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The Rhytm of the Night

di Mario Desiati

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The Rhytm of the Night. Apologia della dance music anni Novanta è un pezzo di Mario Desiati (Neppure quando è notte, Pequod 2003) apparso nel numero di novembre di Medicine Show, mensile musicale assai ciarlatanesco curato da Leonardo Colombati. [gm]

The Rhytm of the Night
Apologia della dance music anni Novanta

Eravamo tutti felici nel dorato mondo degli anni Novanta, quando c’era tutto quello che volevamo a portata di mano. Le ragazze nascondevano i loro piedi in anfibi neri sotto qualunque tipo di abbigliamento e le loro acconciature si fermavano dietro la nuca. Caschetti lisci e adorabili, tinti di mogano o riccioli umidi e laccati di spray schiumosi di Pantène. Le feste in maschera degli anni Novanta erano tutte uguali e le ragazze si vestivano da Mortycia Adams con i trucchi neri, gli smalti neri, i rossetti neri. La tecno spopolava e se non conoscevi e ballavi gli Snap eri fuori da ogni circuito che contava. Le canne iniziavano a essere soppiantate dalle micidiali pilloline con sopra il pupazzo della Sonic e chi le provava giurava di trovare l’amore di una notte o la donna della vita. Erano anni fantastici, quando Rocco Siffredi lanciava la minuta e sbarazzina Sandy Balestra – lubrica Britney Spears ante litteram – che in film commossi e apocalittici si donava a nutrite schiere di extracomunitari e aspiranti pornodivi. Erano gli anni del Milan di Capello e della Juve di Lippi ed echeggiava nei nostri stereo l’orrendo inno rossonero e l’ancor più orrendo Juventuslandia di Madama.
Di tutto questo oggi c’è una cenere fitta, non resta che qualche sbiadito ricordo, se non un piccolo mucchio di cassette con canzoni che nessuno più ascolta e solo in rare discoteche vengono ancora messe in auge. Poi succede che nei remoti scaffali della tua camera di adolescente trovi le cassette del Festivalbar comprate da un marocchino impiccione che sulla spiaggia di Torre Canne rifilava nastri contraffatti della musica estiva più ascoltata. E lì è iniziato un viaggio conclusosi con un’affermazione perentoria: la più bella musica di tutti i tempi è la discodance degli anni Novanta.
Era il 1992 e dopo il grande successo del remix di Because the night di Patty Smith e della troll-music degli Snap nasceva la vera dialettica degli anni Novanta, altro che palestinesi e israeliani o accessorio contro complemento d’arredo, Stile libero contro Castelvecchi: era la commerciale e l’underground. Già in quella orribile parola: commerciale, c’era tutto, c’era un modo di pensare e soprattutto un’opulenza tipica di quel decennio. La musica commerciale era vituperata ed esorcizzata da intellettuali col diario Smemoranda e fighetti da Y10, eppure tutti la ballavano, tutti si accalcavano in pista bagnando le loro ascelle per dimenarsi al ritmo più sfrenato.
I ritmi della commerciale erano due, quello soft, un po’ ridondante, con un ritornello canticchiabile; e quella detta “maranza” o “cazzofiga”, fatta di bassi fortissimi e campionature rumorose simili a quelle di motoseghe e tagliaerba impazziti. La “cazzofiga” andava nelle discoteche di provincia e del nord Italia, i loro profeti erano il gruppo dei Cappella, il loro successo più clamoroso fu Move it up che seguì a Move on baby e a U got 2 know. Si trattava di una rivoluzione totale, una liberazione. Perché esaltarsi per le canzoni? Quello che conta non è la melodia o il testo, ma soltanto il suono. In seguito a questo grande successo nacquero anche dei cloni di questo gruppo: gli Anti-cappella che con Move your body (di Bortolotti, Castrezzati, Elmzoom, Leoni, Maifrini, Overman, Pasinelli, Zucchini) spopolano.
Le canzoni erano sempre più scarnificate, i ritornelli più primitivi che mai, squadre di disk-jockey si raggruppavano per firmare brani insulsi. Grappoli di nomi per canzoncine di un minuto e mezzo, passate e ripassate in tutte le discoteche d’Italia, fruttuosissime di diritti d’autore. Questi branchi di campionatori cercano e trovano vocalist qualunque da piano bar per infilar loro in bocca strofe ridondanti su basi elettroniche. La più popolare di queste operazioni è The Rhythm of the night, di una stanga di colore chiamata Corona su cui subito montò una leggenda metropolitana che fosse una regina di film hard. Notizia mai appurata.
Il 1994 è l’anno di grazia. Si tratta di un momento speciale perché è il trionfo della musica dance made in Italy. L’inverno è l’apoteosi della “maranza”, l’estate della soft commerciale. Tra febbraio e marzo si ballano Pupunanny di Afrika Bambaataa e Automatik sex remix di Einstein Dr. DJ, oltre ad una sua versione più slow chiamata Automatice sex. E poi Bomba di dj Ramirez, Brothers in the space di Aladino, Eins zwei polizei dei Mo-Do… Quest’ultima è l’orgasmo dei rave fasci dove spilungoni col cranio rasato e tatuaggi sulla nuca abbaiano “ainzvaipolizai” con le braccia tese.
Un album in particolare crea sconcerto ed entusiasmi incontrollati; si tratta dell’Energia del Diablo, compilation che comprende molte delle canzoni appena citate più un clamoroso ed irripetibile remix di Small Town Boy dei Bronski Beat. All sottoscritto scoppiano le orecchie grazie a questi brani indimenticabili ed anche a una versione acustica del monotono Cosmonautica di Virtualmismo e Let me be dei Da Blitz (storpiata in “lecc my pizz” dai giovani terroni).
In estate esplode Think about the way di Ice Mc, col suo ritornello “bonghedeghedebon…”. Il rapper che lo canta in camiciona a quadri e flenallata è un tipo che si chiama Ian Campbell Esquire (da cui la sigla ICE). I suoi capelli rasta sono da incubo. Indimenticabile una puntata di Non è la Rai dove in mezzo a imberbi fighine si lascia andare a strusciamenti inguinali al ritmo dei suoi grandi successi: Take away the colour, Think about the way e It’s a rainy day.
Nonostante quella bollente estate del 1994 veda trionfare il canto del cigno di Umberto Tozzi, Lei, la classifica italiana è dominata da brani clamorosi: The rhythm is magic di Marie Claire D’Ubaldo, una sudamericana con anfibioni neri e top di lana ammiccante, Tonight is the night dei la Click, Sweet dreams di La Bouche (remix degli Eurythmics)…
La musica commerciale degli anni Novanta è come la pornografia. Si va subito al dunque. Non contano i testi e le canzoni, conta il ritmo tribale o metallico. Ma più della pornografia è un fenomeno di massa, un fenomeno che coinvolge tutti. Eppure proprio questo coinvolgere tutti fa si che venga fuori una specie di classe dominante, socialmente e intellettualmente influente che inizia ad ascoltare una musica diversa. È l’underground. La musica underground da discoteca è infatti un misto di progressive e toni soffusi e non centra una beata fava con la culture/underground. L’hit dell’anno si chiama Illusion, “suonata” dai Ti.Pi.Cal. Questo genere di disco viene bombato nei privée, luoghi del paraculo dove per entrare bisogna essere vestiti in una certa maniera – ci sono palme, i cocktail hanno prezzi da Euro e non è consentito avere un portafoglio esiguo.
Ma alla fine vince sempre il meticcio. Le razze sono destinate a mescolarsi. La via di mezzo tra commerciale e underground sembra essere la nuova frontiera. Short dick man dei 20 Fingers è un canzone assurda che parla di un uomo dotato di cazzo piccolo. È la sintesi totale. Ed è anche l’apertura ai ritornelli scurrili; il più noto scalerà le classifiche nel 1997, quello di Meredith Brooks: I’m a bitch.
L’effetto rivoluzionario della musica dance 1994 (campionamenti al computer, ritornelli ridondanti, fighe alla Corona e qualche melodia nel marasma tecno) si protrae per tutta la prima parte del 1995, quando i primi venti brani in classifica sono brani di musica dance. Da allora tutto quello che seguirà saranno solo riscritture e ripensamenti di quella musica mixata nel 1994. Dopo che il suono ha trionfato sulla musica non c’è più voglia di altro. Il calo del desiderio. La storia finisce.
Poi ho smesso di ascoltare musica dance perché non ho più una radio dove sentirla e i soldi per andare in discoteca.

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