Meditazioni joxiane #3
di Dario Voltolini
Prima di guardare a cosa può significare il concetto di Europa nell’attuale momento di crisi, vorrei puntualizzare ancora una volta la questione di cosa sia per Joxe “il mercato” soprattutto nella versione che nei fatti ne dà l’amministrazione statunitense (come abbiamo visto non solo l’attuale amministrazione, ma anche quella precedente). Nella riflessione sul “divide et impera” americano, Joxe ribadisce la sua tesi sul caos però introducendo una variabile stocastica di grande inquietudine, cioè la possibilità dell’autodistruzione di stati nazionali come l’Argentina.
Dice Joxe: “Lo scopo della loro [degli Stati Uniti] azione non è il controllo politico, che rappresenta ai loro occhi solo un mezzo, ma il dominio dei mercati. Il totale disordine di uno stato rappresenta quindi per il loro disegno imperiale non una catastrofe ma, eventualmente, un passaggio obbligato in direzione del neoliberismo. Tuttavia, l’autodistruzione finanziaria dell’Argentina avvenuta nel 2001, una crisi realmente nuova e moderna, non è certo stata auspicata e cade in un vuoto teorico assoluto. Si sarà obbligati ad aggiustare rapidamente le cose. La catastrofe semialeatoria fa gravare ovunque la propria minaccia” [1].
“Gravare ovunque” significa veramente “ovunque”? Non possiedo alcuno strumento per valutare la stabilità e la robustezza di uno stato rispetto al parametro finanziario (chissà poi se è davvero un aspetto separabile dal resto: forse in prima approssimazione e in teoria sì, ma in realtà?), quindi non so individuare stati più o meno “a rischio” di autodistruzione finanziaria. In particolare, non so valutare il rischio che corriamo noi, cioè l’Italia.
Nel libro di Gallino [2] sulla perdita di importanza industriale italiana si descrivono implosioni locali del nostro capitalismo, cioè dismissioni di industrie fiorenti o decotte, ma soprattutto fiorenti, anzi addirittura “picchi di eccellenza” svenduti e quasi regalati a chi? Al diretto concorrente di mercato. Il declino industriale del nostro Paese (ma non siamo nei G8? Se sì, perché?) nella visione di Gallino è la conseguenza di incapacità imprenditoriale non meno che di incompetenza politica.
Che i nostri capitalisti non siano nemmeno capaci di fare i capitalisti, è un sospetto che in tantissimi abbiamo. La questione politica mi sembra più incasinata. Quella dell’Italia dal dopoguerra in poi non è stata una politica di sostegno industriale, sia economico che ideologico e talvolta persino poliziesco? Non ha funzionato oppure il difetto sta nel manico? Il difetto nel manico è leggibile (nonché realmente letto da una parte della destra) come una mancanza di libertà di mercato. Proprio perché la politica ha finanziato l’industria, l’industria è andata a rotoli. Questa è una tesi sostenuta da molti, e introiettata da larghi strati della popolazione, anche non omogenei.
Un’altra tesi è che non è vero che la politica abbia sostenuto l’industria. Sostenere lo sviluppo industriale di un Paese significa fare delle scelte, e spesso non sono state fatte, o sono state fatte in base a criteri non politici. Quali? Questa tesi, a seconda che si consideri il Sindacato (CGIL, CISL e UIL) come un’organizzazione italiana del Potere, oppure una forma reale di Opposizione, può sorgere sia a destra sia a sinistra. La differenza sta solo nella scelta di quali criteri non politici sono stati adottati per non fare scelte favorevoli allo sviluppo industriale (se si fosse potuto licenziare le fabbriche non avrebbero chiuso / se si fosse seguita la concertazione i padroni avrebbero fatto meno cazzate).
Altra tesi ancora: l’industria ha fatto il suo tempo, ora siamo in un’epoca postindustriale che è comune a tutto l’Occidente, dunque anche a noi. Il sapore misto di “lettura dei processi reali” e di teleologia rende questa tesi poco falsificabile, e a mio parere pochissimo esplicativa. Però ha una notevole diffusione, anche a livello locale (intendo dire a livello cittadino, per esempio nella mia città che è Torino la sento spesso ribadire, senza però che si sappia come fare a diventare Milano).
Ce ne sono altre, di tesi. Ma qui voglio segnalare solo una posizione che ho sentito esprimere da un settore della sinistra: non è una tesi, non la segnalo come tesi, né come spiegazione, né come lettura di qualche cosa, ma solo come sintomo di un atteggiamento. La posizione è: finalmente l’industria si leva dai coglioni; peccato per il conflitto sociale che diminuisce, per fortuna per l’inquinamento, che diminuisce pure lui.
C’è poi da considerare un aspetto della situazione che capovolge la questione come l’ho posta prima, e cioè che sia l’industria ad aver determinato la politica italiana e non viceversa. Forse questa ipotesi mi viene in mente solo perché sono torinese.
In ogni caso, il nostro assetto industriale è profondamente manomesso e deficitario. Io questo lo vedo come un pericolo. Anzi, credo di poter dire che è da sinistra che lo vedo come un pericolo.
Un pericolo di argentinizzazione (ripeto, non so però valutare questo in termini concreti, e nemmeno se sia possibile farlo).
Le nostre industrie sono state spesso (s)vendute al diretto concorrente, ripeto con Gallino. Questo significa che la politica di sostegno industriale in quei casi avrebbe dovuto essere più marcatamente protezionista? Ma allora il liberismo? Dobbiamo credere che proprio all’industria faccia male l’apertura del mercato?
Significa che nelle faccende italiane decidono forze che italiane non sono, come anche sovente si sente dire (“le privatizzazioni italiane sono state decise su uno yacht una sera fuori dalle nostre acque”: ah, come vorrei poter risalire a chi disse questa frase che ricordo sì di aver letto, ma né quando, né dove)?
Io credo che il mercato di cui parla Joxe potremmo chiamarlo metamercato, nel senso che è un mercato in cui si comprano e si vendono mercati, non prodotti o merci o altre cose di tipo tradizionale come queste. Con l’adesione del 1° maggio dei paesi orientali all’Europa, non stiamo acquisendo mercati? Non è quello che si dice?
Allora: chi sta comprando mercati? Qual è il mercato in cui si vendono e si comprano i mercati? Quali sono le regole e le finanze e gli attori del metamercato? Il mercato dei mercati è un mercato con caratteristiche diverse dai semplici mercati. I semplici mercati o esistono o non esistono. Il metamercato invece lo si “amplia”, cioè lo si fa esistere dove non c’è. Il mercato dei mercati quando acquisisce un mercato, acquisisce qualcosa che “era sul mercato” o no? Io credo di no. Io credo che lo acquisisca senza comprarlo. E questa forma di acquisizione non segue, mi pare, una legge di mercato. O forse invece sì, ci sono dei mercati che a un certo punto vanno sul (meta)mercato. Qualcuno decide di andare al (meta)mercato a venderli. Come i vecchi buoi, le uova, le oche. Tutto bene. Cosa ricava in cambio il venditore del mercato? E chi è costui? Un’oligarchia? Una classe dirigente? Un Potere dello Stato? Chi decide di vendere il mercato italiano, per esempio, mettendolo sul (meta)mercato? Chi ci guadagna? Dove vanno a finire i soldi?
Chi ha messo il mercato argentino in vendita sul (meta)mercato? Chi ci ha guadagnato? Chi è ora il padrone? Di che cosa esattamente è padrone uno che ha acquistato un mercato, se ora quel mercato così come lo si conosceva non esiste più?
Il mercato è identificato (non da me) con la democrazia. Ammettiamolo, per amore di discussione. Ma allora la domanda è: che ne è della democrazia in un Paese che metta sul (meta)mercato se stesso in quanto mercato? Non metterà in vendita la democrazia stessa insieme con il suo mercato, se le due cose vanno davvero così insieme?
Il declino industriale dell’Italia mi preoccupa in questo senso, cioè nella prospettiva di un’argentinizzazione che, essendo per definizione semialeatoria, potrebbe prima o poi anche riguardarci.
Potrebbe riguardare anche altri Paesi europei?
Potrebbe riguardare addirittura l’Europa in toto?
Siamo di nuovo al punto di prima: l’Europa.
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[1] Joxe, pag. 176
[2] Luciano Gallino, La scomparsa dell’Italia industriale, Einaudi 2003