Un silenzio olimpico (2)

Di Roger Salloch, ex-collaboratore del “Paris Review”.

Era ora di tornare a Parigi. Sono salito sull’aereo a malincuore. Ero perplesso quanto il giorno che ero atterrato a San Francisco. Forse un sesto senso mi diceva che la risposta alle mie domande stava per arrivarmi, violenta e improvvisa – e troppo tardi.
Sono atterrato all’aeroporto Charles de Gaulle, e ho preso un taxi fino in città. Il conducente era di colore, originario del Camerun. Stava ascoltando Sports-FM, una partita di pallavolo in diretta dalle Olimpiadi. Mi ha detto che il suo momento preferito durante le Olimpiadi era stato quando la squadra di kayak femminile ungherese aveva vinto il secondo posto. Perché? È scoppiato a ridere. Gli piaceva il verde acceso della loro divisa. Ed erano carine, molto più carine delle ragazze lituane. Diceva che le ragazze lituane sembravano uomini.

Ed ecco che, all’improvviso, mi ha colpito un fatto, che pure era ovvio: se si eccettua la visione solitaria della CNN all’aeroporto di Albuquerque, in nessun altro momento, né su un autobus, né in un Kinko, né facendo la fila al cinema, o a una lavanderia a gettoni, o alle casse del traboccante Berkeley Bowl [gigantesco supermercato alimentare a Berkeley, in California], pieno di giovani donne e di anziani impegnati a far provvista di una tale quantità di cibi diversi, quale probabilmente non si trova in nessun altro angolo del pianeta; né in taxi, in mezzo ai passeggeri, in una conversazione colta al volo su un marciapiede, o a un tavolo vicino al mio; né in un giardinetto, o nell’atrio di un teatro; in nessun luogo o momento, nell’arco del lungo viaggio che avevo appena concluso, mi era mai capitato di sentir parlare delle Olimpiadi.
Ci tengo a ripetere: neanche un volta.

Dopo essere tornato a casa, ho chiamato il mio amico austriaco, lo scrittore. Gli ho chiesto come fosse andato il suo viaggio nel Montana. “L’aria è così trasparente, ha risposto, e il paesaggio è magnifico. È bello laggiù, ma dà malinconia. I villaggi sono sperduti e lontani da tutto”.
Gli ho raccontato la mia storia sulle Olimpiadi. Aveva per caso sentito qualcuno parlare dei Giochi?
No. Pensava che probabilmente li guardavano alla TV, ma non ne parlavano.

Lo spirito olimpico? Ancora dovevano inventarsi una sostanza per rinforzarlo, quello. La gente aveva altro a cui pensare, come arrivare a fine mese. Erano eroici. I loro punti di riferimento erano agricoli e climatici. L’estate era quasi finita. Presto avrebbe ripreso a nevicare. Quando parlavano di politica, si lasciavano trasportare dalle loro opinioni personali. E il punto non era tanto discutere sul programma di ciascun candidato, quanto capire a quale candidato affidarsi per dargli carta bianca su tutto, in qualsiasi circostanza, così da poter portare avanti la propria vita, difficile o piacevole che fosse. Ed era proprio lì che le tante e svariate frazioni del paese finivano col convergere, in quel silenzio indifferente nei confronti del resto del mondo. I giornali locali non dicevano nulla su quanto stava accadendo altrove. Per rafforzare l’idea che non stava accedendo nulla, le prime pagine dei quotidiani spesso non facevano che riprodurre i titoli di un secolo prima.

A quel punto era chiaro: se il resto del mondo non aveva importanza, era perché tantissima gente in America era disperatamente decisa a non dargli importanza. La guerra fredda era finita, e l’avevamo vinta noi. Non era solo Dio a stare dalla nostra parte, ma la storia stessa. L’Iraq era una faccenda spiacevole. Presto il conflitto sarebbe finito, o lasciato in mano ai nuovi, affrancati e democratici Stati Uniti (Tribali) d’Iraq. La nostra pace, la pace che avremmo imposto, la pace fredda americana sarebbe iniziata.

Il Sunday Observer riportava un commento di Carl Hiaasen, secondo il quale un nuovo Presidente sarebbe stato sufficiente a farci superare questo brutto periodo. Non condividevo l’ottimismo di Carl Hiaasen allora, e lo condivido ancor meno adesso. Se Kerry fosse stato eletto, ci sarebbe comunque stata la probabilità che, durante la sua presidenza, accadesse nuovamente qualcosa di terribile, qualcosa di impronunciabile e di statisticamente agghiacciante. I neoconservatori lo sapevano prima delle elezioni, e lo sanno anche ora. Non hanno fretta. Possono fare panchina ancora per un po’, incrociando le braccia. O possono prendere e scardinare da cima a fondo la cornice istituzionale della democrazia americana. Stanno benissimo. Staranno sempre benissimo: è il loro destino.

Ma Kerry non ha neanche rischiato di vincere. Potremmo ritrovarci per decenni con un sistema monopartitico. Nessuno può dirlo con sicurezza. Una cosa però è certa: come fa notare Paul Krugman nella sua brillante prefazione, se qualcuno ti lancia la macchina in un fosso, non basta una brusca sterzata a rimetterla sulla strada.

Un pensiero mi assillava. E se fossi tornato su quella panchina di fronte alla baia di San Francisco, e avessi raccontato alla coppia la storia di quel bambino del Bangladesh e di suo padre che è disoccupato a causa delle sovvenzioni USA ai produttori di riso statunitensi? Riuscivano ad immaginare cosa imparava il bambino a scuola sugli Stati Uniti? Avrei voluto dirgli che nella vita non conta solo vincere. Tutti noi dobbiamo cercare di rendere la terra un posto migliore, o la storia farà il contrario. La storia se ne infischia.

Ma era troppo tardi, ovviamente. La coppia se n’era andata. Le Olimpiadi erano finite. E comunque, cos’avrebbero capito? Io vivo in Europa, dove le frontiere, che sono ovunque, col tempo hanno perso importanza. La storia le ha cancellate. In America, invece, l’immaginazione locale raramente si spinge oltre un confine. Quando per caso le capita, perché sorprendersi che si accucci, indietreggi e aspetti tremante che il Presidente-panacea le spieghi che presto andrà tutto “benissimo”: Abu Ghraib? Falluja? Cecenia? Nomi dalle vocali aspre, dalle consonanti difficili da comporre. Sembra tutto molto pericoloso; sembrano posti sui quali uno non vorrebbe sapere nulla, e dove, soprattutto, uno non andrebbe neanche pagato.

E io, dove volevo andare?
Nei periodi di grande confusione, c’è sempre la letteratura. Non avevo avuto molto tempo per leggere durante il viaggio, ma mi è tornato in mente che, a Berkeley, ero capitato su un poster di grandi dimensioni: era la riproduzione integrale dell’Amleto, su un unico, grande foglio bianco.
Sapevo che, tra quei versi, era racchiusa una lugubre intuizione shakespeariana:

Silence though silence has a tongue of its own
(ma il silenzio, il silenzio ha una sua lingua)

Se ha una lingua, mi sono detto, allora ha anche un volto. Sono terribilmente preoccupato da quello che non sto sentendo.

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ha pubblicato uno studio di teoria del romanzo L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo (2003) e la raccolta di saggi La confusione è ancella della menzogna per l’editore digitale Quintadicopertina (2012). Ha scritto saggi di teoria e critica letteraria, due libri di prose per La Camera Verde (Prati / Pelouses, 2007 e Quando Kubrick inventò la fantascienza, 2011) e sette libri di poesia, l’ultimo dei quali, Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, è apparso in edizione italiana (Italic Pequod, 2013), francese (NOUS, 2013) e inglese (Patrician Press, 2017). Nel 2016, ha pubblicato per Ponte alle Grazie il suo primo romanzo, Parigi è un desiderio (Premio Bridge 2017). Nella collana “Autoriale”, curata da Biagio Cepollaro, è uscita Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016 (Dot.Com Press, 2017). Ha curato l’antologia del poeta francese Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008 (Metauro, 2009). È uno dei membri fondatori del blog letterario Nazione Indiana. È nel comitato di redazione di alfabeta2. È il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.