Il patto
di Dario Borso
Mia cugina l’altro giorno buttò lì al telefono: “Dario, ho curiosato su Nazione Indiana: ma se quello è un blog letterario, gli altri come sono?” La frase, innocua di primo acchito, mi lasciò subito dopo annichilito. Pensai ai vent’anni in meno di Federica, ai miei vent’anni fa, ai trenta, alla prima giovinezza… Avevamo trasformato chissà come l’Osteria delle Caravelle (tre ostesse-sorelle in fiore) in un bar letterario a suon di Gadda: un racconto per sera (non tutte le sere) da La meccanica e dagli Accoppiamenti giudiziosi, che gli avventori bevevano stupiti dalle labbra di noi due avventurieri. E quando Ico, di me maggiore, ebbe esaurito la sua piccola scorta lombarda, ricordo che chissà come mi dimostrai non da meno estraendo dal cappello Le avventure del Guizzardi di Celati. Era l’inverno del ’73, ne sono sicurissimo perché poi, quando girammo per gli States nell’estate del ’74, già lì mi chiamavano Densi, che era la versione americana del Danci emiliano (e per anni fui Danci a Cartigliano, favorito dall’assonanza della prima sillaba). Così fu nell’inverno del ’74 che ci mettemmo in proprio, un po’ esordienti un po’ talent-scouts: quanto segue è un documento di quell’era pretelematica.
IL PATTO
“Credo nella precisione delle immagini”, disse Maletto.
Oswald Odds lasciò che un sospiro formasse una piega sulla sua canottiera bianca. Poi con la punta di un dito cercò di bloccare il brivido che circolava sulla sua pelle mattutina.
“Per esempio ieri l’altro c’è stato un ragazzo veneziano a propormi una scenografia, ma ho capito che soprattutto voleva fare con me”, disse l’attore. “Allora siamo usciti e in macchina ci siamo accarezzati un po’, ma quando siamo scesi per mettercelo tra le cosce non ho fatto in tempo a tirarlo fuori che ero già venuto”.
Il ragazzo mirò il posacenere affondato nel braccio morbido della poltrona e lo centrò con la punta infallibile del gomito.
“Il rumore è la musica che preferisco”, disse senza esitare. Poi calciò un frammento di coccio con la punta della scarpa sinistra.
La cenere e i mozziconi si erano disposti sul pavimento con limitate possibilità di essere interpretati. Il ragazzo vi cercò il profilo di un cavallo da corsa e il viso ghignante di una guardia confinaria cinese, ma non trovò neanche le ali di un pipistrello e le orecchie di un ippopotamo. Allora appoggiò la nuca rasata sul velluto della poltrona e cominciò ad attendere la gratitudine di Odds. Il posacenere non poteva essere che il dono di un denigratore o di una zia materna che ancora non aveva capito. Sotto la cenere, che il ragazzo aveva mosso con il suo dito affusolato, c’era un motto ingiurioso dipinto con vernice nera: “Casa senza donna / barca senza timone”.
Poiché la gratitudine di Odds tardava ad arrivare, il giovane Maletto chiese all’attore se la saggezza popolare la preferiva rimata o semplicemente ritmica.
Odds interrogò la superficie ondeggiante della sua tazza di tè con un cupo sguardo di miope che ha dimenticato gli occhiali su una mensola del camino.
“Nelle rime la verità è innocente”, rispose. “Dimmi senza riflettere una parola che faccia rima con cazzo e mi dirai tanto di te”.
“Razzo!” disse Maletto con orgoglio.
Odds leccò una goccia che stava scorrendo sul dorso della tazza, poi accostò le labbra all’orlo e inghiottì due sorsate avide.
“Strapazzo”, concesse il ragazzo con modestia.
Odds appoggiò la tazza sul bracciolo della poltrona e cercò di dare una piega ai calzoni azzurri del pigiama. I calzoni erano sorretti da un cordone sottile che l’attore aveva annodato con negligenza all’altezza dell’ombelico.
“Ma anche: RAGAZZO”, disse Oswald con un lampo umido della pupilla.
Maletto notò che la passione provocava nell’attore uno strabismo violento anche se di breve durata.
“Ti traumatizza?” disse Odds. “O ti fa indignare?”
“Se hai perduto qualcosa che non sai bene cos’è”, rispose Maletto, “e cerchi di riconquistartelo, non vedo perché dovrei indignarmi”.
Il ragazzo trascurò l’insinuazione di trauma perché gli parve che l’attore l’avesse formulata per una sorta di riflesso condizionato. L’atrio d’albergo (per la conferenza-stampa con giornalisti subnormali) e l’aula di tribunale (per l’interrogatorio del giudice sudista) erano i luoghi dove Odds si era addestrato a tacere.
“La scelta di un pubblico di massa è senz’altro una vocazione”, disse Maletto.
“Sei un fascista che vuole morire”, rispose l’attore.
Il ragazzo lasciò vivere le gambe e le allungò su uno sgabello nano.
“La brutalità che tu credi sincerità”, disse Odds, “è una forma di terrorismo con cui cerchi di imporre il suicidio agli altri”.
“Puoi prestarmi un paio di milioni?” rispose Maletto. “Devo far uscire una ragazza tedesca da un manicomio criminale”.
L’attore infilò i piedi negli zoccoli di feltro abbandonati ai piedi della poltrona e uscì sul terrazzo. Camminò a piedi nudi sul prato artificiale e staccò qualche foglia dal ciliegio giovinetto che spingeva l’ombra fino al bordo della fontana.
Maletto guardò il ragazzino che si allacciava una scarpa sulla sedia rossa. La sua somiglianza con un Odds quattordicenne e contadino sarebbe stata evidente anche in un disegno col carbone. Tutti i ragazzi amati da Odds somigliavano all’attore, anche se erano copie approssimative di quel volto schiaffeggiato dal desiderio della punizione perpetua.
Il pastore adolescente, che era andato a comprare i giornali del mattino, confessò che con il resto aveva comprato un torrone alla cioccolata. Odds spalancò una mano sopra la testa e fece nevicare sui capelli caprini i coriandoli verdi delle foglie di ciliegio.
Quando il pastore andò a mangiarsi il suo torrone sul prato del terrazzo, Maletto domandò generosamente se l’attore fucked him.
“Facciamo qualcosa di molto simile”, disse Odds con soddisfazione.
“Non c’è niente di simile a quello”, disse il ragazzo con la sicurezza torva di chi sa.
“Ha quindici anni”, si scusò l’attore. “E io sono di proporzioni tali che lo rovinerei”.
Maletto seppe nell’ora primaverile di quel mattino che all’esperienza di Oswald Odds mancava qualcosa di decisivo.
“Platone dice che se due esseri non sono manchevoli in nulla, perché dovrebbero volere qualcosa dall’altro?” disse il giovane con indulgenza.
L’attore passò le palme delle mani sui muscoli delle braccia nude, poi tese i muscoli del collo e chiuse gli occhi.
“L’hai mai fatto con un ebreo?” chiese Maletto.
“Non è facile trovarne, sono tutti traumatizzati”, disse Odds. “Con gli arabi invece è un paradiso, anche se hanno una gran paura di perdere l’onore virile”.
“Penso che il tuo padrone più che altro blows”, disse Maletto a un putto di terracotta e gli spense il sigaro nell’ombelico.
Il ragazzo cercò una vernice scura, una parete chiara e un pennello duro per scrivere: LA COLPA E’ UN RICHIAMO CHE L’ESSERE MANDA A SE STESSO IN SILENZIO. Ma trovò soltanto i pezzi del posacenere che ammucchiò con precisi colpi di tacco davanti alla porta-finestra del terrazzo. Il pastore venne a chiedere se voleva calciare una palla con lui. Era mitemente analfabeta e quasi contento della sua moglie un poco capricciosa e non ancora troppo vecchia. Maletto gli rispose benevolmente che aveva un ginocchio gonfio.
L’happening di commiato dell’attore con la corte (il pastore chiese se poteva fare uno spuntino da solo o doveva aspettare) fu breve. Brevissima la pantomima di gratitudine col portiere (l’attore gli regalò mille lire) che vantava di aver allontanato un frate intrigante. Lunga fu invece la danza delle carezze per la bambina impavida che inseguiva una scatola vuot lire nella sua MG candida. Il disco orario era un elenco di nomi propri maschili (con il numero telefonico tra parentesi). Grafie diligenti avevano tracciato con imprudenza topografie acustiche: “dire alla macelleria da ENZO (seguiva il numero di telefono) di chiamare Aldino”, “Aviere Cavacece Filiberto, 3° compagnia, 2° reparto, numero del centralino”, “trattoria La Stalla (numero di telefono): domandare di Carlo dopo le 11”, ecc.
“Vengono a stormi: sono troppo celebre”, disse Odds, mentre superava un furgone postale. “Non posso fare più una vita decente: uscire per una passeggiata, guardare qualche negozio, cercare un ragazzo per fare l’amore”.
Il giovane Maletto strizzò l’occhio a un semaforo verde fino a farlo arrossire.
“Dov’è che fai le cose più intense?” domandò.
“Nei prati”, rispose l’attore. “Oh, mio dio, quanto è il seme che ho sparso nel vento!”
“Non trovi il letto sufficientemente funzionale?” chiese il ragazzo.
“Con me”, rispose l’attore, “non c’è nessuno che resiste alla prova del letto”.
“Quando Johnny insapona l’ass dell’amico e usa il cock come un cavatappi al ritmo del treno che va a Lexington”, disse Maletto, “io ho un’immagine precisa”.
“Guarda quel bizantino perfido!” disse Odds con la voce soffocata.
Il ragazzo vide una Citroen superare una Mercedes azzurra e sul marciapiede una vecchia che si faceva superare da un quarantenne stempiato con un impermeabile marrone.
“Dall’altra parte!”, disse Odds, “sotto la fermata dell’autobus”.
“Cosa gli faresti?” chiese Maletto.
“Vorrei baciarlo sulla bocca di gelsomino”, disse l’attore. “Poi potremmo masturbarci reciprocamente”.
“Gli americani sono molto più drammatici”, disse il ragazzo. “Pensa a quelli che let themselves be fucked in the ass by saintly motorcyclists”.
L’intervista malettiana fu vittima di molti semafori rossi, di parecchi sensi unici svianti e di almeno cinque sorpassi pericolosi.
“Ho fatto l’amore per la prima volta a diciassette anni su un prato, con un ragazzo che non conoscevo”, disse l’attore. “Ma il mio primo amore è stato un
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