Il Presepio di Manganelli
Nella città in cui vivo, anzi in tutte le città in cui potrei vivere, sta arrivando il Natale. Alcuni dicono, il Santo Natale. Sebbene la mia vita sia distratta e disorientata, da molti segni, come gli animali, mi accorgo dell’imminenza del Natale.
L’irrequietezza agita i miei simili; una sorta di inedita tristezza che si accompagna ad una smania, una torbida cupezza, una litigiosità capziosa, non di rado violenta, ma soprattutto aspramente angosciosa. Quando il Natale si approssima, l’infelicità si scatena su tutta la terra, invade gli interstizi, ci si sveglia il mattino con quel sentimento, discontinuo durante tutto l’anno, che vivere a questo modo pare intollerabile, forse disonesto, una bestemmia. Strano che abbia scelto questa parola, sostanzialmente pia, per descrivere l’infelicità natalizia. E infatti questo avverto, che a differenza della desolazione che direi privata, attraverso la quale passiamo in vari momenti dell’anno, questa è una tetraggine che ha dell’astronomico, come a dire che gli astri sono coinvolti, e forse la tristezza che suppongo mia in realtà è un affetto che tocca gli estremi dell’universo, e oltre, se si dà un oltre.
Con questa sublime irruenza metafisica (“Sostenibile ancora?”, chioserebbe Rainer Maria Rilke di fronte ai suoi angeli di pura astrazione letteraria) inizia Il Presepio di Giorgio Manganelli, forse il più devastante trattato filosofico sull’horror vacui natalizio, e il più attuale, se ancora attorno a improbabili presepi si sono strette milioni di famiglie tre mesi dopo l’11 settembre 2001, se tutt’ogggi il presepe (o “presepio”, come Manganelli lo chiama) è una condensazione freudiana di spie di un teatro improvvisato con meticolosità sui bordi del nulla, e che nel nulla tracima gioiosamente, come in un’allegoria medioevale (s)finita in Odissea 2001 nello spazio di Kubrick.
Manganelli (con Landolfi) è lo scrittore del nostro Novecento che più ha saputo scomporre l’empietà ideologica del linguaggio letterario in puro feticcio, in scarto residuale di umanità non più data, come disumano del resto è il suo “presepio” burroghsiano e organico, drogato e moribondo. Un viatico per la disperazione che è al contempo un sommo esercizio di retorica che è anche teologia senza seduzioni (come lo è la testa della Madonna corrosa dai vermi, il giorno dopo, The Day After il Natale), come già nelle pagine vertiginose di Dall’Inferno (dove il protagonista vagava nel Nulla con le viscere smangiate da una bambola pazza che gli abitava l’anima, sostituendola con escrementi), o nell’esplosione ineluttabile di Sconclusione, forse il più radicale tra i libri di Manganelli.
La vita (il pneuma) è l’ossessione di Giorgio Manganelli, e la sua raggelata messa in scena salvifica, il presepe, non può che esserne esiziale parodia. C’è un filo insospettabile che unisce la lamiere gaudenti di Ballard alla candida terracotta di Manganelli: la loro oscena fisicità, la presenza nel mondo e quindi l’ascrizione nel campo del Desiderio che il Natale vorrebbe sospendere in un museo merceologico (e mistico, feticistico) che il teologo (il coprologo, il leopardiano analista di scarti biologici rimasti a marcire sul mercato della cultura) Manganelli liquida per sempre, fino al presepe che diventa “muto”, quello che celebra, alla fine del mese, “l’eterna morte dell’anno” che non ha più nulla del dionisiaco folleggiare attorno all’eterno ritorno nietzschiano ma è soltanto il logo spento di una desolazione assoluta, quella “notte senz’anima” che San Giovanni della Croce celebrava come delizia estrema dei suoi tormenti e Manganelli butta nella spazzatura tra gli avanzi del cenone di Natale.
Una grande cena (The Last Supper?) acidamente contaminata, come in Wahrol, da marche di prodotti di largo consumo: fino all’apparizione, in controluce, del consumo ultimo, quello della morte che nel Presepio di Manganelli divora anche Dio, il libro stesso, l’autore, il Novecento, la nefasta decisione di affidare a un libro non certo la salvezza ma il proprio tempo, che Manganelli non sospende ma accelera. Come Leopardi, come Carmelo Bene. Come chiunque abbia saputo spazzare via i feticci anteposti al consumo inesorabile del tempo. Buon Natale.
Giorgio Manganelli, Il Presepio, Adelphi, 1992.
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Pubblicato su Liberazione, 19 dicembre 2004.