Paolo Lezziero, colpevole di milanesità
di Riccardo Ferrazzi
Forse c’è un destino anche per i dialetti. Raccontate storie siciliane? Avete buone probabilità di trovare editori disposti a muovere cielo e terra per promuovervi, e critici che vi incenseranno come salvatori della patria. Ma se scrivete (bene) storie molisane, venete o liguri, rassegnatevi: avrete tutt’al più un mercato regionale. Scrivete ottime storie milanesi con qualche sobrio pastiche linguistico e moderati inserti dialettali, e non vi filerà nessuno. C’è poco da fare: la “questione della lingua”, croce e delizia dei letterati italiani, riporta periodicamente l’accento sui dialetti ma finisce per autorizzarne solo due: il siculo e il napoletano. E, a fare i pignoli, anche qui ci sarebbe da distinguere perché il napoletano ammesso non è certo quello ‘ncafunato e quanto al siculo già mi par di sentire tintinnare i coltelli fra Palermo e Catania.
Date queste premesse, Paolo Lezziero è uno che ha sbagliato tutto. Scrive, ahilui, storie di operai della Falk, di ambulanti che fanno il giro fra Bresso e Muggiò, di ragazzi di paese che negli anni ’50 si dannano l’anima per emanciparsi. Scrive, insomma, la storia vera, vera, vera, dei figli di contadini che hanno affrontato la fabbrica e lo sradicamento pur di lasciare la schiavitù della terra; e hanno trovato la pesantezza del farsi strada in un mondo diverso, l’ebbrezza della politica con le illusioni del ’68, il ripiegarsi in se stessi degli anni di piombo, il riflusso della Milano da bere. Come hanno reagito? Il più delle volte, ricuperando una ancestrale rassegnazione contadina, rinchiudendosi in ambiti sempre più ristretti, cercando (e illudendosi di trovare) il senso della vita nel poco, nel nulla che gli è toccato.
Storie milanesi, dunque, ma anche storie universali. E allora come mai Camilleri sì e Lezziero no? Forse ai milanesi piacciono le storie ambientate fra aranci e fichidindia, mentre ai siciliani fanno schifo le nebbie e la quotidiana noia della fabbrica? Può darsi. Ma non ci credo.
Credo che, semplicemente, Camilleri abbia trovato (dopo quarant’anni di tentativi infruttuosi) il suo momento, il canale giusto, l’atmosfera culturale adatta. Lezziero non ancora. Eppure la meriterebbe.
Lezziero scrive con la leggerezza e con la finezza psicologica di un Piero Chiara; la sua conoscenza dei moti dell’animo umano è simile a quella del Maresciallo di Mario Soldati; se a volte i suoi incipit possono far pensare a Guareschi, si può star sicuri che non scadrà mai nel patetico, non cercherà l’effettaccio operistico, non divagherà nel surreale; se le sue storie sfiorano il boccaccesco resteranno sempre all’interno di una solida verosimiglianza, con tanto di rassegnazioni, compromessi, umiliazioni e silenzi, fino a prendere i toni dell’apologo morale. In fondo a ogni racconto di Lezziero si potrebbe scrivere: “Così è la vita…”
E allora come mai uno scrittore così penetrante non arriva al grande pubblico? Azzardo qualche ipotesi. 1) I personaggi di Lezziero sono esseri umani fatti di carne e sangue: le sue donne vanno in camporella perché, vivaddio! ci provano gusto. Ma forse le lettrici preferiscono identificarsi con Beatrici angelicate. 2) Lo scenario delle storie di Lezziero è a due passi da Sesto San Giovanni, la Stalingrado d’Italia. Eppure, nei suoi racconti, se il padrone è carogna lo è per carattere, non per appartenenza di classe, e i proletari non sono tutti buoni, onesti e sfruttati: ce n’è di ogni genere e specie, come è logico che sia. E così, per scrupolo di verità, Lezziero si gioca anche le parentele politiche.
Insomma: sono racconti davvero scomodi, che smontano tabù e miti dei lettori italiani, e li dimostrano falsi e bugiardi, non a chiacchiere, ma raccontando la vita, la vita vera. Tutto il contrario di ciò che i lettori si aspettano.
L’ultimo lavoro di Lezziero si intitola Gli anni in salita e si presenta subito come un libro scritto per far pensare. Dov’è la storia? La storia non c’è. C’è la vita così com’è, come capita, come ci tocca viverla. Ci sono personaggi che non sparano e non si cacciano in avventure inverosimili. Gente che potremmo aver conosciuto, che potremmo anche essere noi, con le aspirazioni di quando avevamo sedici anni e con le malinconie di adesso. Cosa fanno questi personaggi? Niente di particolare; eppure l’insieme della narrazione esce compatto e dà la sensazione viva di un’epoca. Ne Gli anni in salita Lezziero racconta la storia di chi era giovane negli anni ’50 a Sanpièr, un paesino fra Legnago e Ostiglia. Ci parla di sogni minimalisti e possibili, di ingenuità, fatiche e sotterfugi, del miraggio della grande città, della voglia di una vita diversa in posti dove bisogna sempre andare avanti e mai guardare indietro, alimentando l’aspirazione a costruire un futuro con le proprie mani e sopportando le frustrazioni che non mancano mai. Nessuno diventerà ricco, importante, di successo. Chi si arruolerà come sottufficiale di carriera pur di andarsene via, chi andrà a fare l’operaio a Biella, chi troverà una sistemazione a Milano, chi diventerà attore di seconda fila, chi resterà dietro il banco di un bar a scrivere poesie. Con la (apparente) semplicità di un Piero Chiara o di un Ermanno Olmi, e senza tanti sociologismi, Lezziero ci spiega come e perché è cambiata la nostra società tra il dopoguerra e gli anni di piombo. Tanti anni dopo, quando i suoi personaggi tornano a incontrarsi, si domandano se la loro vita ha avuto un senso, se le loro lotte hanno avuto successo.
Come sempre, è soltanto alla fine che ci si rende conto di ciò che già si sapeva: la vita è una cipolla che fa piangere mentre la sbucci, e quando l’hai sbucciata tutta non rimane più niente. Il bello era quando ti faceva piangere, quando avevi uno scopo, un sogno, un’illusione. Ma questo lo capisci solo in retrospettiva. Guardando avanti vedi solo la mancanza di alternative, la certezza del buco nero nel quale tutti quanti dobbiamo sprofondare.
Ebbene, dov’è la storia? La storia non c’è. Come nella Bohème. Chi è il protagonista? Il protagonista non c’è. O meglio, siamo noi. È la vita.
[Di Paolo Lezziero le edizioni La Vita Felice hanno pubblicato: La lucciola, l’Adriana e altri racconti nel 2001, Storie della Bettola Vecchia nel 2004, e recentemente Gli anni in salita.]
io sono per il dialetto, in qualunque sua forma!
Un salutone a Gianni.
non conosco lezziero e provvederò dopo la recensione di riccardo ferrazzi.
però il suo incipit sulla “questione della lingua” e i due dialetti autorizzati (siciliano e napoletano) non mi convince molto. esiste tutta una scuola emiliana (da cavezzoni a nori), una scuola di grande tradizione romana… e il milanese, be’, non mi sembra che i romanzi proprio di gianni, che pubblica il tuo articolo, ne siano esenti (e mi viene in mente che dario fo in alcuni casi ha proprio fatto l’opposto traducendo dal siciliano al milanese).
la diffusione del siciliano e del napoletano è piuttosto legata ad un triste accostamento con la storia delle mafie e della corruzione…
‘sto incipit m’ha fregato…
Mo see, tacan mo a dscårrer in dialatt in vatta ala Naziån Indièna, ca pió ca indièna la prevv êser d'Babail.
Vins, che piacere riincontrarti! Non succedeva dai tempi di Uffenwanken. Guarda, può darsi che io non sia riuscito a esprimere ciò che intendevo, ma sono sicuro che se leggerai qualcosa di Lezziero ti risulterà più chiaro. Certo, anche Gianni parla di Milano. Ma lo fa da tutt’altro punto di vista. Infatti, nel suo caso, nessuno ha tirato in ballo la dannata “questione della lingua”.
Diciamola tutta: il lombardo è un dialetto bruttissimo ;-) )
ciao riccardo (internet è un po’ come le sigarette, è difficile smettere davvero!),
no, no, la tua recensione è ben chiara (e anche molto “invitante” per quanto riguarda lezziero)… e capisco pure il discorso modaiolo su siciliano e napoletano (secondo me legato alla questione mafia al quale facevo riferimento nel commento precedente e/o ad una presa per il culo del “terrone”).
riguardo al romano c’è una cosa di raimo 3 post fa che ho appena letto e conferma la forza di un altro dialetto “sintomatico”.
ma, forse alla fin fine, magari ha ragione nicolò!
a vins gallico.
“la diffusione del siciliano e del napoletano è piuttosto legata ad un triste accostamento con la storia delle mafie e della corruzione… ”
ti prego, se ti va, di dimostrare questa affermazione, perché non riesco a crederci, ma potrei sbagliarmi, la vita è piena di “cose nuove”.
Dopo Raimo il pezzo dI Ferazzi indica che il tema è, come al solito, caldo. Amo queste involontarie esplosioni tematiche di NI.
Vins, la questione della lingua, nei miei romanzi, è stata trattata poco ma bene da alcuni critici. Gli altri si sono chiusi nelle gabbie del genere (critico: che è un genere, e qui un po’ ha ragione Riccardo).
(Proprio ora ho risposto a 4 pagine piene di dubbi sui dialetti usati nel mio secondo romanzo inviatemi da una traduttrice)
In ogni caso, Nicolò, non ci provare neppure a seminare zizzania: il milanese è una lingua bellissima e dolce. Ti voglio solo rammentare che il Belli neppure avrebbe scritto un sonetto se prima non avesse letto e studiato il Porta. E la cosa la dice lunga.
penso ad esempio ad alcuni fenomeni del grande e piccolo schermo: ad esempio “il padrino” che in lingua originale mantiene le parti in dialetto siciliano, indicandolo dunque come lingua ufficiale della mafia, ma lo stesso avviene del caso del doppiaggio de “i soprano” o addirittura dei simpson.
al poliziotto corrotto dei simpson viene attribuito un dialetto napoletano (credo sia in fase di doppiaggio, non ricordo se nell’originale c’è questa inflessione).
volevo dire che comunque questi dialetti sono stati abbinati in vari campi ad un fenomeno (quello mafioso), che ha un grande potenziale di fascino mediatico… oltre che una grande incidenza folkloristica.
cioè a mio avviso si tratta di lingue “mitizzate” dal mito mafia…
p.s.
non ho la pretesa di dimostrare la mia affermazione con questi pochi esempi, volevo però dare una possibile linea di lettura dell’espansione di questi due dialetti.
p.s.
gianni, io per capire la lingua del tuo “clochard” ho avuto bisogno di un traduttore personale…
Gianni, e Giovanni Meli? E Domenico Tempio? Per chi non conoscesse quest’ultimo consiglio la seguente raffinatissima poesia: http://www.logospoetry.org/pls/wordtc/poesis.w6_context.more_context?parola=0&n_words=1&v_document_code=11&v_sequencer=2326&lingua=sc
per riccardo ferrazzi
non entro nel merito del dialetto, preferisco toccare un tema molto semplice ma determinante nella storia di un autore e del suo successo: forse lezziero non è conosciuto e apprezzato perchè non pubblica con una grande casa editrice e non ha una distribuzione forte. non lo conosco, non ne avevo mai sentito, ma leggendo la sua recensione – scrivo recensione ma penso ad un manifesto d’amore nei confronti di lezziero – viene la voglia di leggerlo. allora spero per lui che il passaparola gli renda quello che l’editoria attuale non fa.
Sono talmente cotta di stanchezza… dirò stupidaggini. Rimando a domani per un discorso più lungo, non è detto meno scemo. Solo una piccola riflessione. In effetti un grande come Lello Baldini ( e non voglio tirar fuori il solito Tonino Guerra), ma ha avuto proprio quello che doveva avere con la sua poesia dialettale? Se invece che in romagnolo fosse stata in…?
Notte a tutti
Ciao ho letto il tuo post ,tutto vero ……chissa’ perche’ non avevo mai pensato che noi del nord non siamo abbastanza interessanti …forse troppo complicato il nostro vivere ,forse poco coloriti e colorati ….ciao ciao molto interessante il tuo post,tornero’
Ferrazzi,
tu m’hai creato voglia di leggere il Lezziero e lo farò,
perdio!
MarioB.