebbero con il terreno che vacilla sotto i piedi. Nessuno crederebbe più all’idea dell’Occidente satanico e il discorso della guerra a tutti i costi troverebbe un punto di crisi assolutamente impensabile nei confronti, per esempio, degli americani. Ecco perché ha senso pensare che, andando avanti così le cose, il posto della mediazione sia destinato a diventare nel tempo breve il più scomodo fra tutti. I terroristi ci hanno nel mirino e non è escludibile che la prossima mossa per loro consista in un attentato a casa nostra, sul territorio italiano.
3. Come rispondere a questo attentato?
Una prima risposta appare ovvia ed è stata ventilata da molti: si tratterebbe di ritirarci in fretta e furia. In fondo che importa a noi di questa guerra? è stata fatta dagli americani e nemmeno da tutti, è stata fatta dall’amministrazione Bush (anche se Bush è un presidente eletto e anche se i sondaggi, al momento dell’azione bellica gli erano favorevoli); gli italiani non la volevano (anche se in parlamento la maggioranza dei deputati e dei senatori che questo popolo aveva ben eletto vi ha aderito), non si muore per il petrolio (anche se poi tutti i giorni lo si usa massicciamente e ci si lamenta per il freddo d’inverno e per il caldo d’estate come immemori del fatto che gli impianti di riscaldamento e di condizionamento funzionino grazie al petrolio). Non abbiamo quindi nessuna guerra cui partecipare, nemmeno per svolgere azioni di pacificazione tanto più che il nostro atteggiamento ambiguo viene frainteso e che i terroristi continuano a confonderci con gli americani: se abbiamo a cuore la pace, smettiamola di fare peace keaping, e facciamo, semmai, qualche sfilata in più per le vie di Roma nelle mattine di sole. Si tratterebbe, in sostanza, di dare per l’ennesima volta al mondo il segno distintivo dell’identità italiana: le vergognose marce indietro sono meno vergognose quando si tratta di salvare la pelle. Del resto, questa volta, sarebbero in pochi a poterci biasimare: si pensi al Giappone, questo popolo così simbolicamente strutturato, da cui deriva la cultura dei Samurai ed, appunto, la pratica del Kamikaze, questo popolo così pronto al sacrificio ed all’obbedienza che, non appena ha saputo che c’era stato l’attentato agli italiani essendo in procinto di inviare un contingente di tremila uomini… ha deciso bene di farne a meno. Si pensi ai portoghesi (i portoghesi!) che dovendo sostituirci a Nassirya hanno deciso di non sostituirci e di starsene a casa loro tranquilli. Insomma, chi ce lo fa fare?
4. Perché morire per Nassirya?
Non lo possiamo fare per convinzione ideologica (noi non abbiamo mai creduto in questa guerra, non ci ha creduto neppure chi in parlamento si è espresso a favore dell’intervento militare) non lo possiamo fare in nome del valore superiore dell’Occidente (siamo noi i primi a sapere che questo valore è ben discutibile e che spesso nasconde puri interessi economici), non possiamo appellarci alla nostra storia che semmai ci ha visti, più volte, venir meno agli impegni presi. Non possiamo neppure negare che il discorso dei terroristi, pur nella sua criminale spietatezza, abbia una certa logica: mette al bando le ambiguità, opera una cesura netta: o con noi o contro di noi. Per restare a Nassiryia a svolgere con impegno massiccio proprio la nostra ambigua (obversa) missione c’è un unico argomento forte: quello che deriva dallo sguardo freddo sul Reale, sul cratere con le macerie intorno, sui cadaveri, italiani e iracheni, faticosamente estratti dai resti del nostro insediamento militare e pacifista insieme. Noi italiani abbiamo una capacità straordinaria di affrontare il Reale, quel momento tutto nero nel quale nessuna possibilità di sopravvivenza sembra avere senso. Abbiamo questa possibilità perché non abbiamo quasi mai avuto una struttura simbolica solida, non abbiamo mai avuto senso dello Stato o della Missione da compiere ed abbiamo un’innata tendenza ad autoderiderci non appena una qualsiasi struttura immaginaria si impadronisce di noi. Siamo niente insomma, e sappiamo di esserlo, come diceva Leopardi a proposito dei nostri costumi. Tuttavia, forse, è proprio in questa consapevolezza, in questo soffermarsi sul negativo che risiede la possibilità di una risposta decisa ai terroristi che hanno cercato di mettere a nudo le nostre contraddizioni: chi sono loro infatti se non esseri vuoti e paradossali quanto e più di noi? Che cos’è il loro Islam se non una finzione immaginaria assai più patetica di quella che descrive noi come guerrieri pacifisti? E non sono loro degli islamici occidentali (occidentali nella formazione nella cultura nella tecnologia)? E non sono tanto più occidentali quanto più cercano di differenziarsi dall’Occidente? E non combattono forse per il Potere, per il Petrolio, per il Controllo, al di là di tutte le chiacchiere sulla Fede, sulla Moralità, sull’Onore? Proprio il fatto che essi attacchino gli italiani nella loro opera di mediazione non dimostra forse che questa mediazione è ciò che essi maggiormente temono, al punto da non peritarsi di uccidere anche degli altri arabi pur di tagliare tutti i ponti? Si rimane a Nassiryia, allora per difendere uno stile: non una ideologia, non una fede, non un punto di vista politico, ma proprio l’ostinata affermazione che qualcosa, qualcosa nel buco del Reale si renda coglibile a prescindere da qualsiasi razionalizzazione culturale. Paradossalmente lo stile italiano diventa difendibile proprio grazie ai suoi limiti, trae la forza dalla sua debolezza. Noi, infatti, non istituiamo differenze, semmai le sottaciamo, ci facciamo partecipi di una comune umanità disincantata che pensa tristemente a sistemare i suoi cadaveri, che preferisce distribuire medicine piuttosto che parole d’ordine che è disposta a sacrificarsi solo quando non c’è alcuna posta ideologica da difendere.
Ecco perché gli italiani dovrebbero rimanere in Iraq, dovrebbero anzi andarci più numerosi, dovrebbe andarci, rischiando personalmente la sua vita, proprio il Presidente della Repubblica (non quello del Consiglio). Perché se anche il nostro stile fosse immaginario (come probabilmente è) se anche questa che abbiamo difeso non fosse, ancora, la verità degli italiani, sarebbe pur sempre meglio un immaginario discreto e disperato quale il nostro che non quello barbaro e unilaterale di chi ci uccide.
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Finora mi sembra il migliore articolo letto sull’argomento, forse perchè è l’unico che scende nei meccanismi dell’immaginario collettivo.
Sulle conclusioni ho qualche dubbio, in particolare sulla praticabilità di mandare Ciampi in Iraq, ma in questo caso nessuno credo abbia delle reali soluzioni già pronte, e comunque mi appare come una garbata provocazione.
Gentile Antonio Piotti,
il suo articolo rivela uno dei vizi più diffusi nell’occidente: l’arroganza intellettuale fondata sulla non disponibilità a “conoscere” l’altro. Io credo invece che la possibilità di uno scambio dialettico con una cultura millenaria (o meglio le tante culture millenarie) del mondo arabo e islamico in generale sia assolutamente da praticare. Nella mia limitata esperienza in Tunisia, Marocco, Turchia, Egitto, Kossovo ho compreso e apprezzato le molte complesse differenze e sfaccettature di un mondo che spesso gira su principi completamente diversi dai nostri, ma non per questo meno validi e radicati. Ritengo ormai una necessità indispensabile della nostra società globale (e ancor di più dei cosiddetti intellettuali) quella di conoscerne almeno gli aspetti principali (senza stare ad ascoltare i luoghi comuni e le semplificazioni fanciullesche che vedono buoni di quà e cattivi di là, progrediti di qua e regrediti di la, combattenti legittimi di qua e terroristi di la). Ciò è importante anche perchè se da noi si parla molto poco di questa realtà millenaria, viceversa loro ci conoscono benissimo.
Io ritengo che il confronto non debba essere un confronto armato, bellico, distruttivo (sia a livello immaginario/dialettico che reale) anche perchè diventa sempre difficile confrontarsi con una persona con un mitra in mano. Ma Le ricordo che il mitra hanno scelto di imbracciarlo quei nostri poveri ragazzi; il mitra ha scelto di imbracciarlo l’Italia in una guerra che personalmente ritengo più che altro coloniale.
Immagino che le famiglie dei soldati e dei civili francesi uccisi in Algeria, negli anni ’50 e ’60 del sanguinoso secolo XX, piangessero i loro cari, a buon diritto. Del resto, moltissime di quelle vittime non avevano nessuna colpa. Erano andate a difendere l’ordinamento coloniale perché comandate, perché lo giudicavano naturale, perché qualcuno le aveva convinte che fosse un dovere.
Il problema è sempre quello. Si comprende concretamente che cosa è la guerra quando ti ritorna a casa tuo fratello o tuo marito o tuo padre in una bara. Solo allora si tocca con mano l’essenza ultima della guerra. Riguardo ai fiumi di retorica patriottarda dagli echi risorgimentali che chiama a una sorta di nostra riscossa nazionale penso che in tutto ciò, in questa unanime fanfara, ci sia una nota stonata. Questa volta i patrioti sono gli altri. Noi siamo gli austriaci, gli occupanti, gli invasori.
Quanto prima ci si renderà conto di questo, tanto prima si potranno ipotizzare vie d’uscita efficaci, onorevoli e lungimiranti nei confronti del dialogo tra occidente e oriente.
Mi sembra un articolo lucido quello di Piotti, ci permette di fare un passo avanti nell’analisi, spostandola su una fenomenologia dell’immaginario. Ma le conclusioni non le capisco. Non mi fermerei cosi presto. L’immaginario italiano è questo, dice Piotti. Da cio’ deriva il nostro stile. Non è dei peggiori il nostro stile. Bene. Ma io mi interrogherei su questo immaginario. Esso è inattaccabile, fatale, rimarrà eternamente radicato in noi come una maledizione (o una benedizione)? Dobbiamo confermarlo questo immaginario ancora una volta? Anche dopo averlo smontato? O possiamo provare ad immaginarci diversamente?
Secondo punto. La conclusione di Piotti fa perno alla fine sull’immaginario “barbaro e unilaterale dei combattenti kamikaze” (fedeli di Saddam o di Ben Laden?) Il nostro invece sarebbe discreto e disperato; disperato perché? Non siamo forse alleati degli Stati Uniti, non partecipiamo forse dell’immaginario nordamericano che ha mosso questa guerra? E non è un immaginario che ha dimostrato di essere anch’esso barbaro e unilaterale? Io vedo tremende simmetrie tra i difensori mondiali della democrazia, con il loro terrorismo di stato, e i difensori mondiali della teocrazia con il loro terrorismo clandestino e fuorilegge. (E dico questo anche se sono molto più vicino, per mille abitudini e stili e pensieri, agli Stati Uniti e molto lontano, alieno, ad una nazione islamica e teocratica.)E’ questa simmetria che bisogna rompere; e quindi sono d’accordo con il ruolo di mediazione sempre più urgente. Ma si puo’ fare mediazione oggi in Irak? Non è troppo tardi per questo. Se fossi un soldato italiano, dopo quello che è successo sparerei anche alle mosche, ai bambini sospetti, ai vecchi che si avvicinano troppo; quale mediazione puo’ essere possibile in un tale caos di sospetto, paura, minaccia? C’è appunto del reale. Una guerra. E, come lei dice, Piotti, l’Italia vi partecipa. Io, come molti altri, non la volevo; molti italiani hanno pensato che fosse inutile, sbagliata, nociva. (E non solo i soliti pacifisti italiani di sinistra, che scendono in piazza come automi. Non solo loro.)Tutto mi pare stia confermando che fosse una guerra a cui non si doveva partecipare.
Lei conclude le sue acute analisi in modo troppo brusco. E facendo perno sul nemico, che è barbaro e unilaterale. E per dire che bisogna restare. Per fare che cosa, mi chiedo? Testimoniare di uno stile di guerra più umano in mezzo ad una guerra disumana. (Le bombe a frammentazione sono meno barbare dell’uomo bomba?) Chi ha deciso che fosse questa la nostra missione? La maggioranza saprebbe difendere questa visione delle cose? E noi, minoranza contraria a questa guerra, dovremmo essere convinti ora da questo argomento?
Non mi ha convinto. E pero’ la ringrazio delle sue analisi, perché credo che siano davvero utili per tutti.
Splendida la conclusione di questo articolo. La parte iniziale, che condivido in buona parte, non è molto dissimile da analisi viste altrove, ma l’idea di difendere uno “stile” è tanto nuova quanto intrigante.
Ho postato una copia dell’articolo su http://alicebbs.darktech.org/
pensando che fosse bene allargare la lettura.
Per il resto, mi sembra che l’immaginario “barbaro e unilaterale dei combattenti kamikaze” non sia dovuto ad un modo di vedere prevenuto di Piotti, ma alla barbarie in cui l’Occidente sta spingendo molti paesi del terzo mondo. Del resto, abbiamo avuto la barbarie a due passi da casa, in Jugoslavia, e non credo che sia finita.