Fotosfera (6 prose)
Di Marco Giovenale
I.
Nel cortile e nel vento opposto del principio di luglio sa tuttora cigolare una porta petrolio-legno. Si spalanca per far entrare festa di due occhi, il lutto di una coda di parenti, delle buste brune di carta che scricchiolano, un’albicocca o solo una sua parte marcia lanciata dal cieco al primo piano. Lo spessore delle lenti. Un altro ancora che tenta scale di clarino dai sottotetti, oltre la svolta e dove due spioventi inquadrano Venere per chi sul terrazzo tende i fili che un diverso vento la settimana prima aveva strappato verso l’alto. Senza che questo annunci alcuna variazione, da allora. Sul sangue buttato radendosi ora il prete passa la picca d’allume.
Uscendo da una ringhiera rossa come ponte il topo già salito da gronda a mezzanino guadagna altri metri e fa un tuffo tra le foglie, chissà di chi. È femmina e depone giorni dopo i suoi cinque dieci sacchetti di fame e siero, che digeriscono subito il mondo, lasciando piccoli fori bruciati, strappi, escrementi poi la gloria di una carcassa di stoffa e setole dove tra l’erba alta, lo spigo e i forasacco, una stadera di sola ruggine apre le braccia a croce per dondolare fune, assi, leve: avevano cercato facendo forza di schiodare un motore, lì. Nel resto del prato dietro. Resti di spazio continuano a correre in resti di tempo. Qualcosa di quanto detto invecchia, e viene calciato giù per i gradini dai nuovi padroni, che una con i capelli rossi osserva senza ridere ma piegando di lato la testa. Come se torcere le cose viste fosse inclinarle verso una trappola, una punta di ferro
II.
Lì all’inizio la conclusione non convinceva nessuno, non era entrato. Non era entrato in chiesa per pregare ma per evitare la pioggia continua, la più sottile, massacrata dettagliata, irrecuperabili i vestiti. Curvature alle travi barocche, traboccate, dormiva. C’era c’è una mostra di qualcosa lì vicino, una esposizione, una ostensione. Dormiva lo stesso, diversamente – sorridendo – diceva. Chiesero lei non si potrebbe organizzare per la notte? Niente. Niente. Spariva la traccia di luminescenza fuori, stava venendo sera da dietro le vetrate. Disse questi piccoli pezzi di prosa sono tutto quello che ho. Le briciole della crosta, meno nera, dalla tasca. (Alle tre di notte nel centro del magazzino, sotto, un’anta di scatolone facendo arco si sarebbe aperta delicatamente, non essendo vista). L’altro abito è pronto e posso pagarglielo un quinto, ma mi faccia vedere meglio. Dopo mezz’ora decidono uno di non vendere, l’altro di non comprare. Riapriamo alle tre e mezza. Devo pensarci, dobbiamo. Grazie. Arrivederci. La verità è già la notte, come la notte dopo.
III.
Si dice di un cane fedelissimo a un luogo, prima che ai tracciati neurali di un padrone.
Sta le ore a vegliare il centro vuoto della casa. Quando diventa cieco per la vecchiaia, a far pena non è il fatto che ciondoli in giro per le stanze, ma che dia e tolga dedizione a tutto, senza sapere.
Vedi una passione distratta immediatamente, riaccesa, che inclina, perde ore, flusso; il nastro balla, ci sono macchie di ronzio nel suono. Preme e sfonda con le zampe le scatole vuote. Gli tirano le frecce di carta, le penne, quelli nati parecchio dopo di lui. Devono ridere, è nel testo. Comunque finisce prima; il più della materia è consumato
IV.
La polvere si affeziona alla tastiera aperta. Rimane senza scrittura per molto tempo. C’è un effetto (affetto) disaggregante delle parole verso le parole.
Ha rivisto i dieci amici mentre cambiavano strada. Lungo la galleria. Camminano buffi un po’ oscillanti senza mezzi per tornare. Nel vapore prima delle cinque. Uno non può sopportare tutto il silenzio. Sta per rispondere a quest’ultima nota, quando passa la cortina d’acqua. Un’altra metà si volta. Il fratello dubita del fratello; pensavo fossi qui, uno dice. No, non credere, avevo solo doppiato l’angolo del palazzo. Siamo quasi arrivati. Non c’è nessuno sulla strada. Pensa di parlare a se stesso forse. Sì, si dice. Proprio così. D’altro canto lo insegna tutta l’esperienza, le percezioni sono archi sono copie, ecco le finestre binate. In sincrono, e ripetizione. Non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume: perché il due è un numero troppo basso. Anche artigliata indietro, osservata, la fede verso la cosa mette rami nella negazione, raggia multipli. Ecco, guarda come si avvicina la porta. Siamo veramente arrivati? Pensa, non ci posso pensare. Tossisce mentre tutti cercano le loro copie delle chiavi. Dài, apri. Non aspettiamo ancora. Quanti gesti, la serratura è difettosa. Gli insetti rodono il piancito, da sotto sentiresti i topi. Domani compreremo quel libro di Fortini, adesso abbiamo bisogno di sonno. Devo tornare. Accendi la luce. Dormiamo. Vedi che parla? Dove sei arrivato e … fino a quando pensi di restare? La domenica chiude. Finita, finita. Poteva resistere qualche altra ora; ma i ritorni di immagine erano troppo forti. Se n’è andato, meglio così. Adesso è serrato, finito, freddo; guarda la bocca, guarda gli occhi se non sembrano mandorle. Chiama tu gli addetti. Sono insopportabili, e devono levarlo; via. Ha smesso. Così fermo, non era immaginabile. No? Componiamolo. Che lo trovino in ordine, poi. Sì è bene che lo portino via
V.
Ecco la somma, è mattina. È alzata la serranda, c’è l’opacità del grasso, è sui vetri; ci sono gli interruttori: l’escussione della luce. È stanata dai tubolari; come la nota famiglia di topi.
Ma, su tutto, lo strappo al cedolino segnatempo del pos, lettore di carte (un avvenire): pensa: cede tempo della mercatura: un giorno aggiunto – fa il led verde. Complica una lentezza a comando, righe di istruzioni stillate la notte avanti; fa la meridiana a impulsi. Fila e compila il fuso (fusibile, flusso) delle ore bancarie, liquefazione; i minuti sprecati, lo spreco minuto degli impulsi, la loro colonna che chissà dove pensa di andare, e a fare che
VI.
Ecco (ti rimprovera): se fossi abbastanza fedele alla tua ombra ne specchieresti la mancanza di spessore. Ma allora sparirebbe. È l’opacità della massa a battezzarla. Tu lasci che ti dica questo così come lasci andare le giornate – tutte linearmente nella condanna
(immagine di Paul Klee)