Intervista col contabile morto e un suo collega vivo

di Helena Janeczek

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Si è suicidato uno della Parmalat. Non un manager, neanche un dirigente. Un uomo di quarant’anni con un figlio di quattro. Il mio quotidiano lo definisce “quadro alto”. Stipendio, scrive, di 2000-2500 euro al mese. E che andasse in ufficio anche nei weekend.
Nella foto tessera riprodotta sul giornale porta un cravattino che sottolinea un’aria mite e provinciale. Si è buttato giù da un ponte. Guidava una Fiat Marea.

Un tempo per dei bancarottieri era considerato disonorevole sopravvivere all’onta. Nell’immaginario sono ancora depositate piccole pistole nascoste nel cassetto per il caso estremo. Per ora pare che i principali indagati dell’inchiesta non sembrano intenzionati a morire di vergogna. Negano, minimizzano, accusano altri a loro volta. E poi saranno anche sotto stretta sorveglianza.
Per ora si è ucciso solo questo contabile che non risulta essere stato prestanome, che non appare direttamente indagato, che semplicemente rivestiva un ruolo di responsabilità nel calcolo dei costi delle materie prime, nemmeno nella contabilità finanziaria. I magistrati dichiarano che “non c’era alcun motivo per un gesto del genere”. Il mio giornale suppone che temesse di essere arrestato anche lui come il suo capo e il suo predecessore. Ma altrove scrive che bisognerà chiarire i motivi del suicidio.
Non c’è certezza nemmeno su quanti figli avesse: due nei titoli di apertura di tutti i quotidiani che si riducono a uno- Leonardo- negli articoli all’interno.
Poi trovano una valigetta piena di documenti lasciata in macchina, ma dopo un giorno i magistrati dichiarano che non contengono nessuna indicazione utile all’inchiesta.
Per il momento le ragioni della morte di Alessandro Bassi appartengono solo a lui.
Che, come apprendo da’ ”La Gazzetta di Parma”, era un uomo tranquillo, legato alla famiglia, amante del jazz, bravo studente del liceo scientifico, laureato in economia, subito assunto alla Parmalat, in azienda da oltre dieci anni.

Di chi è un azienda?

“Mia” asserisce il quadro Parmalat Alessandro Bassi quando compie il gesto per il quale la magistratura non trova nessun motivo. Come il K. del “Processo” che è innocente ma si sente colpevole e dunque verrà giustiziato, anche il contabile forse temeva che “la vergogna gli potesse sopravvivere”. Franz Kafka non faceva forse un lavoro simile?

Voglia scusarmi il morto se lo faccio parlare. Se cerco di dire con parole mie ciò che mi dice il suo salto dal ponte.

“In tutti questi anni ho creduto di essere un collaboratore utile al funzionamento e alla crescita di un’azienda nella quale mi riconoscevo. Provavo un senso di piacere quando trovavo Mister Day allo spaccio del villaggio turistico dove ero andato in vacanza, anche se il prezzo era spaventosamente maggiorato, e riconosco persino l’insorgere di un moto d’orgoglio se all’estero vedevo il tetrapack della nostra passata di pomodoro. Il nostro latte UHT in Cina dove il latte prima non si consumava. Era la mia azienda, la mia città, che produceva e vendeva prodotti apprezzati in tutto il mondo.”

I succhi di frutta e le merendine al cioccolato e alla crema. La besciamella e la panna. Il latte, appunto, il nutrimento puro per definizione. Il dottor Bassi non aiutava a produrre caccibombardieri, scorie radioattive, cancro ai polmoni, disinformazione. Non lavorava neanche in un’azienda il cui azionista di maggioranza si infischia allegramente del suo “conflitto d’interesse”. Come me, per intenderci.

“A un certo punto capivamo, almeno noi all’ufficio contabile, che le cose non stavano andando come sembrava. Era difficile parlarne persino fra di noi, figuriamoci all’esterno. Speravamo che le cose si sarebbero sistemate, che ci sarebbe stata la ripresa e che la ripresa ci avrebbe aiutati a rimetterci in pari. Credevamo che sarebbe stato così, non avevamo altra scelta. Volevamo crederci. Guardavamo da un’altra parte. La ripresa invece non c’è stata.”

“Beppe Grillo quando l’hanno ripreso in televisione dopo l’interrogatorio continuava a fare le sue battute su Forzalat e Nigerialat. E tutti: “Ah, ma lei, Grillo, come faceva a sapere?” Non era il solo, vi assicuro. Ma era l’unico che poteva farci delle battute e ricevere in risposta risate e applausi. Se qualcuno di noi cercava ad accennare ai problemi dell’azienda, ai problemi che potevano diventare problemi nostri, nessuno voleva ascoltarlo. Lasciare la Parmalat per un altro posto di lavoro: se pronunciavi, anche solo come ipotesi, come possibilità estrema una cosa del genere, ti avrebbero guardato come un pazzo.”

Da “La Repubblica” del 25.1.2004; a firma di Pier Francesco Fedrizzi e Jenner Meletti, p.8.

“ « Egregio signor Gianfranco Bocchi, in riferimento a notizie apparse sulla stampa in questi giorni, in merito alla sua posizione nell’ambito delle indagini in corso, ci riserviamo di intraprendere nei suoi confronti azioni legali e disciplinari di qualsiasi natura». ”

Secondo Fedrizzi e Meletti, la lettera spedita il 17.1. al collega di ufficio e amico stretto di Bassi che a differenza di quest’ultimo si trova in carcere, è firmata dal commissario straordinario della Parmalat Enrico Bondi.

“ «L’abbiamo saputo subito, qui dentro, che le lettere erano partite: per Bocchi, ma anche per Tonna, Del Soldato, Pessina, i quadri o manager Parmalat arrestati.»

L’uomo che parla lavora dentro le palazzine gialle di Collecchio.

«Per ora, abbiamo pensato, hanno inviato le lettere ai manager arrestati. Ma Gianfranco Bocchi non è un dirigente: ha costruito carte false perché così gli è stato ordinato. La lettera è una minaccia di causa per danni e la nostra paura è che dopo possono prendersela anche con noi che lavoriamo qui da anni. Rischiamo di perdere il lavoro, ma anche la casa e i risparmi. E poi, se sei licenziato come un “falsario” dove lo trovi un lavoro? Del resto, da sempre, chi viene mandato via dalla Parmalat non trova più da lavorare in città e in provincia».

Forse era meglio rifiutare di eseguire tutti gli ordini.

«E come si poteva fare? Io poco dopo l’assunzione mi sono ritrovato a ricevere precise direttive dagli uomini di Tanzi. Se rifiuti, ti mandano via, ed essendo le banche tutte amiche della Parmalat, non trovi nemmeno chi ti faccia il mutuo per la casa. Davvero, in questi giorni, si rischia di perdere la testa. Gli uffici sono militarizzati. Tutti danno ordini a noi della contabilità o dell’amministrazione: guardia di finanza, magistrati, revisori dei conti, periti. I finanzieri dicono che non puoi lavorare al tuo computer perché ancora deve essere controllato. Insomma, ci sentiamo come appestati, e abbiamo una sola speranza: che si accorgano che anche se abbiamo fatto carte false per ordini superiori, noi non ci siamo arricchiti.»”

Commenta Alessandro Bassi.

“Guardavo altrove. Chiudevo gli occhi. Poi hanno arrestato Gianfranco Bocchi, il mio compagno di ufficio, il mio amico. Allora ho capito che in tutti questi anni non ero stato un collaboratore di un’importante realtà produttiva, la settima nel paese, ma il servo di un servo di un servo del padrone. Potevo essere io al posto di Gianfranco. Intendo dire: prima. Ma allora in galera ci sarei andato io e non mi sarei ammazzato.”

Si ammazza uno su mille.

Conosco persone che lavorano in banca. E’ difficile non conoscere persone che lavorano in banca ed è pure difficile che quei bancari non si trovino in qualche filiale di Banca Intesa, San Paolo o Capitalia.
Io conosco alcuni di quelli che seguono le borse, addirittura uno che si occupa solo di “private investment banking” o come diavolo si chiama. Guida una Fiat anche lui. E’ scapolo, ama andare in montagna con il C.A.I., altrimenti in bicicletta.
Questa gente delle banche l’ho trovata sempre misteriosa. Si dedicano all’accrescimento di capitali che non sono i loro e che spesso superano quanto loro possono sperare di guadagnare in vita, pur con tutti gli scatti di carriera, le tredicesime, quattordicesime, quindicesime. Anzi: più fanno carriera, più viene riconosciuta la loro bravura, più i capitali a loro affidati diventano esorbitanti, inconcepibili.
Il mio uomo al “private banking” di Banca Intesa, per quanto ne so io, già da tempo diffidava dei bond Parmalat, li sconsigliava. Da quanto tempo? Prima quando gli avevano suggerito di proporli, prima quando i suoi colleghi li proponevano e i clienti li volevano loro stessi, quante obbligazioni avrà piazzato? E’ vero che negli ultimi mesi aveva appunto sconsigliato le Parmalat a tutti quelli che pensavano di acchiappare l’affare all’ultimo momento. Anzi aveva addirittura suggerito di vendere a quelli che le avevano comprate. Ma non tutti lo ascoltavano, né per quanto concerneva l’acquisto, né tantomeno la vendita. E quei clienti che non si facevano vedere né sentire, quei clienti con i quali non era lui a doversi fare vivo, in breve: molti dei clienti più piccoli non li aveva nemmeno avvertiti. Anche se sul fatto che le obbligazioni Parmalat secondo rating e altri indicatori costituivano un investimento di discreto rischio, era stato chiaro sin dall’inizio.
Eppure adesso si vergogna. Teme addirittura di sentirsi in colpa per la sua banca che non è nemmeno più la banca dove aveva cominciato a lavorare e che gli ha fatto cambiare non so quante filiali e clienti in pochi anni. Perché – appunto – è bravo nel suo lavoro e perché i clienti lo riconoscono come persona onesta e affidabile. E poi ovviamente teme pure di perderli, quei clienti, perché la sua banca si è rivelata poco onesta e affidabile.

Con chi deve prendersela, ora, il mio uomo di Banca Intesa che fatica a guardare in faccia i suoi clienti, anche quelli cui aveva sconsigliato l’acquisizione di bond Parmalat?
Di chi deve riconoscersi servo e burattino nel momento in cui gli crolla l’illusione che la banca, in qualche modo, fosse sua?

Ho pensato parecchio al mio conoscente bancario in queste settimane, già prima che il contabile Alessandro Bassi si buttasse giù dal ponte. Pensavo a quanti come lui dovevano essere sparsi per le infinite filiali di Banca Intesa, San Paolo, Capitalia. Pensavo che proprio ora che quelli come lui – di grado inferiore o superiore – reagivano col senso di vergogna al senso di tradimento, le banche andavano avanti grazie a loro. Che se i clienti non trasferivano tutti i loro conti e depositi in altre banche, questo doveva essere merito loro. Merito di quei bancari che continuavano a lavorare in modo onesto dentro alle banche truffaldine. Merito anche del fatto che questi colletti bianchi, questi uomini addomesticati dai numeri e dalle scrivanie, difficilmente arriveranno a toccare il fondo di rabbia dal quale scaturisce la vergogna. Così quella li spinge a recuperare e la banca si riprende.

E allora di chi sono le banche? Di chi sono le aziende?

Aggiornamenti

Ai funerali di Alessandro Bassi c’erano trecento-quattrocento persone, però mancavano le autorità: non si era presentato nemmeno un assessore. I giornalisti di cronaca, forse per arrivare alla lunghezza necessaria, evocavano vescovi, sindaci, ogni genere di potenti, nani e ballerine che in altri tempi si erano riuniti intorno alle bare di Cagliari e di Gardini. Evitavano però di lamentare l’assenza dei soli VIP che avrebbero potuto comparire ai funerali del contabile e che invece ne erano impediti dalla loro permanenza in galera.
Ma il prete della parrocchia periferica conosceva il suo mestiere e probabilmente conosceva anche il defunto.
“Alessandro non è caduto nel vuoto del nulla. A raccoglierlo c’era la mano di Dio, così come fa un genitore quando un figlio cade. Il suo non è stato un tonfo, è stato un volo nell’eternità. Lo affidiamo a chi ha detto: «Sono venuto sulla Terra per salvare e non per condannare. Ai suoi fedeli la vita non è tolta»».”(La Repubblica, 29.1.04, p.12).
La sorella Silvia, quando descrive suo fratello come un uomo bello, amato ed estroverso che immaginava non potesse mai compiere un gesto riservato soltanto alle persone chiuse e tristi, poi si aggrappa all’omelia per non cadere nel vuoto pure lei. “Io penso”, dice, “che Alessandro sia una foglia portata via dal vento”.
Foglie nel vento? Quelle il prete non le avrebbe mai nominate in una simile circostanza, ma solo lui sa che cosa gli ricordano e da dove si origina quel vento, sa che non sono canzonette. Solo lui sa quanto gli dispiace che non si riesca ad afferrare la mano del Padre che gli ha teso. Ma è riuscito a consolare e allora non importa. Per quel tipo di funerale, conviene che dica a se stesso, è andata fin troppo bene.
A questo punto, il contabile dovrebbe poter riposare in pace o perlomeno scomparire dai mezzi di comunicazione fino a quando non ci fossero notizie clamorose ed accertate. Le voci su verità nascoste nel suo cellulare o nel computer, su società dei Caraibi intestate a lui a sua insaputa, sul fatto che fosse uno dei quattro o cinque a sapere tutto, restano, per ora, solo voci: smentite dai magistrati inquirenti, contrastate da amici e colleghi in parte implicati che ripetono quanto sarebbe stato impensabile coinvolgere Alessandro Bassi nelle operazioni.

Discorso finale dell’intervistato all’intervistatrice

“Scusi, ma perché è ancora qui ad occuparsi di me, perché non si aggiorna su quel che hanno detto Tonna e Tanzi, non cerca di capire perché è indagata niente di meno che la UBS, la grande banca svizzera?”

“Sbaglio o lei, signora, non se ne intende molto di economia e l’economia non la interessa abbastanza. Lei il mondo non sa leggerlo attraverso i numeri, ma soltanto attraverso le parole. Quindi ha riconosciuto in me qualcosa che rientrava oppure non rientrava nei suoi schemi, così come ci sono posizioni di un bilancio che non tornano e altre invece perfettamente conformi alle aspettative.”

“Ammetta che si è stupita nel vedersi confrontata con una storia che conosceva solo dai libri. Io l’ho sentita, sa. Ho sentito che commentava il mio caso coi suoi amici parlando di Franz Kafka, poi di un certo Robert Walser e di altri scrittori vissuti in un’epoca in cui usava raccontare di piccoli impiegati o funzionari che, a quanto pare, provavano sommo piacere nel servire o venivano, al contrario, stritolati da ingranaggi oscuri. Personaggi mai esistiti, puri emblemi della condizione umana di quei tempi. Invece eccomi un secolo più tardi a Parma, in Italia: io ero vivo, io ero – anche se mia sorella esagera un pochino – alto e piuttosto bello, certo per nulla triste e chiuso. Non somigliavo affatto, le assicuro, a quei signori col abito nero di tre pezzi che fanno presto a trasformarsi in un insetto come in quel racconto famoso che conoscevo anch’io.”

“Vede, signora, io non c’entro con i suoi personaggi. Si è sbagliata, ma forse non del tutto. Io c’entro con lei. Siamo quasi coetanei, non se ne è accorta, abbiamo figli quasi della stessa età. Alessandro Bassi c’est moi: può scriverlo, se vuole, però non suona bene. Io c’entro con lei, ma lei, mi permetta, lei non è niente di speciale.
Non fraintenda, prego, non voglio mancarle di rispetto. Io ho sempre rispettato la cultura. Del resto io e la mia azienda andavamo molto fieri di aver pagato le opere di restauro del nostro duomo meraviglioso. Però dobbiamo dirlo chiaramente: qui non fa nessuna differenza che la mia azienda produce latte e merendine e la sua produce libri e riviste e un’altra ancora non produce niente che si possa toccare con le mani.
Lei lavora per un’azienda come milioni di persone, come immagino la gran parte delle persone in questo paese. E come milioni di persone ci lascia una parte di sé, magari una parte invisibile o del tutto sostituibile per l’azienda, ma non per lei. Quindi crede che il suo servire serva, quindi vuole credere che quella parte di tempo, di fatica, di intelligenza e altro che ci ha lasciato renda quell’azienda anche un po’ sua. Lei non ha torto, no, lei non ha torto. Anzi è la pura verità, però non serve, non ne rimane in tasca niente a nessuno. Di sicuro non ne era rimasto niente a me. ”

“Una cosa sola vorrei chiederle, visto che si è interessata al mio caso in questo modo strano, così gratuito e al tempo stesso così dispotico nel prenderne possesso. Ma faccia pure, si crei pure sul mio conto tutte le immagini e le idee che possono far quadrare i suoi bilanci. Però la prego: lasci in pace i miei colleghi. Non li giudichi. Non li giudichi e basta, intendo dire, non li assolva nemmeno pensando che non avevano altra scelta, che l’azienda li avrebbe vomitati se non avessero fatto come richiesto.
Quel tale da lei citato dichiarava che il mio amico Bocchi “ha costruito carte false perché così gli è stato ordinato”.
Eseguire gli ordini che cosa rappresenta? E’ subito il piccolo motore della macchina che banalmente alimenta il male? Ma allora come possiamo stabilire dove comincia, e se comincia con l’ordine stesso, non con la violazione di una legge o con qualsiasi cosa esterna, non è forse ovunque, non tocca forse chiunque?
Per questo, glielo ripeto, non giudichi.”

“Se fossi stato ancora vivo sarei andato volentieri a vedere “L’ultimo samurai”. Era appena uscito nelle sale anche da noi a Parma, c’erano i cartelli appesi dappertutto. Almeno così mi era sembrato quella mattina quando ero uscito prima dall’ufficio, quando giravo e non sapevo esattamente dove andare. Vedendoli pensavo che era il genere di film che mi piaceva. Pensavo di sfuggita. E’ un filone, da qualche anno si trovano dappertutto i samurai.
Una volta ho visto in televisione, tardi, un film con un grasso americano nero che si muoveva però agile e pericoloso come un orso ed era infatti il samurai – ovvero il killer – di uno mafioso impomatato di terza classe con il salotto pieno di santini. Ma lui, il negro grasso, restava il suo guerriero, legato al suo padrone con la vita e un antico codice giapponese, il Hagakure. Qualcuno dei miei colleghi l’aveva persino comprato. Facevano battute sull’essere i samurai di Tonna o – risata ancor più forte – Del Soldato.
Non so se lei abbia mai avuto a che fare per lavoro con dei giapponesi. Con questi giapponesi così perfetti, così efficienti, dediti e tutti uguali che non sai bene se sono la negazione o la continuazione dei samurai con altri mezzi, eserciti di formiche in giacca grigia. Spesso, in effetti, l’aspetto è quello. Ma non ci creda. Sono identici a noi. Siamo tutti identici, signora, siamo tutti giapponesi.”

7 COMMENTS

  1. Sciapo’ davvero. Un pezzo egregio. E mi sembra rispondere ad un’urgenza condivisibile di strappare queste vite e queste vicende alla sola dimensione della cronaca giornalistica. Sono in realtà innumeri i rilievi di queste misere storie di capitalismo italiano, eppure sotto l’incalzare della notizia, e delle strategie narrative volte a minimizzare o a mitizzare, si perdono, diventano tratteggi anodini, aneddoti da barzelletta al fiele o rassegnata. Questo di Helena è un bel modo di restituire spessore alle figure di cronaca.
    Qui bisogna far parlare gli spettri per capire cosa fanno i vivi.

    (ps mi torna in mente una bella poesia di Scarpa apparsa anche su NI; trattava anch’essa di una grigia, tipica, storia di capitalismo italiano anni ’80.)

  2. Ecco perchè un “pezzo” simile sui nostri bei giornali non si trova più. Con tutto il rispetto per i giornalisti – anche dei migliori- qui ci troviamo di fronte a un pezzo toccante, a qualcosa che viene dal cuore e dalla mente di un vero scrittore. Ecco, se Dino Buzzati fosse stato ancora vivo, forse…
    Complimenti di cuore, Helena.

  3. Scusa Giancarlo: in effetti prima l’ho citato come Gianfranco, poi mi si è mutatoin Giancarlo.
    Per chi ha visto “Nemo”: io ho invece ricevuto l’ennesima conferma che dovrei chiamarmi Dory.
    Correggo subito e colgo l’occasione per ringraziarvi tutti.

  4. Cara Helena , ti sarei molto grato se volessi
    cancellare il mio post del 10.02.04 delle 23.20.
    grazie . Ovviamente anche il presente . GB

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