Azioni Poetiche
Dossier sulla poesia italiana contemporanea della rivista francese Action poétique, n. 177, settembre 2004
Franco Buffoni, Gabriele Frasca, Giuliano Mesa, Biagio Cepollaro, Aldo Nove, Andrea Inglese, Marco Giovenale, Florinda Fusco, Massimo Sannelli, Flavio Santi – con un disegno originale di Mattia Paganelli
Introduzione
Tondi di Andrea Raos e corsivi di Andrea Inglese
Nel 1994, appena prima di morire, Franco Fortini pubblica il suo ultimo libro di poesia, Composita solvantur (“Che i composti si dissolvano”). L’autore spiega che questa frase è presa dal vocabolario dell’alchimia, dove indica la fine di un processo: la politica, la poesia, la vita scompaiono, la storia si conclude perché tutto possa ripartire…
Sino ad allora, su cinquant’anni, Fortini aveva accompagnato la poesia italiana nel suo distacco doloroso, mai concluso, dalla sua tradizione secolare (che si potrebbe ridurre, essenzialmente, ad un corpo a corpo con l’endecasillabo: la musicalità della lingua, la sua maledizione…). La sua opzione fu uno sguardo “paterno” (rigoroso, ossessivo) sulle forme classiche: indispensabili, a suo modo di vedere, in quanto dati oggettivi – storicamente e socialmente determinati – testimonianti il processo di corrosione della cultura borghese occidentale. Aveva compiuto il suo percorso con o (il più delle volte) contro poeti come, fra gli altri, Zanzotto, Pasolini, il Gruppo 63, Emilio Villa, Giancarlo Majorino, Edoardo Cacciatore, Giovanni Giudici (tutti questi poeti sono elementi essenziali del Novecento europeo. Alcuni di loro sono conosciuti in Francia; gli altri meriterebbero di esserlo).
Attraversare il manierismo. Forse non si tratta che di questo. Eludere la sua necessità, senza per questo credere che la nostra eredità poetica possa essere ignorata. La forza stilistica di questa eredità ci affascina, ma la sua impotenza nei confronti della lingua quotidiana ci rattrista. La migliore poesia italiana del XX secolo non ha mai cessato di sognare una società e una lingua viva, nella quale finalmente acquietarsi. Invano. La “frattura Leopardi” non si è mai suturata: il poeta ha quasi sempre parlato del presente ma con delle parole inattuali; il poeta ha quasi sempre parlato di tutti, ma rivolgendosi a un piccolo gruppo.
Nel 1951, a trent’anni, Zanzotto pubblica il suo primo libro di poesia, Dietro il paesaggio. Come indica il titolo, il paesaggio, il reale tutto esplodono, intanto che si dissolve la coscienza che li osserva. Un turbine di citazioni tratte dalla poesia antica, dal linguaggio scientifico, dalla lingua comune, dal dialetto investe il modello lirico che già Leopardi aveva trasformato, tracciando un percorso che Zanzotto riprende e radicalizza. La forma poetica, la lingua stessa non resistono a questa terapia d’urto, a questo sguardo “materno” (rizomatico, ossessivo). La storia, la memoria, la natura svaniscono.
Attraversare la chimera dello stile individuale. Bisogna credere allo stile, al “grande” stile, sapendo che nessuno, oggi, può pretendere di possederlo. Questo vorrebbe dire riuscire a cogliere, attraverso le parole, le nostre invarianti antropologiche. Ma c’è ancora una figura d’uomo per il linguaggio poetico? Non si tratta di sottolineare, ancora una volta, che non c’è più società per ascoltare le parole di un poeta. Il problema è che non vi è più un nucleo intorno al quale un soggetto lirico, seppure indebolito e ironico, potrebbe costituirsi. L’esperienza non è più individuale, essa è un prodotto, una fantasmagoria pop. Dal momento che un’autentica identità del gesto poetico non può esistere che grazie ad uno stile personale, bisogna avere il coraggio di rinunciare al proprio stile. Prima illusione da distruggere. Ciò ci spinge a parlare con parole altrui e attraverso forme canonizzate. Siamo nell’ambito della citazione: tessere le parole della tradizione, dei grandi predecessori, con le parole della tribù; congelare, nel sonetto e nella sestina, le figure di un soggetto che si consuma in una durata senza progetto né appartenenza. La rigidità dell’antica forma impone il suo scheletro ritmico e sonoro a una materia psichica in piena dissoluzione.
Zanzotto e Fortini. I poeti qui riuniti si posizionano, ciascuno a suo modo, tra questi due poli. Senza dimenticare le complessità, le inquietudini che l’epoca impone. La ricerca avant-pop di Aldo Nove cela una coscienza raffinata e precisa della poesia antica; inversamente, il classicismo di Gabriele Frasca sceglie di misurarsi con Beckett e Philip K. Dick. Ancora, Biagio Cepollaro lascia scorrere il suo sguardo, in apparenza distratto, ad un tempo sulla nostra storia e sul nostro quotidiano – e così facendo compie un lavoro estremamente meticoloso sul rifiuto della forma -; Massimo Sannelli, invece, lavora sul’implosione della lingua, che mette a confronto con una sua personale esigenza di superamento e di silenzio (Sannelli ha anche – ne testimoniano i suoi scritti in prosa – una coscienza acuta dei risvolti politici della sua scritture: è un mistico attivo).
Attraversare il flusso di citazioni. Lo stile dev’essere, piuttosto che un’adesione a una voce individuale, uno schermo capace di opporsi al flusso della lingua-prodotto, merce funzionale a l’atomizzazione della persona e del gruppo sociale. Di fronte ad una lingua prodotta in serie dagli emittenti dell’industria culturale e dell’informazione, riaffiora allora una vocazione al trobar clus, dove l’accento è posto sulla necessità di custodire il luogo dell’espressione individuale piuttosto che sulla possibilità di cogliere la verità della propria esperienza.
In un’Italia (un’Europa) dalla cultura e dalla politica degradate e degradanti, questi poeti si accaniscono a sopravvivere e a esplorare, come hanno sempre fatto. Si noterà che lavorano essenzialmente sul verso, nell’accezione più tradizionale del termine. Da questo punto di vista, potrebbero sembrare ritardatarî rispetto a talune attualità francesi. A questo proposito, sono necessarie due osservazioni.
La prima riguarda la frattura che esiste fra la poesia attuale e le esperienze della cosiddetta post-avanguardia (poesia visiva, poesia sonora…) della generazione attiva negli Anni 70. Tra i grandi dimenticati, un nome per tutti: Adriano Spatola. Intorno a lui e al suo tempo comincia a malapena, in Italia, un impervio lavoro di memoria che attribuirà loro, un giorno, il posto che meritano (questo lavoro di memoria è reso ancora più difficile dal fatto che le cause di questo oblio sono più politiche che non strettamente letterarie). Nel frattempo, questo scarto esiste nei fatti. E la poesia che genera merita di essere documentata (nella mia selezione, Giuliano Mesa potrebbe fungere, almeno in parte, da passerella fra le due generazioni).
Seconda osservazione: per essere compresa, questa stessa poesia deve esere messa in rapporto con gli esperimenti condotti in parallelo da romanzieri quali Antonio Moresco, Elena Ferrante, Marosia Castaldi, Gianluca Gigliozzi (volontariamente cito solo nomi sconosciuti in Francia; spero così di aprire una breccia nella loro direzione [N.d.A. Qui in parte mi sbagliavo: i romanzi della Ferrante sono tradotti in francese]). Questi scrittori stanno ripensando le forme della narrazione lottando contro le stesse difficoltà, gli stessi vuoti di memoria che affliggono i poeti più giovani fra quelli qui rappresentati. L’attenzione è reciproca, il dialogo costante.
Attraversare lo schermo. Insediarsi senza riserve nella piccolezza della vita e nella banalità delle parole. E da lì abbozzare un contorno. Il contorno non è una frontiera che separa il fuori dal dentro, ma un desiderio di separazione che non conosce ancora ciò che appartiene all’io e ciò che appartiene al mondo. Per tracciare dei contorni, bisogna esporsi alla lingua-merce e alla forme di vita ordinarie: è muovendo dall’esterno, dallo spazio della spettacolo, che si cercano le parole dell’interno, ossia le parole della nostra temporalità fisica e biografica, individuale e storica. Si tratta ancora di poesia? Come accertarsi dell’identità di questo discorso? Della sua appartenenza? Questo è il rischio maggiore per coloro che vogliono attraversare il manierismo, non per la via illusoria del vitalismo e dello spontaneismo, ma per la porta stretta del pensiero, della meditazione discontinua e ritmata.
Tengo a ringraziare i traduttori, quasi tutti poeti in proprio, per aver dato prova di una precisione e di una sensibilità eccezionali nell’ascolto delle voci a loro affidate [N.d.A. I traduttori sono, in ordine di apparizione, Véronique Perrin e Laurent Grisel (Buffoni), Karine Arneodo (Frasca), Éric Houser (Mesa), Jean-Jacques Viton (Cepollaro), Liliane Giraudon (Nove), Magali Amougou e Joseph Julien Guglielmi (Inglese), Ryoko Sekiguchi (Giovenale), Chantal Bizzini (Fusco), Éric Suchère (Sannelli), Michael Fusaro (Santi)].
Conosco relativamente poco i poeti del dossier. Solo di Nove ho letto un intero libro, “Fuoco su Babilonia!” (OK Piucchedubbioso, ti prevengo e cito anche “Covers” – benché scritto a più mani); degli altri ho letto cose presenti in rete e in un’antologia del premio Delfini (Cepollaro, Inglese, Fusco), per qualche misteriosa ragione trovata esposta in bella vista da Feltrinelli.
Il problema (uno dei problemi) è che i libri di poesia dei contemporanei in libreria normalmente non si trovano: c’è (per me) la seccatura di doverli ordinare, di non potere – prima – guardare e sfogliare.
Trovo comunque molto interessante questa introduzione, di un interesse che va oltre la circostanza per la quale è stata scritta.
Mi interessa sia la parte che riguarda il quadro storico e le radici (Raos), sia il corsivo con le dichiarazioni d’intenti (Inglese).
È tutto molto denso, dunque da stampare e da leggere con calma.
cara emma, sulla questione della circolazione dei libri di poesia per editori minori (che è almeno il 70% della poesia nuova che si fa in Italia) mi piacerebbe prima o poi fare un discorso più articolato proprio su NI. Grazie di aver messo all’ordine del giorno il problema.