L’ARTISTA PENSATORE (lettura della “Macchina mondiale” di Volponi)
di Antonio Moresco
Trascrivo qui alcuni appunti, sviluppati poi a braccio in un incontro su Paolo Volponi che si è tenuto a Cagli il 28 novembre del 2003.
Vi ringrazio per avermi dato il pretesto di andarmi a rileggere dopo molti anni “La macchina mondiale”, che avevo incontrato per la prima volta a 18 anni e di cui ho ancora in casa il volume Garzanti comperato allora. C’è scritto: “Prima edizione, marzo 1965”. Perciò non a 18 anni ma a 17, dato che sono nato alla fine di ottobre. Prezzo: 1800 lire. Meno di 1 Euro di adesso.
E’ il primo libro di Volponi che ho letto, dopo averlo visto in libreria quando era appena uscito.
I primi libri letti di uno scrittore -anche se non sempre e non necessariamente sono i più grandi- sono però quelli dove per la prima volta passa il suo dna e quindi si imprimono dentro di noi con un’intensità particolare, come quando si viene a contatto per la prima volta con qualcosa d’altro e di mai conosciuto prima. Un’impressione a volte così forte che -mi rendo conto- ancora adesso, molto spesso, i primi libri che ho letto di certi scrittori restano ancora per me i più indimenticabili e amati. Continuo a sentirli con maggiore intensità e irradiazione di altri, sono quelli che si sono impressi più profondamente nella corteccia cerebrale e hanno creato lì il loro primo spazio. Chissà, per esempio, se la mia percezione di Dostoevskij sarebbe identica se il primo libro suo che ho letto non fosse stato “L’idiota”, se il mio primo libro di Kafka non fosse stato “Il castello”, il mio primo Céline “Morte a credito”, il mio primo Faulkner “Luce d’agosto” ecc…? Allo stesso modo non saprò mai se “La macchina mondiale” è ancora adesso il libro di Volponi che amo di più solo perché l’ho letto per primo o se è così anche per altri motivi.
Dopo questo, ho letto altri libri di Volponi, su cui mi è capitato anche di esprimere per iscritto le mie perplessità, quando mi è parso, a torto o a ragione, che certe urgenze ideologiche opprimessero un po’ la sua radicalità e la sua libertà, che i due elementi liquidi si scorporassero e si vedesse un po’ troppo il residuo sul fondo. Cosa che non succede ancora nella “Macchina mondiale”, dove tutto è ancora indistinguibile e fluido e la forza eversiva di pensiero e forma è ancora indivisibile e baricentrica.
Ma è solo una convinzione che mi porto dietro e che non ho poi verificato con nuove letture. Lo farò in futuro, sicuramente, e allora forse capirò se le cose stanno per me veramente così o se mi ero sbagliato e dovrò ricredermi.
Questa è una lettura da scrittore. Non aspettatevi perciò un approccio da critico letterario, attento ad analizzare le particolarità stilistiche e compositive separate del libro e a collocarlo in questa o in quella casella. Cercherò soltanto di farvi arrivare ciò che è arrivato a me, sia come lettore che come scrittore.
La prima frase del libro, quella con cui ti viene incontro, è questa:
“Il mio pensiero e la mia materia, le lacerazioni che si producono all’interno, nel tracciato della mia macchina e nell’accensione dei diversi commutatori, mi tengono anche vicino alle cose e ai fatti che camminano intorno a me, nella mia casa e nella mia campagna e in questo pezzo di terra marchigiana dalla parte dell’Appennino, che viene chiamato la parrocchia di San Savino. Qui intorno le cose vanno molto piano oppure fuggono rapidissime, ignoranti quanto accidentali; e non hanno ordine, come ancora non hanno ordine queste colline e questi scoscesi, i fossi ed i calanchi che da San Savino vanno verso Frontone o Monlione o l’Acquaviva; anche se i filari, le strade, il fumo dei camini e i riflessi dei vetri delle finestre compongono spesso tutti insieme, specie la domenica, una rete che può sembrare il disegno di un progetto meccanico, cioè il tentativo di una perfezione e di una felicità.”
Cosa mi avrà immediatamente colpito di questa frase iniziale? Forse il suo massimalismo, la compresenza di poesia e pensiero, il “tutto pieno”, a differenza di altri scrittori in cui l’ordito è evidente ed esibito e semplificato, senza l’ingombro lirico e corporale della materia in pensiero. Probabilmente questo libro mi avrà dato – quando ero ancora ragazzo e dovevano passare ancora molti anni prima che diventassi uno scrittore- l’idea di cosa possa essere la prosa, di che cosa sia in grado di muovere una prosa consustanziata.
Poi mi avrà probabilmente colpito anche questo modo di entrare e di presentarsi direttamente, denso e fluido, questo passo letterario dove si sente il respiro cosmico di Leopardi. Questo modo di entrare sfondando la porta, senza scorciatoie letterarie e senza separazioni e siparietti narrativi e mossette compositive. Il gesto appassionato e infantile di presentarsi immediatamente così, con tutto questo tormento e questa bellezza, con questo sogno infantile dell’unità di scienza e arte e della perfezione e della felicità.
Gli scrittori degni di questo nome sono dei pensatori. Qualsiasi cosa scrivano, anche quando narrano solamente. Non solo quando esprimono una massa di pensiero separato o apparentemente separato dal suo peso corporeo, ma anche e forse soprattutto quando questo movimento è unico e indistinguibile. E’ anzi proprio questa indistinguibilità a portare lacerazione mentale e pensiero anche dentro il pensiero. Eppure è proprio questo che viene immediatamente rifiutato e addirittura ridicolizzato negli scrittori. A tutti noi è capitato chissà quante volte di notare come molta critica sia soprattutto preoccupata di negare a priori lo spessore di pensiero degli scrittori, che bisognerebbe prendere solo come artisti, che il resto non conta, non fa per loro, non è pane per i loro denti, che bisogna collocarli solo nella sfera separata della letteratura e dell’arte, che anche il pensiero in loro è solo arredamento artistico ecc… Come se il pensiero si potesse trovare solo in un luogo fisso e deputato a questo che si chiama “filosofia”, come il pane dal panettiere, le supposte dal farmacista. Come se -allo stesso modo che l’arte- anche il pensiero fosse un’attività separata e separabile da tutto il resto, che obbedisce solo alle proprie leggi puramente autoreferenziali, in cui niente può entrare e niente uscire. Che è poi il modo migliore per non confrontarsi mai veramente e profondamente né con la densità di pensiero e di conoscenza e anticipazione che si apre a volte nella cosiddetta letteratura né, al tempo stesso, con chi ha fatto dell’attività di pensiero un puro dominio separato e consequenziale.
Invece gli scrittori sono dei pensatori. Pensano! Anche se non vengono presi sul serio, non vengono ascoltati. Mentre vengono invece immediatamente accettati gli scrittori che non producono pensiero ma piccole teorie e caricature di pensiero e forma, orizzontali, stilizzate, separate e assemblate senza rischio e pericolo.
Così, anche dalla rilettura di questo libro e di questo scrittore, tenuto in uno spazio onorevole ma marginale e ininfluente, si rafforza in me la convinzione, già espressa dopo la lettura o la rilettura di altri libri italiani, che gli scrittori grossi non sono stati veramente accettati e capiti dalla nostra intellighenzia, che tutto il nostro Novecento è da riattraversare e da ribaltare e rimettere in movimento e che, se tutto questo non viene fatto da altri, allora devono essere gli scrittori in prima persona a farlo prendendosi le loro responsabilità a 360°. L’Italia è un paese frivolo e nello stesso tempo protervo, non pare avere né il dono della leggerezza né quello della profondità.
A volte rileggere dopo tanti anni un libro che si è amato in gioventù è una delusione. In questo caso non è stato così. Tutto mi ritorna indietro con la stessa potenza mentale e linguistica, lo stesso fascino e lo stesso respiro che mi erano arrivati alla prima lettura, come se il tempo non fosse passato.
E allora, rileggendolo dopo quasi quarant’anni, capisco meglio come alcuni aspetti di questo libro possono essermi rimasti dentro e aver lavorato. Cosa che mi è successa con pochi altri italiani letti disordinatamente e voracemente in quel periodo della mia vita, prima di smettere di leggere per dieci anni e di gettarmi anch’io nelle mie illusioni politiche e rivoluzionarie. Se ci penso, mi vengono in mente solo “Se questo è un uomo”, una cotta dura per Pavese. Dei libri di scrittori viventi che uscivano in quegli anni, qualcosa di Moravia, Pasolini… “Il male oscuro”, qualcosa di Bassani e Cassola, con buona pace degli etichettatori di turno che già si erano levati in volo in quegli anni, qualcos’altro che non mi viene in mente in questo momento. Non Gadda, non Fenoglio e neppure Bilenchi e D’Arrigo, che ho incontrato soltanto dopo o molto dopo.
“La macchina mondiale” è un libro-discrimine, scritto quasi al termine delle illusioni della modernità e del “progresso” e poco prima delle esplosioni politico ideologiche della fine degli anni sessanta e dei successivi ripiegamenti e rovesciamenti nella mancanza di illusioni della cosiddetta postmodernità. Una di queste illusioni -radicalizzata e nello stesso tempo oltrepassata da Volponi in questo suo libro- era quella della tensione scientifica e tecnologica e dell’ingegneria sociale in grado di rigenerare il mondo.
Volponi è pieno di queste illusioni, ma sfugge, da artista e da pensatore, al rischio di fare un’opera propagandistica, datata e appiattita inventandosi, come portatore di questo sogno e di questa illusione, un personaggio sghembo, esaltato, irriducibile e toccante ma anche con tratti ridicoli e miserabili. Sembra che Volponi, con gesto radicale di poeta, abbia voluto caricare su queste povere e “folli” spalle le sue stesse utopie di una rigenerazione dell’uomo attraverso una diversa organizzazione della vita e la potenza macchinica dell’autocreazione. Eppure, a differenza di molti altri scrittori degli stessi anni, fortemente antropocentrici e per i quali sembrerebbero esserci solo le strutture sociali, politiche e mentali umane (come se bastasse cambiare queste e poi c’è il paradiso, come se non ci fosse assolutamente niente prima e dopo di queste…), in Volponi viene preso dentro tutto il disegno cosmico e le altre forme di presenza e di vita sulla terra e nell’intero universo, in un’ansia di totalità progressiva dove Leopardi è nello stesso tempo salvato e tradito.
Protagonista di questo libro è un Don Chisciotte impazzito -invece che a causa dei libri di cavalleria- a causa delle utopie scientifiche e tecnologiche e dell’illusione che queste possano essere di per sé antagonistiche e salvifiche rispetto ai nuovi poteri emergenti e non ne siano invece, in questa epoca, uno dei suoi aspetti più minacciosi, dinamici in apparenza ma in realtà totalizzanti e bloccanti.
Come un Giordano Bruno psicolabile al termine dell’arco della modernità. Eppure sta proprio in questa fragilità la forza mentale e poetica del libro e del personaggio. E’ come se tutti i miti e le illusioni progressive che lo attraversano convivessero, non si sa come e perché, col leopardismo dell’autore. Come se l’uomo fosse ancora dentro queste illusioni e l’artista pensatore fosse già oltre e salutasse con questo atto di disperazione e d’amore un’epoca che si stava concludendo e al termine della quale si era trovato a vivere.
Questo libro va a toccare aspetti nevralgici di questa epoca, in cui il rapporto tra l’uomo e il proprio pianeta sembra essere arrivato al limite, anche al limite di specie, e dopo il quale non pare possa esserci altro che una catastrofe o una reinvenzione.
Sono molte le opere che sono entrate a capofitto nel mito fondatore e totalitario della modernità. Il “Faust” di Goethe, tanti altri, come “La ricerca dell’assoluto” di Balzac, protagonista del quale è un nobile fiammingo perso nei suoi studi chimici e nella ricerca dell’unità della materia. Ma il faustismo, ancora presente nell’opera di Balzac, è rovesciato nella “Macchina Mondiale”, dove il protagonista, reso anche nei suoi aspetti più asimmetrici e “folli”, non può trovare come approdo finale che l’autodistruzione.
Perché Volponi -ripeto- non è un propagandista, un epigono. Il suo sogno della modernità non è consolatorio e pubblicitario, è (ancora) drammatico. Per cui il protagonista è come storpiato anche dentro di sé da questa torsione epocale arrivata al suo limite, al suo stesso discrimine. E anche il libro è al limite, perché è arrivato a toccare un limite. Anche letterariamente. Provate ad esempio a paragonare il protagonista di questo libro ai tanti successivi e più manieristici e consolatori stralunati e “semplici” matti della “scuola emiliana”, di cui è in realtà il grande progenitore italiano, e vedrete anche da questo quale scarto e svuotamento e sdrammatizzazione nelle forme artistiche e di pensiero siano passati nel finto superamento speculare e rovesciato di questo limite e di questo discrimine nella cosiddetta postmodernità.
“Avrei dovuto soltanto interrogare la terra e gli uomini ed anche gli animali, arrivare nel ventre della natura e poi costruire e poi veder cadere le figure geometriche di coni, rombi o di qualsiasi altra forma materiale, fino a trovare quel punto, atomo, molecola, cellula, monade, quel punto originale e comune che è uguale per tutti; cioè fino a stabilire e a congiungere le conseguenze uguali e le similitudini che corrono fra gli esiti naturali e realizzati e gli aspetti dei risultati artificiali.”
Gli “automi autori” da cui siamo stati creati e che dovremmo diventare a nostra volta in futuro per dare vita a una nuova umanità superiore, più libera e armonica all’interno della macchina generale del mondo. Il sogno macchinico infantile dell’”arrivano i nostri” delle macchine:
“… mi mettevo a sperare di poter improvvisamente sentire le macchine entrare nel campo costruito tra i vertici dei poggi: e a sperare che queste macchine fossero già costruite e perfezionate, e che mi venissero mandate dagli automi-autori che avevano sentito della mia sorte e che mi mandavano proprio le macchine come un esercito fedele, tanto per provare la verità della mia dottrina quanto per poter attaccare le case, i muri e le cisterne dei cattivi vicini e delle parentele di Massimina.”
Anche la storia d’amore che attraversa il libro e la sua tragica conclusione ci dicono che tutta la vita, così com’è, dentro questo contenitore, non è più vivibile. Alla fine Anteo si suicida, Massimina ammazza il figlio appena partorito. Tutta la storia collassa. Eppure -in un mondo diverso- forse quei due avrebbero potuto essere fatti l’uno per l’altra…
L’illusione salvifica totalitaria al termine della modernità e alle soglie della postmodernità. L’illusione di sfuggire all’entropia e alla morte passando attraverso di esse in forma macchinica. Il mito ingenuo della scienza nell’epoca in cui questa è già tecnocrazia e seme pervasivo di totalitarismo. Perché questa idea della macchina mondiale, questa tensione alla mutazione è già interna all’idea del macchinico. In questa spinta verso l’armonia è presente anche un desiderio di schiavizzazione biologica della vita.
Le grandi, feconde contraddizioni di questo libro e di Volponi stesso:
Un po’ contro e un po’ interno alle logiche del nuovo potere tecnologico che tende alla macchinizzazione universale. Una ribellione basata sul mito della scienza, come se tutto questo non fosse già interno e funzionale ai tempi e ai poteri nuovi.
Leopardiano e antileopardiano.
L’illuminismo e il progressismo che diventano follia totalitaria. La simbiosi di tecnica e morte.
La volontà di conoscenza del funzionamento intimo della materia e dei corpi e della loro possibile armonizzazione viene alla fine a coincidere con la morte. E Volponi lo sa, non lo nasconde: (“Avrei voluto sempre, e lo desideravo ardentemente, che dopo quell’istante il norcino si buttasse subito sulla bestia per squartarla, per vedere come la vita fuggiva dalle varie membra traendosi con gli ultimi movimenti e come la morte entrasse a disporsi pesantemente su ogni fibra.”).
Eppure tutto questo mondo visto con un simile occhio meccanico non è un mondo morto, meccanico, non più organico.
Altra contraddizione, che a me sembra in realtà -come le precedenti- in grado di aggiungere forza e complessità al libro: questa potente lingua piena filosofica e lirica ma fuori asse in bocca a un personaggio contadino e tutto teso al sapere scientifico.
Alla fine tutto termina nella compresenza curva di fallimento epocale e di specie e di rilancio che attraversa le pagine finali di cui trascrivo qui solo alcuni brani, per dare ancora un’idea diretta della straordinaria e commuovente voce di questo scrittore pensatore:
“Tutto preciso intorno a me, spazio e tempo, (…) tutto insieme, composto, volto a migliorare la mia sorte attraverso il pensiero e la scienza, la confidenza e lo studio; tutto insieme nell’evoluzione per poter giungere a inventare una macchina migliore e un ambiente migliore nel quale la natura possa essa stessa avvertire il significato di andare avanti secondo la linea retta e non ripetendo le sue fasi secondo il ritmo della morte e dell’apparente rinascita.”
“Invece oggi posso dire che il sentire poetico, che è la visione artistica, è anch’esso uno strumento della scienza; oppure che la scienza può avere due teste come ventimila o due milioni, e penso che la felicità delle macchine libere sia una felicità artistica, che si gode nello stesso momento in cui progredisce per l’intervento di chi la fa progredire. In quello stesso momento in cui vive e progredisce, in cui uno fa e gode come nelle creazioni.”
“Sento dei rumori e non posso fare a meno di andare a guardare alla finestra; la notte è tutta viola, umana, ma il suo colore si sta purificando e cola nei fossati e nelle crode; sento che perde un peso, un affanno informe dietro le montagne.
Si sta irrigidendo ogni cosa, ogni materia e lo spazio fra la mia finestra e la porta alle mie spalle è ormai denso anche per l’ impressione che mi ha sempre fatto il freddo intorno. Debbo solo lasciare questa finestra, voltarmi, traversare la stanza e salire. Adesso comincio.”
Finisce così questo libro, che ormai da molti anni non è più reperibile in volume singolo. Lo si può trovare solo inglobato e sepolto nei volumoni dell’opera omnia della Nue tramite i quali Volponi è ormai consegnato e liquidato e marmorizzato, come se non potesse avere più una sua vita singola, dinamica e umana, essere ficcato in una tasca, passare di mano in mano e interagire con quanto sta succedendo nella vita del mondo. E questo proprio mentre le domande che esso pone, al di là delle terminologie e delle illusioni e delle persuasioni, sono ancora lì, aperte, brucianti, inevase, tanto più oggi, in epoca di massacro e appropriazione delle strutture viventi, di ingegneria genetica e intelligenza artificiale e clonazione, in cui la vita è tutta da reinventare e in cui vasti movimenti di persone e di idee sono di fronte allo stesso limite e discrimine di pensiero e di specie e alla stessa inermità e allo stesso bisogno e allo stesso sogno di uno spostamento verticale e di una lingua comunicante forte e consustanziata, vera e inventata, carica di poesia, anticipazione e pensiero.
1 Commento.
Beh, Zweig, ho riso per un quarto d’ora.
Apro NI e vedo che c’è un commento. mi dico: “finalmente un commento.” Vado a leggerlo: “1 commento”. Strepitoso. Ora però non riesco a dire più nulla sul pezzo di Moresco. Sarà per la prossima volta.
ciaociao, gianni
2 commenti.
Son contento che ridi. Io e te abbiamo questionato, se non sbaglio. (Sono Don Giovanni – l’attacapanni).
“Segna e depenna Ben-Hur
sono Don Giovanni
rivesto quello che vuoi
son l’attaccapanni.”
Questo dicevano (cos’era, il 1986?) Battisti-Panella. Ecco perché non mi riesci antipatico, anche se ce la metti tutta per impepare la languente discussione.
D’altra parte:
“Non penso quindi tu sei
questo mi conquista.
L’artista non sono io
sono il suo fumista.”
Ciao Don Giovanni. A presto, Gianni
Grazie davvero Biondillo per la citazione! Modestamente…
Però, per amore di verità e di giustizia, io sono anche quello del “trottolino amoroso du du du da da da”, (Minghi-Mietta) e de “che belle scene, di lei che viene, tra luna e pene…” (Zucchero).
Sono pronto a pagare, tremendamente pentito.
Cari saluti,
Pasquale
Che vuoi, nessuno è perfetto. mio padre continua a fumare, anche se è stato operato di cancro ai polmoni. Che devo fare? Ucciderlo? Gli voglio bene lo stesso…
(grazie per avermi fatto credere di essere Panella),
Gianni
Bravo Biondillo, l’hai tanato subito. Panella non scrive così. Per dimostrarti che c’hai azzeccato, ti scrivo qualche riga, a la manére de…mia…di Panella, cioè…
Ciao.
“Ecco. Vado a braccio, a colpo, a urto sulla tastiera.
Qui ti devo dire che quello che leggi l’ho riscritto adesso adesso perché
al terzo urto (di prima) chissà cosa ho toccato, è sparito tutto, parole e
lettera
in corso. Ricominciamo:
Diagonale alto sinistra-basso destra: ‘”(tgyhnujk;l:
Diagonale alto destra-basso sinistra: iujnhygf
Annusata di gatto: er è)'”bfdkls
Strusciata di ramo: hvbm)uyhb
Pietra emergente: ,hjp;lm:ò§%
Orizzontale da sinistra: sdfghjkl;:ò
Orizzontale da destra: mlkjhgf
Plausibili: gulhixanh, quhxirls, oijflhlank, bodo bodo, prau orleope,
crank olissei, murdillana (non so, andiamo verso un senso)
Ci sentiremo, ciao. Tuo
QUIXOPAL”
Don Giovanni, tu usurpi il tuo stesso nome, diciamo così! Biondillo, io SONO Panella. Te ne do qui di seguito una dimostrazione
Il miracolo economico distingue il cosmico mutare delle languenti anime
Leviatano mangia mele senza stele d’egiziano Leviatano mangia miele d’ambrosolico consòlo
quando la notte viene godendo l’alba avviene
Eccetera eccetera.
Solo un grande AUTORE come me può scrivere cose così. Ciò non toglie ch’io mi vergogni delle markette fatte per Don Minghi e San Zucchero.
Cordialmente parolando,
Pasquale Panella
(L’originale, come l’Amaretto di Saronno)
Ma Pasqualuccio,
“vattene amore” era un piccolo capolavoro di lucida stoltezza, di inebriante romanticume, uno zircone cosparso di miele distillato, un trapano affettivo, un tarlo melodioso, un lied rivierasco… se fossi Panella ne andrei orgoglioso. Tutto e il contrario di tutto, il lato “A” e il lato “B”, una lezione di composizione canzonettista da un nonparoliere.
Ecco perché tu non sei tu. Anche perché leggendoti, Diomio, come sei caduto in basso!
ti abbraccio comunque, Gianni
(ma Moresco, poveretto?)
Perché non aprite un blog? Così potete andare avanti lì a fare i bisognini.
Ha ragione Baratto, smettiamo di sporcare. Lasciamolo intonso questo spazio, lasciamolo bianco. Ricominciamo da capo. 0 Comments.
Gesù mio, Sergio, quanta aggressività, quanta protervia.
Neppure la pausa sigaretta… sempre teso all’alto compito, mai un momento di amichevole rilassatezza. Subito a bacchettare, a castigare, a mettere dietro la lavagna.
Me ne dispiaccio per te. Deve essere un incubo uscire da teatro fra amici con te. Il primo che dice qualcosa fuori dal tema del contendere verrà da te sicuramente svillaneggiato in pubblica piazza.
Su, dai, Moresco non credo che si arrabbi se abbiamo rubato un po’ del suo spazio. Ormai la sigaretta è finita, possiamo tornare tutti alle cose serie. E vedrò di pisciare da un’altra parte, se proprio ti da fastidio, non pensavo di essere così maleducato da non centrare il water.
In amicizia, Gianni
1 Commento.
Biondillo, sei tutti noi. Ma chi è ‘sto baratto, ma andasse…
A Barà, ma vattelappià…
Sai Gianni, ciò che fa veramente male (anche all’anima) è la seriosità. Non mi stancherò mai di ripetere, non appena ne avrò l’occasione, che la seriosità è una falsa serietà che si dà delle arie. La leggerezza è dote rara, e pubblicamente ti dico grazie, perchè in questo meritevole Nazione Indiana, se proprio vogliamo trovare dei difetti, manca un pò di (intelligente)leggerezza, e tu sei uno di quelli, qui, che fanno egregiamente la loro parte in questo senso. Ora lascio campo libero ai serissimi e interessantissimi discorsi su Volponi e Moresco che sicuramente seguiranno.
Secondo me è Scarpa che ha dato questa impronta. Fa il goliardico, ma la leggerezza e l’ironia non sa nemmeno cos’è.
Baratto è uno che aggiusta i motorini, credo. ‘Navorta m’ha montato ‘na marmitta Sito, se non me sbajo. A Bara’, sei te? Sei aperto domani?
Ma sto baratto lo so io chi è, è uno che scrive pe nun piagne.
Be’, Gianni, mi ero solo un po’ irritato, una volta arrivato al nono commento fuori water. In genere non castigo nessuno, tantomeno fuori dai teatri (io odio il teatro).
E non sono aggressivo. E’ che a volte, sai, è difficile rendere le sfumature extra-verbali (l’espressione, il tono…).
in amicizia, Sergio
A Panella l’augurio di guarire dalla calvizie, a Mariuccio e Sancho una breve e innocua diarrea fulminante.
Sei fuori strada. Panella è pieno di capelli.
La cosa bella è che nessuno s’è filato il pezzo di Moresco. Io manco l’ho letto, e manco lo farò.
Moresco è stato oggetto di un vergognoso attacco. Vorrà dire che metterò di nuovo la foto con la sua faccia che sanguina nel mio sito. In segno di protesta!
Genna, ma da chi è stato attaccato Moresco? Me mi da che sei completamente tuonato!Semprechè tu sia veramente Genna.
Se sei Genna non dimenticarti dell’immaginetta di Padre Pio accanto a quella di San Moresco, mi raccomando.
Non era Genna, ero io. Salta in piedi, Sancho, è tardi, non vorrai dormire ancora!
Giggetto er carrettiere ha parlato male di Moresco! Andate a rileggervi il post!
Ecco, ora per me la situazione è alquanto imbarazzante.
Pensavo fosse l’intervallo e sono uscito a fumarmi la sigaretta, ho fatto due chiacchiere con i passanti, due spiritosaggini, nulla di più.
Qualcuno (il professore?) ha pensato che stessi pisciando fuori dall’urinario. Ci siamo spiegati a vicenda, ci siamo capiti, da persone civili (ho reputato più che civile la replica di Sergio).
Mentre io fumavo qualcuno ha pensato: altro che intervallo, qui occupo la scuola!!!
Si poteva:
a) Fare un collettivo e discutere di cose serissime.
b) fare casino.
Casino!
Alcuni lo hanno fatto in modo anarcoide e divertente, altri sono subito passati all’insulto diretto ai presenti (Baratto) e agli assenti (Scarpa) tirati dentro per le orecchie.
Qualcuno poi ha millantato identità, tanto per seminare zizzania. E’ saltato fuori un Genna poco credibile. Tra l’altro, apro e chiudo parentesi, il tiro al Genna sta diventando uno scontatissimo sport nazionale. Non lo conosco, ma gli auguro di avere le spalle larghe. Comunque, “molti nemici molto onore”.
E’ la logica di internet, lo sappiamo. Però, per assurdo, è stato proprio, involontariamente, Baratto a scatenare il tutto. Ora potrebbe accadere persino che qui si scateni un’altra di quelle guerre senza senso, fatte di pura aria fritta, che abbiamo già conosciuto nei mesi scorsi.
Se ne ho in minima parte responsabilità me ne scuso.
Però è vero che:
1)Il discorso di Franz è da non perdere di vista. Prendersi troppo sul serio non è una cosa seria.
2)L’argomento trattato da Moresco è di grande interesse e, involontariamente, è già in qualche modo in discussione altrove (vedi la polemica su LVT con Andrea, Helena, Franz, Gabriella, etc. nel mese di dicembre). L’impossibilità di (o, anzi in dovere di non) scindere il “pensiero” dall’artista etc…
3)Quattro risate non fanno mai male a nessuno. I nickname sono un modo di rappresentarsi, millantare i nomi di altri (non palesemente per gioco, ma con l’intenzione di intorbidire le acque) è disonesto. Una cosa è la goliardia, un’altra la provocazione.
4)Leggete Moresco.
5)Baratto aggiusta motorini? Panella è calvo? E io sono biondo?
Vi abbraccio, Gianni
Ecco, ora per me la situazione è alquanto imbarazzante.
Pensavo fosse l’intervallo e sono uscito a fumarmi la sigaretta, ho fatto due chiacchiere con i passanti, due spiritosaggini, nulla di più.
Qualcuno (il professore?) ha pensato che stessi pisciando fuori dall’urinario. Ci siamo spiegati a vicenda, ci siamo capiti, da persone civili (ho reputato più che civile la replica di Sergio).
Mentre io fumavo qualcuno ha pensato: altro che intervallo, qui occupo la scuola!!!
Si poteva:
a) Fare un collettivo e discutere di cose serissime.
b) fare casino.
Casino!
Alcuni lo hanno fatto in modo anarcoide e divertente, altri sono subito passati all’insulto diretto ai presenti (Baratto) e agli assenti (Scarpa) tirati dentro per le orecchie.
Qualcuno poi ha millantato identità, tanto per seminare zizzania. E’ saltato fuori un Genna poco credibile. Tra l’altro, apro e chiudo parentesi, il tiro al Genna sta diventando uno scontatissimo sport nazionale. Non lo conosco, ma gli auguro di avere le spalle larghe. Comunque, “molti nemici molto onore”.
E’ la logica di internet, lo sappiamo. Però, per assurdo, è stato proprio, involontariamente, Baratto a scatenare il tutto. Ora potrebbe accadere persino che qui si scateni un’altra di quelle guerre senza senso, fatte di pura aria fritta, che abbiamo già conosciuto nei mesi scorsi.
Se ne ho in minima parte responsabilità me ne scuso.
Però è vero che:
1)Il discorso di Franz è da non perdere di vista. Prendersi troppo sul serio non è una cosa seria.
2)L’argomento trattato da Moresco è di grande interesse e, involontariamente, è già in qualche modo in discussione altrove (vedi la polemica su LVT con Andrea, Helena, Franz, Gabriella, etc. nel mese di dicembre). L’impossibilità di (o, anzi in dovere di non) scindere il “pensiero” dall’artista etc…
3)Quattro risate non fanno mai male a nessuno. I nickname sono un modo di rappresentarsi, millantare i nomi di altri (non palesemente per gioco, ma con l’intenzione di intorbidire le acque) è disonesto. Una cosa è la goliardia, un’altra la provocazione.
4)Leggete Moresco.
5)Baratto aggiusta motorini? Panella è calvo? E io sono biondo?
Vi abbraccio, Gianni
Scusate l’involontaria replica, sarà meglio che vado a dormire!
Gianni
CHE VADA!!!!
G.
A Biondillo, sei annato in bianco ‘sto sabato, eh? Pe’ scrive’ qua’ sfilza de cazzate me sa che non c’avevi proprio un cazzo da fa! Ammetti!
Allora ragazzi: Biondillo non è andato sicuramente in bianco perchè è un uomo sposato con prole. Quello che dice lo sottoscrivo. Aggiungo che, se essere seriosi non è serio, continuare a fare casino, diciamo, non è bello. Va bene una volta, due, anche tre. Io personalmente, davanti a un pò di goliardia, per carattere,non mi metto a storcere il naso, anzi. Mi piace scherzare, mi piace l’ironia e l’autoironia. Però mi permetto di farvi notare- dato che dietro a quei nick si nascondono persone sicuramente intelligenti, perchè non credo siate dei transfughi di una chat di imbecilli, se siete fin qui pervenuti-, che ancora non c’è stato 1 solo intervento – dico 1 – sul pezzo di Moresco su Volponi. Io personalmente non ho molto da dire sull’argomento, conoscendo poco Volponi, ma sono sicuro che ci sono persone di gran penna che non intervengono, ora come nel recente passato, perchè disturbate dall’aria che in questo e in recenti colonnini dei commenti si respira. Non faccio delle accuse; io non mi sento offeso se giggetto er carrettiere mi dice per esempio “d’anna a magnà er sapone”, però so che alcuni possono risentirsi, e questo va rispettato. Non siamo tutti uguali, ognuno ha la sua sensibilità, il suo carattere.
Dunque, ve lo chiedo come cortesia: lasciate spazio a chi eventualmente ha qualcosa da dire sull’oggetto reale della discussione. Non passiamo da un estremo all’altro, insomma: dalla seriosità marmorea al bagaglino intenettiano protestatario.
Un saluto e un augh a tutti. (E un grazie anticipato).
A chi fosse interessato segnalo che non è la prima volta che Moresco interviene su Volponi. Sono pagine di uno straordinario corpo a corpo letterario quelle contenute in A. Moresco, Il Vulcano, Bollati Boringhieri, Torino 1999.
Buona lettura.
Mi sono permesso di lasciare quella frase ironica
(1 messaggio), dopo che vedevo che nessuno commentava – nonostante fosse stato pubblicato da giorni – il pezzo di Moresco. Poi, che il thread (come lo chiamate voi) ha preso una piega burlesca e caciarona, non posso farci niente. O forse sì. La realtà è che se non avessi buttato lì quella provocazione sarebbe rimasta sempre la voce: 0 Comments. Ed era veramente triste da vedere.
Moresco egregio,
mi permetto di darti del tu,
soltanto perché sono maggiore di te di qualche anno, ma molto minore per il resto.
Ho letto il tuo articolo e sono rimasto deluso perché avrei desiderato qualcosa di più “umano” visto che hai avuto il piacere di incontrare Volponi: cioè che ci raccontassi di come sta, dove sta, come è fatta la sua casa nelle natie Marche, che ci donassi un angolo di atmosfera del colloquio, che ci riportassi più sue parole sulla sua “Macchina” e come lui la vede a distanza del po’ di anni passati. So che questo suo libro è stato determinante, significativo per la e nella narrazione italiana dagli anni ’60 ad ora e che Volponi è un grand’uomo, una bella testa filosofico/ideativa.
Non mi piace pensarlo “pensatore”: quando io incontro questo termine automaticamente vedo “Il pensatore “di Rodin anzi molto peggio, decine centinaia di ottocentesche statue, quadri decorativi e celebranti la possanza e, forse, inconsapevolmente la pesantezza, la ottusità del pensiero umano.
Mi piace vederlo come uomo speculativo, intuitivo, gran narratore profondo e sottile non massimalista anzi in fondo autoironico che il suo Anteo pare spesso essere la caricatura grottesca e tragica di un modo di immaginare il progresso tecnico, forse, un tempo, suo personale e dei suoi illustri datori di lavoro.
Ah, ancora, tu dici che qualcuno, in giro, non so chi, immagina gli “scrittori” come incapaci di formare pensiero; io per parte mia che ho molti, terribili, dubbi sul valore del pensiero umano, tanto da preferire il pensiero dei delfini o degli scimpanzé, sarei quasi felice che i narratori pensassero poco, intuissero di più, percepissero nel profondo e lavorassero di più sul loro materiale grezzo, le parole.
Se tu hai avuto una cotta dura per Pavese, come dici e come me, sai quanto Pavese penetri per le vie del senso più che del pensiero.
Purtroppo non ho letto i tuoi scritti su Volponi raccolti nel volume dianzi citato e me ne dispiace.
Mi piacerebbe conoscere Volponi, però.
Buonasera, o Moresco
Non voglio di nuovo disturbare (il commento di Bianco mi sembra buono e forse qualcuno vorrà replicare), ma mi sono appena accorto di una cosa. Franz, tu sei l’autore delle Cose come stanno. Pensa te, mica avevo associato. Il tuo libro mi è molto piaciuto. Volevo dirtelo.
Stop.
Grazie mille, Zweig! Con l’occasione esprimo la mia contentezza nel vedere che la discussione ha preso la giusta piega. Si riparla di letteratura, grazie a Dio.
Ciao, a rileggerti,
Franz
Che cosa significa pensare? (Heidegger, Sant’Agostino) E non pensare? (Taisen Deshimaru) Sembra che quando si riesca a non pensare il campo bioenergetico umano diventi più equilibrato, armonico, salutare (Dr. Konstantin Korotkov, Mandel).
E liberare la mente da ogni pensiero dualistico? (Vijnanabhairava tantra)
Il testo di Moresco mi è piaciuto, nel senso del godimento che mi dà la sua scrittura, il processare (o la processione) del suo pensiero, il suo fantasticare su Volponi, che mi sembra neghi in sè proprio ciò che vorrebbe difendere Moresco: la capacità degli scrittori di pensare, che a suo dire verrebbero tacciati di essere solo artisti. Mi sembra un falso problema. Se Moresco leggesse La pratica della concentrazione di Deshimaru, o Anche se non penso sono di Tsuda o Satori di Brosse o Metamorfosi di Franco Rella si accorgerebbe chiaramente di dove sta il problema. Non è innanzitutto un problema speculativo. Poi vorrei sapere chi sono questi critici che sostengono che l’artista non pensa. Quindi il mito non è pensiero? Non voglio credere che ci siano così tanti critici che sostengono questa tesi. Rimane il problema della comunicazione tra intellettuali che usano linguaggi differenti! Una lettura del theatrum psycotechinicum di Felice Perussia potrebbe fugare ogni dubbio. Mi è piaciuto anche ciò che ha detto Mario Bianco, con qualche perplessità sull’uso disinvolto di parole come intuizione o percezione. Se uno legge Hume sa che pensare per lui è percepire, sempre! Ne sappiamo così poco ancora di cosa significano tutti questi termini, come istinto.
Rimane affascinante il pensiero dei Delfini.