Le proporzioni del senso
Lettera aperta ad Antonio Moresco
di Stefano Zangrando
Caro Antonio,
ho letto con affetto e perplessità i tuoi articoli sull’“emergenza di specie” apparsi recentemente su Il primo amore. [La sproporzione, Uomini o struzzi? ndr] Affetto, perché conosco e stimo il tuo slancio e lo sai. Perplessità, perché qualcosa del tuo discorso non mi torna. Non mi torna, in particolare, l’idea della sproporzione. Perché dovremmo smettere proprio adesso di guerreggiare e di ucciderci? L’emergenza di specie è una realtà e un’urgenza da molto tempo ormai; non ho riferimenti bibliografici d’annata, ma chi ti scrive, se non altri, un senso animale d’allarme lo ha avuto fin dai primi mesi di vita della sua comunissima coscienza.
Ho detto senso animale, perché è di questo che stiamo parlando, no? Non mi pare, almeno, che una cultura distaccata dalla vita in senso biologico, ossia una cultura-decoro, ornamentale, come quella che viene praticata oggi e da sempre da molti intellettuali in vista e non, possa assumere come problema quello dell’imminente fine della specie. Credo, d’altra parte, che sia troppo tardi per trattare la fine della specie come un problema seriamente culturale, di cui doversi occupare verbalmente. È già stato fatto e non è servito. Per questo il tuo intervento mi appare anacronistico. Credo invece che, vivendo ormai la fine della specie, abbiamo a che fare con un problema interamente materiale, la cui urgenza ha scavalcato da un pezzo l’ansiosa verbosità delle cassandre e i piccoli sabotaggi degli ambientalisti. Ci aggrapperemo in extremis, con tutte le forze del nostro corpo, ad ogni possibile ancora di salvataggio, ma non servirà. Moriremo presto, in molti, e lo sappiamo. Se non facciamo niente per evitarlo, secondo me è innanzitutto a causa di un tragicomico abbaglio: perché la nostra confidenza culturale con la morte (in realtà una forma di reificazione che ci aliena da essa) è ormai superiore alla paura naturale che ne abbiamo. Ciò non ci impedirà, peraltro, di morire male: la qualità delle catastrofi previste dagli scienziati che citi suggerisce che soffriremo molto e potremo aiutarci poco. Ciò non toglie, a sua volta, che il compito più nobile e sensato che ci resti, a mio modo di vedere, sia quello di aiutarci a vicenda a morire nel modo più dolce possibile, attenuando, per quanto ne siamo capaci, il dolore e la solitudine altrui e nostri. Questa, per quanto mi riguarda e nonostante tutte le letture, è l’unica visione e opinione che ho maturato e continuo ad avere rispetto al problema che tenti di risollevare.
La sola visione alternativa convincente l’ho incontrata nell’opera letteraria di Paolo Volponi, ed è quella della mutazione. Corporale narra, con una potente metafora, di un uomo disposto a mutare, a trasformarsi in un essere post-umano, ma non nel senso tecnologico, scientifico-modaiolo del termine, bensì in quello meramente bio-chimico, organico. Lo spettro, in quel caso, era la bomba atomica – ma nella realtà, come sai, l’offerta era molto più varia già allora, negli anni Sessanta del secolo scorso. Pochi anni dopo, Il pianeta irritabile prolunga questa metafora in un mondo post-atomico dove la specie umana non ha più asilo. Solo brandelli di civiltà sopravvivono, come i versi di Dante citati a memoria da un elefante o la poesia scritta sul foglietto che alla fine, per non morire di fame, un nano deforme si infila con toccante rispetto nel cratere sanguinante della bocca. Volponi, materialista e leopardiano, si spinge oltre l’uomo, è questa la grandezza del suo atto di fede e di pensiero. È questa la verosimiglianza della sua utopia.
Dovremmo sempre evitare di confondere la fine dell’uomo con la fine del mondo. L’uomo finirà, è la nostra sola certezza, ma il mondo, molto probabilmente, proseguirà a lungo, e con lui durerà la vita che lo abita, qualunque sia la forma che essa assumerà. Il nostro vero problema, prima che tutto precipitasse, non era l’estinzione della specie, ma quello della civiltà; questo lo aveva capito Calvino, che negli stessi anni di Volponi immaginava come poter trasmettere il meglio del patrimonio culturale dell’umanità ad ipotetici extraterrestri, permettendone la conservazione, quindi la sopravvivenza, oltre la fine dell’uomo. Ma questa urgenza sembra ormai non interessare più nessuno; forse, anche in questo caso, perché siamo fuori tempo massimo. Pure è questo, se proprio devo scegliere, il mio anacronismo, perché la vita della cultura mi interessa più della vita biologica. In questo senso, evidentemente, non mi riconosco nell’utopia di Volponi. Ma riconosco la generosità “oltreumana” della sua idea di mutazione. Neanche a me, del resto, interessa l’uomo come specie, perché preoccuparsene significherebbe lottare per la semplice, insensata sopravvivenza della creatura più dannosa che abbia mai abitato la biosfera; mi interessano invece gli uomini come autori e protagonisti di una o più civiltà, perché sono queste ultime le nostre creazioni più fragili e personali, creazioni materiali e di senso, individuali e collettive, che hanno sempre avuto qualcosa di grandioso, anche nei momenti, sempre reiterati e sofferti, della loro più atroce smentita. Invece non c’è niente di grandioso nella capacità che la vita biologica ha di rigenerarsi: la vita è semplicemente, materialmente divina, superiore a qualsiasi nostra possibilità creatrice e di controllo. Le donne lo sanno bene. Anche per questo continueremo a figliare nonostante la catastrofe: perché non possiamo che servire la vita fino in fondo, come un servo fedele il padrone.
Eppure è proprio questo nostro limite che va difeso, non la nostra volontà di superarlo. Non ci è concesso andare oltre noi stessi, oltre l’uomo come specie, violenta e bellicosa per giunta: perché dovremmo opporci a questo destino biologico? Siamo condannati a sparire, come molte altre specie, una volta che la vita abbia esaurito il tentativo di perfezionarsi attraverso di noi. Ecco, a me pare che il tentativo chiamato “specie umana” si stia esaurendo. Per propria mano, sia pure, ma il verdetto non cambia. E se è così, ciò che accadrà oltre la fine dell’uomo non sono affari nostri, sono affari della vita. Proviamo, una volta tanto, a compiere un gesto d’umiltà: se tutto in noi e intorno a noi ci sta dicendo che è giunto il nostro momento, facciamoci da parte. Aiutandoci l’un l’altro, magari, a morire bene.
Qui la replica di Antonio Moresco.
«Siamo condannati a sparire, come molte altre specie, una volta che la vita abbia esaurito il tentativo di perfezionarsi attraverso di noi.»
…
mi fa molto pen(s)are
Sono contento che Stefano Zangrando abbia avuto il coraggio di ritornare e ripensare il pezzo “La sproporzione” di Antonio Moresco. Pezzo che coglie il paradosso in cui siamo ormai universalmente sprofondati almeno dall’era del nucleare in poi. Questo paradosso dice che, in ordine gerarchico, le priorità della specie tutta sono discusse e presentate ai margini dei dibattiti culturali (quali che siano e dovunque siano). (Del più importante se ne parla il meno possibile.)
Ora inserisco un solo elemento, che non trovo né nel ragionamento di Moresco né in quello di Zangrando. Moresco dice: l’unica cosa che ci puo’ salvare è una sorta di “presa di coscienza” della specie, o una sorta di cortocircuito tra istinto e coscineza, qualcosa che ci faccia fare marcia indietro. Zangrando in modo (mi sembra) troppo sbrigativo, esclude questa possibilità e fissa medusescamente il baratro. (Semplifico le posizioni, ovviamente.)
Ora la questione della “marcia indietro” realizzata dalla specie in quanto specie non puo’ dimenticare che, tra gli umani, non esiste ancora una “universalità” di condizioni “propriamente umane”. Ossia alcuni sono uomini a tutto tondo, ossia hanno le competenze e il potere di agire in modo autonomo, di decidere per il proprio destino (e spesso per quello di molti altri); molti altri, invece, (la maggioranza) sono ANCORA mezzi uomini (e mezze donne, o peggio: un quarto di donne), perché non hanno né le competenze né il potere per praticare l’autonomia, ossia la deliberazione sul proprio destino.
Come si puo’ pretendere che la specie deliberi sulla propria salvezza o distruzione, se solo una piccola percentuale di persone è in grado di “partecipare” realisticamente, materialmente, ad una tale deliberazione. (In conclusione, semplificando a mia volta: finché l’autonomia non sarà conquistata su questioni vicine, tipo il lavoro, non sarà attuata su questioni remote (la fine della specie)).
Quello che dico non risolve certo nulla. Ma spero aggiunga un elemento cruciale alla discussione.
Moresco si pone di seguito queste due domande:
“Perché anche tutto il sapere scientifico e tecnologico è talmente integrato in questa struttura e nei suoi ingranaggi e interessi (a cui è legata la sua stessa sussistenza) da non essere capace di sottrarsi a questa deriva suicida ma da sembrare in grado solo di allestire gli ultimi riti nel caveau del Reichstag? Perché nei governi umani, accanto alle altre figure, non ci sono anche scienziati liberi, antropologi, astrofisici ecc, ma con funzioni importanti, decisionali, non come semplici “consulenti”?”
A me sembra che la prima domanda, se le si toglie il punto interrogativo, sia la risposta della seconda. Tutte le condizioni sono date, perché gli scienziati si uniscano ai politici per legiferare. Eppure non accade.
Perchè?
Fermiamoci a rispondere a questa domanda. Perché l’elite di sapienti (antropologi, scineziati, ecc.) che non ha peso politico non si mette in sciopero, bloccando università, laboratori, ricerca?
Bene, siamo destinati a scomparire, come specie e come civiltà. Possiamo sottrarci a questa eventualità? Non credo; possiamo solo rimandarla. E decidere responsabilmente quale strada “di sviluppo” sia più efficace per rimandarla. Secondo diversi scienziati, il pianeta è destinato ad “implodere” entro il 2050. Il risultato del presente sviluppo economico è infatti un continuo status morendi. O saremo capaci di invertire questa decadenza, aprendo una frattura nell’ordine degli eventi, o l’arroganza dell’economia, frivola e anarchica per definizione, ci farà danzare la catastrofe ultima. Il problema è: chi è il primo responsabile della situazione attuale? Una volta individuate le cause e i responsabili, quali i correttivi possibili? E se i responsabili, come credo, non saranno d’accordo con i correttivi (in fondo, si tratta di limitare o annullare del tutto il loro potere), cosa si deve fare? Tutto il resto, direbbe Shakespeare, è silenzio. Tutto il resto è letteratura. Non serve né spingersi “oltre l’uomo”, né una nuova “presa di coscienza”. O meglio: non bastano, poiché senza una sequenza di atti – di atti indisciplinati rispetto al corso attuale delle cose – si resta nel confine del culturalismo, lasciando la realtà così come è. Bisogna stonare volontariamente. D’altra parte, oggi più che mai, o si accetta la storia come sopraffazione, come destino ineluttabile, o la si pensa come una serie di eventi costruibili, dove l’intervento umano ha una importanza fondamentale. È nei comportamenti la prima risposta. In quelli individuali, scegliendo quale combustibile, quale prodotto, quale materia da riciclare, etc.; ma soprattutto nei comportamenti collettivi, quelli che per capirci possono, se dispiegati a dovere, attivare un altro “modello di sviluppo”, dove l’economia serve l’uomo e non, come accade oggi, il contrario. Uscire dalla macchina per recuperare la nostra umanità. Uscire dall’alienazione per tentare la nostra emancipazione …
PS: le domande di Moresco, e anche quelle di Inglese, sono banali. Evitano di fare i conti con quello che potremmo chiamare “il principio determinante”: das kapital, per dirla chiaramente, è più forte di ogni volontarismo (e ogni scienziato obbedisce nell’intimo, proprio per la posizione che occupa, e soprattutto in un periodo dove le contrapposizioni sono annacquate; “biopotere”, lo definì qualcuno). O se ne minano alla base le potenzialità dirompenti, o siamo destinati davvero alla “morte per acqua” (pesante) …
carlo fi.
a carlo, che scrive
“le domande di Moresco, e anche quelle di Inglese, sono banali. Evitano di fare i conti con quello che potremmo chiamare “il principio determinante”: das kapital (…)”
le mie domande sono banali, ma sollevano la questione che poni tu stesso: i rapporti di forza all’interno dell’economia capitalistica. (Magari potremmo fare uno sforzo per cominciare almeno ad ascoltarci, quando parliamo delle stesse cose.)
guarda andrea che tu hai posto una domanda molto semplice: “perché?” (perché non scioperano etc….), io ho solo detto che mi sembra banale, visto che mi pare evidente che nella stragrande maggioranza dei casi (e le eccezioni confermano) quella che tu chiamo “l’elite dei sapienti” è cointeressata all’economia capitalista, ne gode i frutti, si pasce del prestigio acquisito grazie alle sue fondazioni, ai suoi fondi per la ricerca, alle sue case editrici … al domanda è banale perché la risposta è sotto gli occhi di tutti, basta volerla trovare … sono una “casta” troppo riccattabile … a scioperare dovrebbero essere altri …
carlo fi.
perfettamente d’accordo, io e te, ma quanti con noi? Quanti comprendono pienamente i discorsi di Antonio, le riflessioni di Stefano, ma lasciano fuori la questione degli interessi di casta o di classe o di mafia?
rileggerei T.C. Boyle.
Il testo è affascinante, coraggioso, leopardiano (e lo dico senza ironia). Però nel suo schema argomentativo parte da una premessa che dà come certa e non lo è affatto. L’umanità per la prima volta è in grado di fare scelte storiche che riguardano non piccole frazioni ma l’insieme. Ne ha le possibilità comunicative, forse non ne sente ancora l’urgenza politica. Quando accadrà, e ci credo, non credo che il primo problema sarà demografico ma etico. I limiti dello sviluppo, una volta accettati, potrebbero portare con sè una maggiore consapevolezza nel procreare. Il vero nemico è l’assurda persistenza di una fede cieca nello sviluppo illimitato e nello strapotere della tecnica, che crea nell’umanità diffusa aspettative deliranti e comportamenti produttivi e consumistici insostenibili. Questo lo farà l’uomo, non nonostante l’incarnazione, ma proprio perchè è carne e sangue e non può rifugiardi nel limbo di una immortalità cibernetica.
Il problema non è se finire fra cento anni o fra cinque miliardi di anni (quando il sole finirà di fare il sole). Il problema è che qualcuno si preoccupa che finiremo. Perchè costoro si preoccupano? Quel che dico sembra banale ma non è un rovesciamento di tesi. Presi alle strette psicologicamente costoro non hanno risolto il senso di morte: la catastrofica è ingombrante visione mistificata della morte. Il punto interrogativo è, se si ha veramente il coraggio di comprendere lo specchio e la finzione di questa o si continuerà ad eludere il problema. La tensione ed il rapporto tra queste (ipotesi delle ipotesi) sono vuoto, il vuoto nostrano. Dibattere attorno al senso di morte e naturalmente alla morte, senza sapere cosa è il senso di morte e da nove nasce è ridicolo. Concepita e costruita la morte (il senso di morte) è stata ed è il patto della nostra ossessione. Eppure è così facile, banale ed ovvio, la morte il senso di morte è solo la -vita senza unità di misura-, senza i sensi. Se fosse così, una domanda lecita sarebbe: dove ho incontrato in vita la morte? Il ridicolo è cadere nel concetto -io collettivo-, inconscio collettivo. La verità è tanto sconcertante quanto banale ed è proprio per questo che è veicolo di ipotesi e di molta letteratura. Non credo che in questo secolo ci sia la volontà di parlarne e comprendere apertamente.
A me sembra più plausibile un’epoca di guerre, carestie e pestilenze (magari anche “guidate”) che non l’estinzione totale della specie umana.
che noia
il
catastrofismo
trent’anni fa
c’era
cassola
si estinse
lui.
“Anche per questo continueremo a figliare nonostante la catastrofe: perché non possiamo che servire la vita fino in fondo, come un servo fedele il padrone.”
Schopenhauer!
E Leopardi.
Però perché poco primi dici che “la vita è divina”?
Dio c’è o c’è la Natura?
O Dio è la Natura?
L’emergenza di specie viene da lontano.
Qualcuno dice che sia cominciata più o meno cinquemila anni fa, con l’invenzione della città e dell’agricoltura.
La rivoluzione industriale, l’accumulazione del capitale e lo sfruttamento sfrenato di ogni risorsa le hanno fatto fare un salto di qualità.
Ora l’emergenza si fa sempre più grave e pressante, la velocità a cui si avvicina il punto critico di carenza delle risorse aumenta in modo esponenziale.
Ci attende un periodo – quando? – di guerre e rivoluzioni.
Per fermare la corsa bisognerebbe fermare il capitale, ma allo stato delle cose non è possibile.
La specie non si estinguerà, ma chi può dire come sarà il mondo solo tra cinquant’anni?
Io la chiamerei “emergenza futuro”: è da qui che dovrebbe ripartire ogni possibile politica.
A giudicare dall’orizzonte programmatico dell’oggi, non mi pare che l’aria sia questa.
Ci torno appena posso…
Sono in pausa pranzo tra una lezione scolastica e l’altra, quindi per ora mi limito ad alcune notazioni.
Le questioni sollevate da Andrea Inglese e Carlo sembrano anche a me costitutive dell’urgenza di cui stiamo parlando, tanto da estenderlo in direzioni che vanno ben oltre i confini della letterarietà che, tutto sommato, circoscrive il mio testo – e quindi, senza dubbio, ciò che esso esprime. L’emergenza di specie, culturalmente parlando, esiste solo per i pochi che abbiano la possibilità di apprenderla come tale, e le nostre responsabilità ruotano tutte intorno ai rapporti di forza creati dall’economia capitalistica. Perciò sono completamente d’accordo con Carlo quando scrive: “È nei comportamenti la prima risposta”. Temo soltanto che sia l’unica risposta possibile e, ancora una volta, che non basti. Ma mi riprometto di provare a spiegarmi più tardi, dopo aver letto con attenzione la risposta di Moresco e gli altri commenti.
Enzo, concedimi di risponderti con un gioco di parole che avevo già impiegato in un testo di qualche anno fa: “Dio è Bio”. (Se poi devo dirti chi mi ha messo in testa quest’idea, più che Leopardi o Schopenauer mi viene in mente Goethe, ma non chiedermi ‘quale’, perché non ricordo)