L’era del maiale
di Benedetta Centovalli
Ancora sullo Stivale al lavoro. E qui vorrei cominciare dal maiale, immagine-fulcro della ricerca intorno al «nostro tempo sulla nostra pelle» del denso volume La qualità dell’aria (Storie di questo tempo), appena pubblicato da minimum fax (2004), a cura di Nicola Lagioia e Christian Raimo.
La qualità dell’aria ci sembra ben rappresentare quest’onda lunga di giovani narratori che si sono impegnati a raccontare i nostri giorni. Siamo arrivati a quota nove antologie edite in questi primi mesi dell’anno, e davvero non solo non ci sembran poche, ma il ragguardevole fenomeno chiede di essere registrato e messo in chiaro. Una tale ricchezza è una novità assoluta. Ossigeno per la nostra narrativa o perlomeno momento augurale.
Intanto si rafforza sempre più l’impressione che questa molteplicità di proposta non sia come è spesso accaduto una semplice manifestazione di tendenza ma un vero schieramento di nuovi autori che esigono con urgenza di avere voce. Come denominatore comune la scommessa di dire il Paese, la necessità di partire di lì, da un’ipotesi di identità culturale, da un patrimonio di esperienze. Spunti, note su cui soffermarsi più a fondo.
Un’antologia di venti scrittori under 40 sullo spirito sfranto di oggi che si legge con profitto e che riesce davvero a tracciare un ritratto generazionale compatto. Mi pare questa la forza del libro, un variegato gruppo di voci che si affacciano sulla situazione italiana (dal titolo di Ernesto Aloia), che si cimentano a raccontarla. Dicevamo la forza, ma poi un poco anche la debolezza, poiché il gruppo registra qualcosa di inquietante, si fa a tratti coro, denuncia un’appartenenza che sorprende e ci interroga per eccesso di somiglianza, una qualità dell’aria che tende all’uniforme. Insomma ne risulta la radiografia del Paese fatta da una generazione fra i trenta e i quaranta dal sentire forse troppo condiviso.
Ma volevo prima di tutto parlare del maiale, specchio geniale di qualcosa che ha invaso la nostra vita e le nostre coscienze, cavallo di troia di una mutazione che si è compiuta fino in fondo. La graphic novel di Riccardo Falcinelli & Marta Poggi apre sulla copertina e taglia in due la raccolta. L’enorme «maiale» è il punto di arrivo della nostra trasformazione in utenti televisivi a tempo pieno, è un’icona potente e prepotente della nostra epoca, è la paradossale questione di stile con cui i due curatori vorrebbero risolvere il proprio luogo e il proprio tempo. E francamente tutto questo funziona molto bene.
Il racconto che raddoppia questa intuizione e funge da manifesto del progetto è Millenovecentonovantadue di Nicola Lagioia. Carrellata sull’anno in questione, il fatidico 1992, con i fatti essenziali: tangentopoli e l’uccisione di Falcone e Borsellino, la riabilitazione della Chiesa di Galileo Galilei e il dramma della Bosnia, l’elezione di Bill Clinton, l’uscita di Petrolio di Pasolini; e insieme gli esperimenti naufragati del protagonista per diventare un fumatore incallito, il colpo di fulmine per una compagna. Fino a che «Tutto dava l’impressione di un’enorme palla di oro e di diamanti aggredita dolcemente da un male incurabile». «Immaginavo allora un’Italia completamente deserta, fatta di porticati, di giardini, di basiliche, fatta di statue al centro delle piazze ma anche di lampioni, di ospedali, di cabine telefoniche, di tralicci dell’alta tensione», un Paese sognato e vuoto. Come nella Città ideale, punta pittorica del nostro Rinascimento, o nelle periferie disanimate di Mario Sironi, o nella Visita della sera di Renato Guttuso, dove domina l’enigmatica presenza di una tigre. Nelle ultime pagine del suo racconto Lagioia cerca di catturare questa modificazione e la minaccia incombente su città, paesi, paesaggio: «una forza ancora più terribile della speculazione edilizia, un rumore di fondo più oscuro e insensato dei discorsi che i tribuni di ogni peso e colore avevano sparso nelle piazze, sui giornali e dentro i tubi catodici del nostro Paese durante gli ultimi cinquant’anni, un orrore del tutto impersonale questa volta, una mostruosità tanto più miserabile e pericolosa proprio perché del tutto svincolata da qualunque apparato razionalizzatore o anche semplicemente pensante». Bisognava disinfestare le città dalla presenza umana in quel 1992. Proteggere la tigre per scongiurare oggi l’avvento dei maiali.
La pattuglia degli autori dei diciannove racconti (Aloia, Cognetti, Covacich, Falcinelli & Poggi, Lagioia, Meacci, Murri, Pacifico, Parrella, Pascale, Pedullà, Pica Ciamarra, Pincio, Piva, Pugno, Raimo, Stancanelli, Tedoldi, Trevi) offre un fronte compatto di riferimenti storico-culturali, in presentia e in absentia. Zero condivisioni di momenti significativi della storia d’Italia – «nessun 25 aprile o 8 settembre», scrivono con ironia i curatori – compaiono bensì gli oscurati anni Settanta, con il delitto Moro, nei quali gran parte di loro sono nati. Come a dire che si riesce finalmente a parlare di quel decennio feroce solo attraverso chi ne ha respirato inconsapevole l’aria (e Martone che lo cancella ancora nel suo film tratto da uno dei libri più duri su quel periodo, L’odore del sangue di Goffredo Parise?). Cancro della storia del nostro Paese anestetizzato dalla distanza di chi in quegli anni è cresciuto. Condividono invece i nostri autori la tragedia dell’11 settembre (ricordata nei testi di Piva e Pedullà), un dramma umano e mediatico che ci obbliga a un continuo doppio confronto, a una specie di doppia verità.
Poi ci sono i maestri: Bianciardi, Arbasino, Fenoglio e Pasolini; DeLillo, Sebald, Houellebecq, Marìas, Foster Wallace, Capote. Voilà, avranno mai letto qualcos’altro che non sia così terribilmente aggiornato?
La scrittura si muove consapevole nel reticolo di coordinate riconoscibili, esibisce un mestiere calcolato, sono bravi questi scrittori, anche troppo. Con il rischio di non oltrepassare la soglia protetta, di non lasciarci mai con un groppo in gola, con uno spaesamento imprevisto. Questo mi appare come il consonante effetto d’insieme, che singole voci fanno però esplodere con vigore e originalità.
Ernesto Aloia ha scritto uno dei racconti più intensi, La situazione, storia di Eugenio Gemona, famiglia di insegnanti, sposato con la figlia del proprietario di una media azienda dell’indotto Fiat, a cui presta una professionalità inutile, addetto com’è alla «pratica della concimazione»: corruzione con mazzette e delazioni, controllo sul personale, evasione fiscale. Fino a che la situazione economica precipita in crisi aperta, offrendo ad Eugenio l’occasione di un tardivo riscatto, anche agli occhi dell’amante Delfina, prima della lista degli operai sovversivi da licenziare. Un racconto amaro sugli anni del terrorismo politico coraggiosamente sbilanciato sul nostro presente. Anche Giordano Meacci in Più bella del reame narra la vicenda di un’azienda, la Rotor, prima votata all’imbottitura dei sedili anteriori delle auto Fiat, poi dopo la crisi nella metà degli anni Settanta («Alla tv, quando ci fu il rapimento Moro… Mi era bastata un’occhiata sola; ho visto il sedile davanti, quello del guidatore: i proiettili avevano scalzato il tessuto e io avevo riconosciuto la gommapiuma. Di quel tipo lì… la tagliavamo solo noi») riconvertita a Roma nella Rotor 2, questa volta con pochi operai e tutti rigorosamente precari. Un testo interessante che intreccia su cinquant’anni di microstoria industriale italiana un universo di invenzioni parallele che ruotano intorno al protagonista.
Elena Stancanelli cuce insieme – nel suo Hanno arrestato i’Tuti con la tuta della Teti… – alcuni significativi spezzoni anni Settanta: la vicenda del terrorista nero Mario Tuti, l’omicidio a Viareggio nel 1969 di Ermanno Lavorini, il mobiliere di Quarrata Luigi Lenzi, «imprenditore matto e imbottito di soldi», e il suo amico gran burattinaio Licio Gelli, liste e trame della P2 intorno alle stragi e al fallito colpo di stato. Segnalerei ancora i racconti di Gabriele Pedullà, di Leonardo Pica Ciamarra, di Tommaso Pincio, di Christian Raimo e di Valeria Parrella, che in Verissimo narra la storia di un’insegnante fuori sede supplente a intermittenza che escogita a Bergamo Alta una vendetta notturna al letame ai danni della conduttrice del noto varietà televisivo.
Emerge un tema nuovo in questi testi: il precariato che affligge questi giovani autori, con il pericolo che «gli ideali» per cui combattono «le migliori menti» di questa generazione si limitino a un contratto a tempo indeterminato.
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Pubblicato in due puntate su Stilos il 20 e 27 aprile 2004