Siamo tutti turchi
di Helena Janeczek
Era l’inizio di Dicembre, sabato pomeriggio, a Milano cominciava la corsa agli acquisti di Natale. Bisognava trovarsi al cinema circa mezz’ora prima, ma il treno arrivava in Centrale con i soliti dieci minuti di ritardo. Corro al metrò, scendo alla fermata “Montenapoleone”, faccio via Montenapoleone su e giù dal marciapiede, percorso ad ostacoli che coincide con le vetrine di Versace, Gucci, Cartier, abiti da sera, sandali farciti di Swarovski, triplo-cashemere, solitari enormi, quelli che guardano coi nasi vicino al vetro e quelli che come me scendono anche sulla carreggiata, ma con calma, facce non più giovani mummificate dal benessere e dal botulino (chiamiamoli così), visto che è proprio impossibile camminare sul marciapiede se si è pieni di borse.
Giapponesi, ora che ci penso, non ne ho visti. Ero di corsa, d’accordo, e dunque un certo numero di orientali dev’essermi sfuggito, eppure quello che non ho potuto non vedere era uno spettacolo a prevalenza milanese, raro, tremendissimo e attuale: crocchi di benvestiti che si lustravano gli occhi come i poveri bambini di Dickens e ponderavano l’acquisto di almeno una caravatta o un portafoglio strafirmato. Nuovi benvenuti nelle fila dell’esercito trés chic dei “vorrei ma non posso”, raccolto di un declino che i pochi illesi continuavano a scartare con inconsapevole strafottenza.
Il cinema “Arlecchino” si trova ai margini del cosiddetto quadrilatero della moda e dunque, visto il luogo, ma anche l’orario, quelle che aspettavano la proiezione erano soprattutto signore per bene di una certa età. Il film, infatti, qui in Italia si chiama La sposa turcae di conseguenza, giustamente, ha un manifesto che sbatte in primo piano la bella sposa in braccio allo sposo e sotto, per non lasciare dubbi, una veduta panoramica di Istanbul sul Bosforo.
Cominciavo a veder male le sciure, poverette, che alla loro età si erano mosse per concedersi una bella commedia romantica del sottogenere multietnico, garantita da un prestigioso premio internazionale. Cominciavo ad indignarmi con gli ignoti pescecani del business cinematografico nostrano che col preciso intento di intortare simili signore avevano spacciato per Il mio grasso, grosso matrimonio grecoun film che in origine si intitolava Gegen die Wand, cioè “Contro un muro”.
Me li immaginavo perfettamente, me li figuravo intorno al tavolo di riunione che fanno il punto della situazione: “Okay, ormai lo abbiamo preso: ha vinto l’Orso d’Oro a Berlino, lo hanno pigliato anche i francesi, gli inglesi, gli spagnoli, persino gli americani, cristo. E poi dobbiamo promuovere il cinema europeo, o no? Ma mo’ ce dobbiamo dì’ ‘na cosa: de sta traggedia fra du’turchi in Germania a noi in Italia nun ce ne puo’ frega’ de meno. Quindi, ragazzi, diamoce ‘na mossa, inventiamoce qualcosa…”
Italiani furbi e fessi. Nei paesi anglosassoni, persino in Francia dove il computer è tradotto in “ordinnateur”, l’hanno chiamato “Head-on” , titolo vicino all’originale, e così hanno riempito i cinema del pubblico giusto. Da noi invece, – ho presente il caso di Milano – è uscito prima in un’unica sala per poi espandere a due o forse a tre, tornare in un solo cinema, però grande e centrale, e alla fine passare a un cinema d’essai dove resta in programmazione dopo mesi, quando megaproduzioni come The Village sono scomparse nel giro di poche settimane.
C’è stato il passaparola, è evidente, (parentesi: mai sottovalutare le signore.) e senza quel ripetersi di domande -hai visto La sposa turca?- forse nemmeno io sarei andata a vedere il film.
Perché anch’io, pur avendo letto giornali tedeschi all’epoca in cui vinse a Berlino e, più recentemente, qualche recensioni italiana, ne avevo un immagine riduttiva.
Scusate se mi dilungo prendendo me stessa come cavia, ma credo che sia un punto importante. Il preconcetto che avevo era in sintesi: duro e onesto film sociale. Con un’ impronta di ribellismo giovanilista, vista l’età del regista (Fatih Akin è del 1973) e visto il titolo originale “Gegen die Wand”. Qualcosa che somigliasse a My beautiful laudrette , ma anche al più celebre film “multietnico” non anglosassone, cioè L’odio di Matthieu Kassovitz.
Ero convinta che l’”Orso d’Oro” fosse un premio politico, così come era stato per Stammheim, l’ultimo film tedesco a vincere la Berlinale diciotto anni prima. Saranno stati irresistibilmente attratti dall’opportunità di prendere due piccioni con una fava, i giurati, ovvero glorificare in patria la rinascita del cinema nazionale e compiere un bel gesto (forse polemico) nei confronti dei scenari di guerra di civiltà. Questa è la Germania di Schröder che vuole celebrarsi campione del “Multikulti” e, fortuna, trova il giovane talento di minoranza turco-tedesca per poterlo fare.
Tutto questo è verosimile: anche il Nobel ormai pare che lo assegnino secondo logiche assai più politicamente contorte del semplice “politically correct”. Ma l’esito di queste (forse) buone intenzioni è una sorta di razzismo di ritorno. Stando all’esempio del Nobel: visto che vediamo i massimi scrittori maschi, bianchi e spesso per giunta americani ignorati di anno in anno, si fa strada l’idea che i premiati siano di conseguenza scrittori di serie B. Non sempre lo sono e comunque il premio ha il merito di far conoscere le opere di autori che altrimenti sarebbero destinati a un pubblico minuscolo? E’ vero, ma si rimane nell’ambivalenza. Toni Morrison, per esempio, col Nobel ci ha guadagnato di essere messa al posto che le spetta nella considerazione internazionale, o è rimasta la brava nera della nicchia a canto? Se quelli di Stoccolma si degnassero di premiare anche Roth, De Lillo, Joyce Carol Oates (ma la lista è lunga), almeno uno fra i tanti, anche il lavoro e la fatica di questa donna di colore nata circa sessant’anni fa negli stati del Sud riceverebbe una più giusta considerazione. Il paternalismo buonista, invece, concede un gesto di riparazione in cambio dell’oblio delle reali e persistenti condizioni discriminatorie e di quanto sia duro doverci sbattere contro.
Dopo aver visto La sposa turca, sono andata a cercare in rete quel che se ne diceva nei vari paesi in cui era uscito. La cosa non del tutto imprevedibile che venne fuori era che la gran parte dei pezzi alimentava esattamente l’immagine del duro e onesto film “etnico” che avevo io. Quel che mi è invece parso sconcertante è che questo valeva in massimo grado per gli articoli, le recensioni, e le interviste tedesche.
Si comincia col dare la notizia del vincitore “a gran sorpresa” insieme all’informazione che il film premiato “tocca le tematiche della convivenza fra turchi e tedeschi”, si procede con lunghe interviste in cui Fatih Akin risponde per tre quarti a domande riguardanti la sua identità, famiglia, i problemi- vedi sopra- dei giovani turco-tedeschi. Qualche curiosità sull’uso della musica turca-rom e punk, subito integrato da cenni biografici sull’attività di DJ dell’intervistato; la classica domanda su modelli e maestri; un piccolo approfondimento sul rapporto con gli attori, ma in questo caso sembra essere l’intervistato a voler spiegare come si fosse fatto guidare dalla personalità e presenza scenica del suo attore preferito, Birol Ünel.
Fin qui, diciamo, lo scenario della normale prassi giornalistica per la quale è più ghiotta la “success story” di un giovane turco nativo del Kiez di Amburgo piuttosto che la descrizione di un promettente cineasta e del suo modo di interpretare il mestiere. Quel che segue, invece, è uno schifo totale, buono solo a rammentare che il “multiculturalismo” può anche avere un’anima ambivalente, ma che il razzismo, quello vero, vivo e vegeto, è un’altra cosa.
“Bild”, il tabloid più diffuso dell’editore di destra Springer, tristemente celebre sin dai tempi del sessantotto, scova il passato di attrice porno della protagonista Sibel Kekilli e lo sbatte ripetutamente in prima pagina. Tutti gli interessati rispondono e contrattaccano come possono, ma il risultato per la vita della giovane attrice è comunque pesantissimo. La sua famiglia interrompe i rapporti con lei, come avviene per l’omonima protagonista del film, e inoltre l’attrice è costretta a cambiare casa e città. A quel punto, ovviamente, il “caso” assorda ogni discorso più sottile sul film. Le più belle recensioni che ho trovato in rete venivano dalla Francia, dalla Spagna, e, nel caso dell’Italia, confermando la tendenziale accidia e superficialità della nostra critica sui giornali, direttamente sui siti dedicati al cinema (ad esempio www.blackmailmag.com o www.glispietati.com), fatto che rimanda probabilmente anche a una questione di sensibilità generazionale.
La sposa turca narra del matrimonio di interesse fra Sibel, una bella ragazza turca di famiglia tradizionale, e Cahit, uomo di età assai maggiore, rovinato, in più, da birra e cocaina. Si conoscono in una clinica psichiatrica di Amburgo dove entrambi sono finiti in seguito a un tentato suicidio – lei tagliandosi i polsi, lui andando a sbattere con la macchina contro un muro. E’ un incontro assolutamente accidentale perché Cahit non ha nulla di riconoscibilmente turco tranne il nome che Sibel sente pronunciare dal dottore. Ed è da lì che la ragazza comincia a pressarlo perché la sposi, di modo che lei possa finalmente fare ciò che desidera, ovvero “divertirmi, ballare, scopare: e non con uno, ma con molti”. Nell’originale la parola usata è “ficken”, più cruda di altri sinonimi gergali. Quando dopo la festa di nozze, la sposa fa una domanda sbagliata sulla foto di una donna dall’aspetto tedesco e punk (la moglie di Cahit, morta non sapremo in che modo), viene sbattuta fuori dalla casa trasandatissima dello sposo. Così scende in abito bianco al bar di sotto e si fa rimorchiare dal barista. Comincia una convivenza di questo tipo, fra scazzi e ispidezze, ognuno con le proprie storie di sesso. Però pian piano si crea complicità, affetto, desiderio. Finiscono a letto, ma Sibel si tira indietro perché consumare il matrimonio significherebbe renderlo vero e vincolante. Dopo, però, gira da sola per la Reeperbahn, il celebre luna-park di Amburgo, e compra un cuore kitsch di panpepato con scritto in zucchero “Ich liebe dich”, “ti amo”.
Nel frattempo, Cahit esce a sbronzarsi, ma incappa in uno degli amanti usa e getta di sua moglie che comincia a chiamarli rispettivamente puttana e pappone. Il cazzotto che alla fine non sa trattenere, lascia secco l’uomo.
Il fatto finisce sui tabloid (vedi sopra: la vita vera), Cahit va in carcere, Sibel viene ripudiata dalla famiglia e, per non finire accoppata dal fratello, si rifugia presso una cugina più emancipata a Istanbul.
Rassetta le camere in un albergo di stile internazionale dove la cugina fa carriera, si taglia i capelli, comincia a frequentare locali underground identici a quelli di Amburgo, a farsi di ogni sostanza reperibile. Pur indirizzandogli lettere che cominciano con “mio amato marito” – o forse proprio per questo-, Sibel diventa identica al uomo distruttivo e autodistruttivo che Cahit era prima di incontrarla. Stuprata mentre era strafatta, esce in strada in piena notte e comincia a dare dei figli di puttana a un gruppo di uomini fino a quando questi oltre a pestarla a sangue, le infilzano un coltello. Non muore perché un tassista pietoso passa di lì.
Dopo sei anni Cahit esce di prigione, asciutto e pulito, ovvero, a suo dire, salvato in primo luogo dal pensiero di Sibel. Raccatta i soldi per volare a Istanbul, si piazza al glorioso e trasandato Hotel Londra e aspetta che, contraddicendo quel che gli ha detto la cugina, Sibel, pur con una vita nuova fatta di un compagno benestante e una figlia, si faccia viva. Così finalmente arriva per consumare in una notte e un giorno l’amore impossibile. Cahit vuole portare via con sé Sibel e la sua bambina, ma alla fine parte da solo con l’autobus verso la città dove è nato.
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La fine – scusate se l’ho rivelata – non rappresenta nulla di inaudito, ma ha un pregio: non è da tragedia. Ci sono due finali tragici nel film – quando Cahit uccide l’amante e quando Sibel cerca di farsi ammazzare- ma nessuno dei due lo chiude.
Fatih Akin ha dichiarato di essere partito con l’idea della commedia, e di averla scartata principalmente perché Birol Ünel con la sua aria da rocker rovinato sarebbe stato completamente fuori posto. Qualunque ne fossero i motivi, uno dei grandi meriti di La Sposa Turca sta nel sottrarsi al sottogenere della commedia multietnica, vuoi disgustosa sin dal titolo come Il mio grasso, grosso matrimonio greco, vuoi briosa e intelligente come la (forse) capostipite My beautiful laudrette. Il fatto che si sia creato un filone, qualcosa di confezionabile e vendibile secondo norma, appiattisce ormai le differenze. Il pubblico si sente virtuoso perché si interessa di usi e costumi e problemi delle minoranze etniche e ne viene ripagato col divertimento e il lieto (al massimo dolceamaro) fine. Ride dunque a spese dei pakistani in Inghilterra, greci in America, libanesi in Svezia, ride magari di un riso partecipe, simpatetico, ma più di così non è tenuto a calarsi nella pelle degli altri. Il comico, infatti, tiene a distanza.
Il tragico dovrebbe essere il contrario, il meccanismo che porta a identificare nel destino del singolo quello di chiunque. Sembra inevitabile che nel film di Akin, una volta scartata la commedia della quale per fortuna rimangono non poche tracce, si affacci il tragico. Gli elementi tragici sono in effetti molti e soprattutto sono tali, ma complessivamente il film non segue uno schema da tragedia. E, secondo me, si tratta ancora una volta di una scelta giusta: perché un conto è quando il meccanismo del tragico ti trascina dentro l’anima di un re malvagio o dei suoi eredi contemporanei o quando, al contrario, travolge quelli come te, le brave persone della porta accanto; un altro quando ti presenta come ineluttabile il destino di chi rimane “altro”. Senza che ci sia identificazione, non avviene nessuna catarsi.
E poi – a questo punto bisogna dirlo- La sposa turca è anche un duro e onesto film sociale: una rappresentazione coraggiosa, priva di abbellimenti – tanto da fruttare al regista minacce di morte da parte della destra religiosa e/o politica turco-tedesca – di come gli immigrati turchi e i loro figli in Germania vivono in un mondo a parte, con leggi e valori ormai arcaichi anche nella Turchia urbana. Un padre dal volto antico e nobile che deve ripudiare la propria figlia, un fratello che pensa di doverla ammazzare: il regista ne sottolinea lo smarrimento e la sofferenza, la sostanza, appunto, tragica. Tutto perché non assumino il facile ruolo dei cattivi e lo spettatore possa scuotere la testa nella sua poltrona e godere della propria superiorità.
Infine, a completare il quadro, c’è Cahit/Birol Ünel che non ricorda più in che città dell’Anatolia sia nato, che dice “io non li sopporto i turchi”, che si presenta al matrimonio con il suo unico amico nel ruolo di unico parente, che come sola decorazione del suo cesso abitativo ha un poster di “Siouxie and the Banshees”, che sembra lui stesso (l’ottima definizione è di blackmailmag) un incrocio fra Bob Geldof e Mick Jagger. Qualcuno ha trovato il personaggio eccessivamente aderente i cliché dell’ immaginario giovanile. E’ vero che Fatih Akin li usa, ma lo fa con la naturalezza e l’affetto di chi ci è cresciuto. E poi Cahit è troppo vecchio per essere banalmente “gioventù bruciata”, e fa un lavoro, quello del raccatta-vuoti in un locale dove si suona e beve, che semplicemente non si presta alla mitizzazione. Ma forse l’aspetto più importante è che ad essere rivestito degli stereotipi della cultura giovanile occidentale è un personaggio di cui importa soprattutto mostrare quanto sia radicalmente sradicato. Cahit spacca lo schema del racconto multietnico, ne mette in crisi tutto l’apparato e vi aggiunge il pezzo più importante: quello del non essere più niente.
E’ grazie lui- ovvero alla sua funzione narrativa – che Akin riesce ad arrivare dove nemmeno i “casseur” de L’odio con la rappresentazione fredda, in fondo più estetizzante e mitizzante dei personaggi, erano arrivati: a coinvolgere il pubblico di qualsiasi provenienza fino al punto da costringerli all’identificazione. Non solo con lui, ma con tutti i personaggi elaborati a sufficienza, inclusi il padre e il fratello di Sibel.
Questo è per me il più grande merito morale e artistico di un film pieno di rabbia e ritmo che ricorda il primo Scorsese e ne condivide il fascino per la retorica di vita e morte trasmessa dalle immagini di sangue, ma che a differenza di Mean Streets o Taxi Driver è probabilmente in primo luogo un film d’amore.
Nei siparietti che dividono le parti, un’orchestrina rom appostata su una distesa di tappeti in riva al Bosforo interpreta canzoni tradizionali sull’amore e la violenza che lo accompagna. I testi sono tradotti con sottotitoli perché lo spettatore possa cogliere il senso di quegli intermezzi che sembrano l’unica concessione all’esotismo.
E anche come film d’amore La sposa turca spicca forse non tanto per meriti suoi, ma per il deserto che ha intorno. Quanti sono i film in cui non ci sono scene di sesso? E quanti quelli in cui le medesime scene abbiano la capacità di esprimere i particolari sentimenti e desideri che corrono fra i due corpi congiunti, o, in assoluto: di trasmettere il desiderio? A me vengono in mente davvero pochi.
Commedia, tragedia, film civile, film d’amore: ma non opera perfetta, capolavoro. Quel che conta è l’uscita definitiva dal ghetto: questo è una prova della rinascita di un nuovo cinema europeo. E non come teorizzano i condiscendenti fautori del multiculturalismo perché abbiamo bisogno del sangue dei barbari. Ma perché siamo tutti turchi.
ho arrancato al contrario giù per la sconnessa frana dei post solo per dirti che sei una grande.
se ti si potesse (non ti offendere) clonare e spargere un po’ qui e un po’ là il mondo delle parole sarebbe meno deprimente.
ciao,
gio