Guerra, mercato, donne e guerrieri (1)

salo08.jpg A sostegno della manifestazione tenutasi a Vicenza lo scorso febbraio contro la nuova base USA, ho proposto una riflessione sulla “guerra globale” (1, 2 e 3). Voglio ora riprendere la questione, ma da un altro punto di vista: quello delle vittime e della loro diretta testimonianza. Emilio Quadrelli ha raccolto l’agghiacciante storia di una giovane albanese e l’ha pubblicata su “Alias” il 3 febbraio 2007 con il titolo “Anna e le altre. Carne da macello”. Essa merita la più ampia diffusione. A. I.

di Emilio Quadrelli

Il dibattito intorno alle guerre contemporanee, per lo più, è affrontato unicamente all’interno di retoriche geopolitiche. In tale contesto ciò che accade concretamente alle donne e agli uomini che di quelle guerre sono, volenti o meno, gli attori principali è posto velocemente tra parentesi.

Con buona pace degli uomini politici, dei media e di gran parte del mondo intellettuale le guerre si riducono a una sorta di war game in grado di rendere emozionanti e interessanti le noiose e asfittiche serate alle quali le donne e gli uomini del Palazzo sono costretti in nome dei loro impegni presi nei confronti dei cittadini se non addirittura dell’intera umanità. Tranquillamente seduti sulle poltrone di salotti pubblici o privati, spostano truppe, mezzi corazzati, aerei e navi da guerra insieme all’inevitabile corollario di altrettante “missioni civili” e, senza animosità eccessiva, discutono se, ed entro quali limiti, la tortura sia legittima o quali e quanti “effetti collaterali” siano accettabili. Un dibattito che sposta per intero la questione guerra sul piano anodino della teoretica dove, la magnitudine platonica, non lascia spazio e scampo alla critica animosa e partigiana propria del sofista. Ma al di fuori dei salotti dove a dominare è la solarità del mondo delle idee a prevalere è la caverna ed è lì che vivono e sovente muoiono le donne e gli uomini reali. Per loro, la guerra, si confonde fino a dominarla e plasmarla per intero con la propria esistenza e per questo ne ricavano un’esperienza che racconta qualcosa di ben diverso.

La “storia di vita” che ci prestiamo ad ascoltare fotografa il volto con il quale la guerra si presenta agli abitanti della strada. È la guerra vera, dove non vi è spazio per la civile disputa che anima i salotti del Palazzo. Si vive, si muore, si è stuprate e rese schiave concretamente e la libertà e la dignità sono (talvolta) possibili unicamente se conquistate in prima persona e, sembra il caso di rimarcarlo, con le armi in pugno. Una realtà più tragica che drammatica dove nessuna utopia o redenzione sembra profilarsi all’orizzonte. Il teatro degli eventi è l’Albania dei giorni nostri.

Per Anna, la nostra protagonista, e i suoi l’Angelo della Storia non sembra avere alcunché da offrire. Le loro spalle non sono rivolte al futuro ma, più realisticamente, attente a ciò che gli si aggira intorno perché la possibilità di cadere in una qualche imboscata, vittime di un “regolamento di conti” o diventare l’obiettivo di una qualche operazione di “polizia internazionale” sono variabili continuamente all’ordine del giorno. Per loro, nessun vento soffia dal Paradiso e se qualcosa li trascina è solo il ritmo cadenzato dei colpi delle loro armi. Precipitati dentro all’inferno hanno trovato un modo per non soccombere.

La dimensione in cui attualmente Anna vive, non è distante da quella del proscritto anche se è ben distante dall’incarnarne le suggestioni letterarie che quelle esperienze hanno suggerito. Una fine del tutto impensabile solo dieci anni prima quando, al pari di gran parte dei suoi coetanei, guardava estasiata le nostre televisioni augurandosi di toccare al più presto con mano il sogno italiano. Oggi Anna è una donna dura, decisa, implacabile, persino spietata. Le esperienze che paramilitari, imprenditori italiani ed europei prima e soldati NATO e operatori umanitari poi le hanno fatto conoscere hanno aperto ferite che si sono forse cicatrizzate ma che non potranno mai più essere dimenticate o rimosse.

L’incontro con lei avviene in una città dell’Italia del Nord grazie alla mediazione di un “clandestino” evaso qualche tempo addietro da un Cpt. In Italia Anna non è ricercata ma è pur sempre una “clandestina” e per questo ha accettato di parlare a condizione che la sua figura rimanga una semplice ombra di cui, persino la descrizione fisica, deve rimanere priva di contorni. Una condizione che non è difficile accettare, in fondo si sta parlando di una non – persona. Questo è il suo racconto.

Per quasi sei anni hai vissuto segregata. Come ha inizio la tua storia?

Sono stata rapita l’11 novembre del 1996, avevo tredici anni. Abitavo in un piccolo paese che, come molti altri, è stato preso di mira da uomini armati che arrivavano e si portavano via le persone per metterle a lavorare nelle tante piccole fabbriche aperte dagli stranieri, gran parte di queste erano proprietà di italiani.

Un modo non proprio ortodosso per reperire forza lavora. Perché le imprese scelgono questa strada?
Perché dalle fabbriche la gente comincia a scappare. All’inizio, questi sono i racconti di quelle un po’ più grandi di me e che erano andate nelle fabbriche prima, volontariamente, quando reclutavano la gente per fare un lavoro che sembrava normale. Per questo, molte, andavano nelle fabbriche anche con entusiasmo. Era l’epoca in cui noi pensavamo che il mondo fosse quello che si vedeva in televisione. In Albania si prendono tutti i canali italiani e noi ci siamo immaginati che il mondo vero fosse quello che vedevamo alla televisione. Vestiti, auto, locali, divertimento, uomini bellissimi insomma tutte queste cose qua. Per noi l’Italia era questa e, con non poca ingenuità, pensavamo che andare a lavorare per gli italiani era un po’ come entrare a far parte di quel mondo lì.

Poi moltissime vedevano in quel lavoro un modo per staccarsi ed emanciparsi dalla famiglia. Da noi il peso della famiglia o di chi era più grande è sempre stato molto forte e quindi vedere alla televisione tutte quelle ragazze molto libere, belle, ricche e che vivevano un po’ come gli pareva era un modello molto forte, che tutte volevano imitare. Questo è un aspetto del discorso al quale se ne aggiunge un altro. In Albania c’era un forte orgoglio nazionalista e, specialmente per le generazioni più anziane, un certo attaccamento verso l’epoca comunista. È difficile dirti se questo attaccamento verso il passato fosse più una questione ideologica, cioè una forte convinzione verso il comunismo, oppure il legame che molti mantenevano con Enver era forse dovuto all’indipendenza che lui e i suoi partigiani avevano conquistato e garantito all’Albania. Nelle case, un po’ in tutte, l’arrivo degli italiani e delle fabbriche produce delle continue rotture tra giovani, soprattutto i giovanissimi come me, e i più grandi e più si ha a che fare con persone anziane maggiore è il conflitto che nasce. Per i vecchi, gli italiani, non sono quelli che si vedono alla televisione ma quelli che hanno occupato l’Albania nel 1939. Per loro gli italiani sono i fascisti e l’ostilità nei loro confronti è rimasta la stessa. Anche chi non è mai stato molto allineato con Enver e i suoi uomini, in casa nostra c’era uno zio che era stato in prigione perché, pur essendo membro del partito, ne aveva criticato la politica ed era stato condannato per revisionismo, nei confronti degli italiani non aveva idee diverse. Tra le generazioni più anziane il ricordo e lo spettro della conquista era ancora molto presente. Il loro discorso, in poche parole, era questo: Una volta sono arrivati con le armi e poi si sono presi tutto. Adesso arrivano con le industrie, si prenderanno tutto e poi manderanno anche i soldati.

Per noi più giovani queste sono solo fantasie e paure ingiustificati di persone che non vogliono cambiare e che, soprattutto, non sanno cogliere la grande occasione che abbiamo a portata di mano. Andare a lavorare per voi molti lo considerano come una rivincita dei giovani sugli anziani. Noi venivamo da una società molto incentrata sulle figure dei grandi mentre i giovani contavano poco. Da voi, invece, sembra essere tutto il contrario. Si sente in continuazione dire che il mondo deve essere dei giovani, i più sono attratti da questi discorsi. Così, per fartela breve, all’inizio molti vanno a lavorare spontaneamente e con entusiasmo nelle lavorazioni che gli italiani aprono in continuazione e lo vedono anche come un modo per liberarsi dal peso del potere familiare. Tutto questo ha vita breve ed è a quel punto che inizia il reclutamento coatto attraverso i rapimenti e le deportazioni.

Cos’è che fa saltare il clima idilliaco che inizialmente si era creato tra imprenditori italiani e forza lavoro albanese?

Le condizioni in cui le operaie e gli operai sono costretti a lavorare. Una situazione che per le donne, in base ai racconti che ho sentito, sono ancora più duri perché sono spesso vittime di abusi sessuali da parte degli agenti della sicurezza. In ogni caso, abusi o meno, è come si svolge il lavoro che rende quella vita insopportabile. Agli orari interminabili, ai ritmi da incubo e a tutto il resto devi aggiungere l’impressionante numero di infortuni che ci sono. Se i morti non sono tantissimi, le menomazioni permanenti, invece, sono all’ordine del giorno. Questo vuol dire tornare a casa e diventare un peso per la famiglia perché se hai perso una mano o anche solo tre dita non è che poi puoi essere tanto utile. Ma tante, dopo un po’, vengono anche mandate via perché sono troppo debilitate per continuare a lavorare con i ritmi che loro vogliono e difficilmente riescono a riprendersi in seguito. Molte, per la scarsa alimentazione, cominciano ad avere carenze di ferro e questo a sua volta gli provoca altri problemi ben più gravi. Oppure in molte si ammalano ai polmoni e questa cosa li rende malaticce per sempre anche perché, una volta tornate a casa, non hanno i mezzi per potersi curare. C’è un’intera generazione, specialmente di donne, rese permanentemente invalide a causa del lavoro in fabbrica. Così diventi un’invalida e hai magari solo vent’anni. Per questo dalle fabbriche molte e molti cominciano a scappare. All’inizio non è molto difficile perché i dormitori non sono cintati e non c’è una vigilanza armata. L’idea che le operaie si ribellassero probabilmente non era stata presa in considerazione al pari di altri aspetti.

Infatti, in contemporanea alla fuga dalla fabbrica, iniziano anche gli assalti alle fabbriche, ai magazzini o alle residenze degli imprenditori da parte di bande che si sono organizzate alcune con fini politici altre semplicemente per denaro. Per molti proprietari il clima diventa pesante e loro stessi iniziano a girare abitualmente armati, vivendo una situazione da assediati. Per un breve periodo, a parte le aree della fabbrica, che sono le uniche che tengono abbastanza sotto controllo, hanno difficoltà a muoversi liberamente all’esterno. Per questo, quando si spostano, lo fanno portandosi dietro il fucile e la pistola. L’arma più diffusa è il fucile Winchester calibro 30/30 e la Beretta calibro 9 ma girano anche parecchi mitra M12 o fucili mitragliatori americani. Molte bande controllano, oppure riescono a comparire all’improvviso un po’ ovunque, le vie di comunicazione e per questo il trasporto del prodotto finito spesso diventa un problema perché i carichi sono assaltati da questi gruppi. Quindi gli imprenditori hanno il problema di far viaggiare i carichi con una scorta in grado di reggere o scoraggiare gli assalti. In alcuni casi, però, anche le zone delle fabbriche non sono troppo sicure. Ci sono stati episodi in cui qualche banda ha neutralizzato la vigilanza armata dei paramilitari arrivando fino alle abitazioni dei proprietari. In alcuni casi questi, insieme a un po’ dei loro uomini, si sono barricati nelle ville e hanno dovuto sostenere dei conflitti a fuoco fino all’arrivo della polizia.

Questo clima favoriva anche una certa iniziativa dentro alle fabbriche dove iniziavano a essere sempre più frequenti i sabotaggi insieme alle richieste di migliori condizioni di lavoro, soprattutto una riduzione della giornata lavorativa e una diminuzione dei ritmi oltre a una quantità e una qualità del cibo maggiore. È a questo punto che inizia ad aumentare il numero di miliziani assunti dagli imprenditori e il loro ruolo diventa sempre più importante. Questi hanno diverse mansioni. Proteggere le proprietà dagli assalti, impedire la fuga del personale, mantenere l’ordine e la disciplina sul lavoro ma anche procurare in continuazioni nuovo personale. Questo per due motivi. Da una parte devono colmare i vuoti lasciati dalle fuggiasche, dall’altra aumentare il numero delle operaie perché c’è un vero e proprio boom di richieste e quindi hanno tutto l’interesse ad aumentare la produzione.

Da chi sono formati questi corpi privati di miliziani?

C’è gente che viene un po’ dappertutto. Ci sono tedeschi, belgi, italiani, inglesi, americani e anche dei sudafricani. Almeno questi sono quelli che ho avuto modo di vedere io. Quelli che mi hanno rapita erano italiani e belgi.

Ma potevano muoversi liberamente, come paramilitari, dentro il territorio albanese?

Sì. In realtà in Albania dopo il crollo del vecchio regime non c’era più un vero e proprio stato. C’erano vari gruppi che governavano a loro convenienza dei pezzi di territorio e il governo centrale era un po’ una finta. Le forze paramilitari straniere erano autorizzate a muoversi come volevano perché tutti, governo centrale e i vari poteri locali, ne avevano dei benefici. Formalmente c’era lo stato albanese ma in realtà chi comandava sul serio erano questi che avevano impiantato le loro fabbriche in Albania insieme alle loro milizie private.

A un certo punto, insieme alle operaie più giovani, sei prelevata dalla fabbrica e destinata in un bordello. Quando avviene e perché?

Nel 1998 quando arrivano i soldati italiani in missione in Albania. A quel punto molti imprenditori iniziano a guardare al business del sesso, se arrivano i soldati c’è bisogno di donne e così iniziano a selezionare nelle fabbriche le più giovani. Subito c’è un miglioramento nelle nostre condizioni di vita. Per un mese veniamo esentate dal lavoro, ci danno da mangiare di più e roba di migliore qualità e si preoccupano di far rifiorire i nostri visi e le nostre mani che, specialmente queste ultime, sono martoriate a causa del lavoro. Ci portano anche creme e prodotti di bellezza. Non ci dicono niente, ma non ci vuole molto a capire che quel cambiamento non prelude a nulla di buono.

Se fino al giorno prima ci trattavano come animali da soma terrorizzandoci e dandoci il minimo indispensabile per sopravvivere all’improvviso non possono certo essere diventati dei santi, capiamo in fretta che ci porteranno da qualche parte a fare le puttane. Probabilmente perché siamo tutte molto giovani, quelle prescelte hanno tra i tredici e i diciotto anni, facciamo in fretta a riprenderci, i segni della fatica e dell’abbrutimento spariscono e vengono a imbarcarci. Siamo trentasette ragazze, ci fanno salire su un autobus con i vetri oscurati, insieme a noi salgono sei uomini armati, quattro italiani e due belgi. Davanti e dietro all’autobus ci sono le jeep con gli uomini armati che ci scortano. Non hanno certo paura di noi ma, come vengo a sapere in seguito, le ragazze giovani e anche i ragazzini stanno per diventare una merce preziosa e molto richiesta e per questo il rischio di essere assaliti per strada da qualcuno che si vuole impossessare del carico non è da scartare. Episodi simili ho saputo che ne sono successi parecchi.

In che modo vi convincono a diventare delle prostitute?

Con il terrore. Veniamo portate in questo posto che diventerà la nostra dimora dalla quale non è possibile allontanarsi e alcune di noi prese a caso, sotto gli occhi di tutte vengono violentate da una quindicina di paramilitari. Subito dopo ci spogliano nude e ci ammassano in un cortile, quindi vanno a prendere i cani e ce li aizzano contro. Non ci fanno mordere perché stanno attenti che i denti non si avvicinino troppo, ma ci dicono molto chiaramente che se non facciamo bene il nostro lavoro non ci penseranno un momento a buttarci in pasto ai cani. Ci dicono chiaramente che non dobbiamo fare storie e mostrarci disponibili ed entusiaste verso qualunque richiesta.

Una frase che ci viene detta poco dopo rende tutto molto chiaro: “Voi non siete qua per fare le troie, voi siete qua perché siete delle troie e come tali dovete comportarvi. Dovete far divertire i soldati come se anche voi vi divertiste. Come farlo sono cazzi vostri ma trovate il modo perché i cani hanno fame e la carne cruda gli piace parecchio.” Per tutte noi inizia un periodo di totale abbrutimento. Qualcuna non regge e finisce con il togliersi la vita. Un paio, invece, muore nelle orge. Non ci sono limiti. Su e con noi tutti possono fare quello che gli pare. Ti può bastare quello che succede in seguito alle ragazze che, per il troppo lavoro o perché non più giovani, per non più giovani si intende quelle sopra i venticinque anni, vengono spedite nei bordelli speciali. Sono posti frequentati solo da sadici dove le ragazze sono sottoposte a torture e supplizi di ogni tipo. Periodicamente, nei bordelli, c’è un’ispezione e quelle che sono un po’ troppo sciupate vengono mandate a quello che è detto il capolinea. Chi esce da lì non potrà mai dimenticare, neppure volendolo. Le ferite, le piaghe e le bruciature ricevute nei giochetti se li porteranno dietro finché campano.

(Continua)

(Immagine tratta da “Salo’ o le 120 giornate di Sodoma”)

Ringrazio Emilio Quadrelli.

24 COMMENTS

  1. Non ho sottomano un numero di Alias, né so se abbia delle pagine web. Esce ogni sabato come supplemento a “il manifesto”.

  2. Per quanto ne so, Quadrelli sembra il solo ad uscire da un piano di generica condanna politica per compiere ricerca diretta su cosa significano per i singoli individui, vittime o carnefici che siano, militari o civili che siano, uomini e donne che siano, adulti o ragazzi che siano, le varie guerre “umanitarie” et non, intraprese dall’Occidente sotto questa o quell’egida ONU/NATO, addirittura utilizzando una divisa da buoni, bianca e blu, eccetera.
    Anche nelle precedenti interviste schizzava fuori, neanche tanto tra le righe, la ferocia che chez nous dobbiamo parzialmente reprimere (quasi sempre, tranne alcune eccezioni tipo il G8 di Genova), ma alla quale possiamo dare libero sfogo in situazioni di regole annullate o allentate, disponendo del potere della forza, operando da posizioni di dominanza che scatenano a loro volta una bella dose di razzismo e sadismo manco tanto latente.
    Quello che siamo capaci di fare possiamo saperlo solo lì, nei luoghi dove andiamo a fare i “peace maker”, gli operatori umanitari, gli osservatori ONU, gli imprenditori benemeriti, eccetera.
    Ma nessuno – tranne Quadrelli – lo racconta.

  3. Secono me il pezzo è un esempio di pessimo giornalismo.
    Tutto quanto mi puzza di fumettone alla Rambo 3.
    Quanto di ciò che viene raccontato è stato verificato? L’intervistata è l’unica fonte?
    Agli stereotipi del romanzo d’appendice in chiave sadomaso non manca niente: la tratta delle schiave, l’harem, la vendetta, etc. etc.
    Nel post manca poi la parte più delirante del racconto, dove la liberazione avviene attraverso un tunnel e amenità varie.
    Se interessa a qualcuno, ne ho scritto qui:

    http://rigoni67.blogspot.com/2007/02/gonzo-jurnalism.html

  4. io tendo a credere alla ragazza. perchè mentire, rigoni? per diventare ricca e famosa? ce lo spieghi! si metta sugli attenti e ce lo spieghi!
    comunque, da ufficiale dell’esercito italiano, mi sento in dovere di deplorare tali terribili comportamenti, ricordando che l’esercito è fatto anche di veri soldati, gente che da anche la propria vita, senza retorica, senza chiedere nulla. questa storia raccontata dal giornalista quadrelli è sconvolgente. grazie a nazione indiana per proporcela.

  5. c’è sempre un rigoni.
    ovunque.

    (quadrelli non è un giornalista è un sociologo, un ricercatore.
    le interviste di questo genere sono il suo mestiere.
    avrà i suoi strumenti di verifica).

  6. Il pezzo linkato da Rigoni è molto interessante per due motivi. Uno per la modalità bizzarra attraverso la quale “deduce” il suo categorico giudizio. Il secondo perché manifesta, inconsapevolmente, il pregiudizio dell’autore che lo ha scritto.

    Innanzitutto, ignorando chi è Quadrelli, la sua opera di sociologo e l’ambito delle sue ricerche, gli oppone i più giovani Saviano e Rovelli. Che s’inscrivono eventualmente, ognuno con la propria specificità, in quel filone di ricerca sulle condizioni sociali di margine, crimine e immigrazione, che rappresentano già l’ambito di ricerca di Quadrelli.

    Poi, andando al nerbo del ragionamento di Rigoni: “Se l’autore ha riportato fedelmente le parole dell’intervistata, come minimo ha mancato di una regola che appare sempre più fondamentale, e sempre più dimenticata, nel giornalismo contemporaneo: la verifica delle fonti.” Questa è una supposizione del tutto arbitraria. Quali sono gli elementi che Rigoni ha in mano per dire che Quadrelli non ha verificato le fonti? Nessuno, se non questa sua certezza “intuitiva”. E qui arriviamo al punto fondamentale. Rigoni non ha alcun dato che potrebbe inficiare il lavoro di Quadrelli, ma ha un’idea di cio’ che NON puo’ essere reale e che invece appartiene all’ambito del “fumettone” macabro.

    Lasciamogli nuovamente la parola:
    “Qualche esempio: sabato “Alias”, supplemente culturale de “Il Manifesto”, riportava una intervista di Emilio Quadrelli ad una ragazza albanese coinvolta in un caso di tratta delle bianche a favore delle truppe NATO in Kossovo e in Albania. Chiunque l’abbia letto avrà provato un forte senso di disagio di fronte a quello che non può apparire che un fumettone alla “Sin city” in cui non manca niente per completare il genere: schiavitù sessuale, violenza sadica, tratta delle bianche verso i paesi islamici, ex-prostitute guerrigliere che si vendicano dei maschi sfruttatori, etc. etc.”

    A me sembra un tipico modo per difendersi dall’orrore della realtà più prossima. Quando, ben al di là del solo Quadrelli, una pluralità di fonti ci parlano di un ritorno massiccio della schiavitù nel mondo odierno. Una schiavitù che si esercita sugli uomini, nelle forme del lavoro coatto, e che si esercita sulle donne, nella forma della prostituzione. Prostituzione che diversifica le sue offerte, rendendole sempre più estreme, grazie alla reperibilità “facile” di donne giovani o giovanissime e grazie alla domanda massiccia di maschi pronti a pagare.

    Faccio un solo esempio, per conoscenza diretta. Ho visitato Arusha, una città che si trova nel nord della Tanzania qualche anno prima che vi istallassero, nel ’94, il tribunale internazionale dell’Onu per giudicare i crimini del genocidio ruandese degli Hutu contro i Tutsi. Con l’arrivo di funzionari la città si è trasformata in brevissimo tempo, diventando, ovviamente, un luogo di concentrazione della prostituzione.

    Di tutta questa faccenda, uomini e donne, dovrebbero parlarne molto di più, visto che poi la prostituzione è già sotto i nostri occhi in Italia. Ed è già una prostituzione organizzata sulle schiavitù e le torture peggiori.

  7. Mi dispiace contraddire, ma so bene chi è Quadrelli, conosco “Andare ai resti” ma anche il lavoro precedente con Alessandro Dal Lago.
    So che è un sociologo e conosco la metodologia e il campo di ricerca del gruppo genovese con cui collabora.
    Il fatto è che il pezzo postato non ha nessuna velleità di analisi sociologica ma si presenta come un pezzo giornalistico. Basta vedere i titoli e l’impaginazione scelta.
    Quello che volevo dire, e forse non sono riuscito a farmi capire, è che sono sicuro che la realtà che Quadrelli racconta attraverso l’intervista esiste. Lo stesso è per Gatti. Ma il pezzo, in particolare nella parte seguente a quella postata, ha una serie di elementi che sono, perlomeno per me, evidentamente “fiction”.
    Le cose che sarebbero interessanti da analizzare sono due (ancora a mio parere):
    1) Perché l’intervistata deve “rafforzare” le sue esperienza, di per sé terribili, con elementi romanzeschi
    2) Perché una inchiesta deve racchiudere elementi pulp per farsi notare dai lettori (le cornee di Gatti, la tratta delle bianche verso i ricchi sadici dei paesi islamici). Perché, insomma, la realtà sembra non avere forza sufficiente per essere “notata”.
    Caro Andrea Inglese, non voglio difendermi dall’orrore chiudendomi nel mio piccolo mondo piccolo borghese.
    Sostengo che proprio perché abbiamo di fronte l’orrore, dobbiamo dotarci di strumenti in grado di scandagliarlo a fondo e non, semplicemente, rimanere ad osservarlo affascinati.

  8. a Rigoni, che scrive:
    “Le cose che sarebbero interessanti da analizzare sono due (ancora a mio parere):
    1) Perché l’intervistata deve “rafforzare” le sue esperienza, di per sé terribili, con elementi romanzeschi
    2) Perché una inchiesta deve racchiudere elementi pulp per farsi notare dai lettori (le cornee di Gatti, la tratta delle bianche verso i ricchi sadici dei paesi islamici). Perché, insomma, la realtà sembra non avere forza sufficiente per essere “notata”.”

    Cosi formulate queste domande hanno certo senso. Ma non sono ancora sufficientemente precise. Io trovo, nei giornali, e facciamo il caso di Erba, una serie di fatti veri, raccapriccianti, presentati nella “forma” di una cattiva letteratura. I fatti sono veri, la forma di presentazione di quei fatti è presuntuosamente letteraria negli intenti e disastrosamente letteraria negli esiti.

    Posto che si dà per acquisito che i fatti di cui parla Quadrelli siano veri, ossia la testimonianza autentica e sufficientemente verificata, i fatti come li presenta non mi sembrano “romanzati”, enfatizzati letterariamente. E quindi il fenomeno che tu additi esiste, ma mi sembra che riguardi poco Quadrelli.

    Oppure si dà per acquisito che Quadrelli si è inventato di sana pianta i suoi fatti, la testimonianza o i contenuti della testimonianza, per proporre al pubblico un articolo “duro”. Qui l’accusa è più pesante, e proprio per questo andrebbe argomentata.

    Affermare che quello che racconta la ragazza albanese è roba pulp non serve a nulla. Sappiamo bene che la realtà è supera sempre anche l’immaginazione più pulp.

  9. per come l’ho letta su Alias l’intervista evita il più possibile il pulp.
    rammento che benché quadrelli chieda particolari, l’intervistata si rifiuta di rispondere.
    piuttosto direi che su certi aspetti della sua storia (che non hanno niente a che vedere con l’assoggettamento a scopo prostituzione) è molto reticente.
    non riesco a capire di cosa si lamenta rigoni.
    non mi pare né morbosa né sensazionalistica, né poco credibile, né romanzata, semmai il contrario di romanzata.
    circa la sua attendibilità faccio due più due: se storie di questo genere si verificano quotidianamente in italia – ne sono pieni i giornali – perché dobbiamo faticare a credere che siano accadute e/o accadano in albania?

  10. Caro Andrea,

    secondo me si tratta di due fenomeni diversi. Sul caso di Erba, per restare al tuo esempio, accanto al pessimo giornalismo, l’aspetto più impressionante è stato il rincorrersi di analisi para-sociologiche e para-psicologiche, cioè l’uso degli schemi e del linguaggio di queste due discipline per legittimare una grande fabbrica del vuoto.
    Nel caso di Quadrelli e in quello di Gatti, che mi pare molto simile, c’è un additivo romanzesco ad una descrizione di fatti reali.
    La domanda che mi pongo è: questo “additivo” viene dalla vittima di questi fatti o è il prodotto di chi racconta?
    Nel primo caso non mi pare positivo che l’autore (giornalista, reporter o sociologo che sia) non verifichi la testimonianza, ma si faccia trasportare dalla sua forza.
    Nel secondo, soprattutto per quanto riguarda Gatti, mi chiedo perché lo si faccia.
    Trovi cose del genere in Kapuscinski e Langewiesche?

  11. Che ti devo dire tashtego.
    Evidentemente abbiamo diverse idee su ciò che è romanzesco. A me il racconto della liberazione della ragazza pare pua fiction.
    Torno a dire che non stento a credere all’attendibilità dei fatti e del contesto. Quello che metto in dubbio è la forma e la struttura con la quale vengono descritti e raccontati i fatti.
    E pongo questa domanda: fino a che punto il racconto dei fatti regge una curvatura letteraria?

  12. ti lascio volentieri a meditare su questa domanda.
    è proprio quello che si augurano quadrelli e quelli come lui quando pubblicano i loro lavori: “si domanderà il lettore se i fatti qui narrati reggono ad una curvatura letteraria?”

  13. E tu non fartela.
    A me questo aspetto continua a dare fastidio e preferirei che i fatti venissero non soltanto raccontati ma anche verificati.
    Il rischio, altrimenti, è quello di pubblicare decine di pagine di denunce sulle stragi serbe in Kossovo, con molti racconti di “testimoni”. Per poi rendersi conto che quei racconti servivano in gran parte a indignare e a mobilitare l’opinione pubblica occidentale.
    Anche in quel caso i fatti non solo erano verosimili, ma in qualche caso erano realmente accaduti. Solo non con la magnitudine con la quale erano presentati. L’intento però è stato in gran parte raggiunto.

  14. rigoni
    visto da fuori (non ti attribuisco di principio malafede) il gioco lancio/ritrattazione/rilancio d’accuse appare un po’ sporchino (fatti veri da verificare:). Stai mettendo in dubbio il lavoro di qualcuno. Nulla di male, ma sarebbe interessante per tutti che tu andassi fino in fondo.
    In particolare sulla magnitudine di alias:), sull’assimilazione del lavoro di quadrelli a quello di gatti, sulla verifica delle fonti (cosa chiedi esattamente, hai esperienza di lavori in questo campo, sul campo?) e sull’effetto distorsione di quella che tu chiami fiction sul vero, tanto da renderlo inverosimile E da verificare.
    qual’è secondo te la sostanza di questo pezzo? Quella che tu chiami “fiction” la inficia?

  15. gina
    non ha alcun motivo di malafede verso Quadrelli. Nè, mi pare, di aver fatto un giochino di “lancio/ritrattazione/rilancio d’accuse”.
    Mettere in dubbio il lavoro di qualcuno mi pare anche doveroso, altrimenti dove sta il diritto/dovere di critica?
    Rispondo alle tue domande:
    1. su Alias (che leggo con interesse da sempre). L’intento politico del pezzo è evidente (denuncia del ruolo svolto dalle truppe occidentali in kossovo) e non ha alcun dubbio che le cose possano essere come le descrive l’intervistata. Ma siamo sicuri che non ci sia da parte dell’intervistata, non di Quadrelli, l’intento di denunciare una situazione del genere per rafforzare la testi del Kossovo indipendente?
    2. Sul lavoro di Quadrelli e di Gatti. Posso sbagliarmi, ma mi pare che ci sia una forte tentazione sensazionalistica in pezzi del genere. Il lettore ricorda più il furto delle cornee o la violenza sadica che altro, secondo te questi sono elementi che non hanno un peso? Scrivere in questo modo non ha un peso e un significato? Per me si e sinceramente non credo che serva a capire un bel niente. L’effetto è quello retorico della parte per il tutto, un ricatto sentimentale (tu lettore, non ti indigni neppure di fronte a questo?).
    In più se, e ripeto se, questi elementi non sono reali, ma il frutto della volontà dell’autore di spettacolarizzare (Gatti) o di ideologizzare (Quadrelli), ci troviamo di fronte ad un fatto senza conseguenze?
    La mia esperienza è quella di editor di saggistica storico/politica in una casa editrice con una formazione da storico e vale quello che può valere in questi casi.

  16. rigoni

    Grazie per la risposta.

    Sul diritto/dovere di critica siamo d’accordo, io stessa ho affermato che non vi è nulla di male a mettere in dubbio il lavoro altrui. Siamo su posizioni diverse sua altri fronti, e cioè sull’effetto magnitudine di alias, al quale tu hai accennato in un precedente commento e che secondo me non esiste, cosa che va di pari passo col fatto che il lavoro di gatti e quadrelli a mio avviso non è assimilabile. Sia dal punto di vista tecnico, sia dal punto di vista della ribalta mediatica e della conseguenza sui governi. Pensa ad esempio alle ispezioni ordinate in seguito all’inchiesta sugli ospedali e ampiamente sbandierate sui giornali.

    Poi. La mia domanda sull’esperienza in questo campo era collegata alla tua richiesta di “verifica delle fonti”. Posso capire la tua posizione da storico, e qui sarebbe davvero utile che intervenisse quadrelli per l’aspetto socioantropologico. Io posso solo riportare due tipi differenti di esperienza personale e professionale. La prima da giornalista infiltrata in cui la fonte ero io, da simil gatti dal punto di vista tecnico ma non per quanto riguarda lo stile, il mio molto più asciutto e schematico, anche per la collocazione del medium per il quale mi sono trovata a lavorare. Cosa da non trascurare, la redazione dei pezzi è avvenuta in forma anonima (per evitare ritorsioni nei miei confronti).

    La seconda da giornalista tout court, che di recente ha dovuto redigere un testo GIORNALISTICO in seguito ad una INCHIESTA ETNOGRAFICA compiuta insieme a una storica/antropologa, cosa che ha permesso la drammatica, e molto proficua:) messa in evidenza della differenza nell’approccio all’altro. A partire dal linguaggio, dalla definizione dell’altro.
    Che per me, ad esempio e professionalmente parlando è colui che:parla.
    Che per lei ad esempio e professionalmente parlando è colui che: “si rappresenta” (non ti dico l’impatto sugli intervistati/informatori, col cazzo che” noi ci rappresentiamo così”, quella che noi diciamo è la pura e semplice: verità).
    A partire dalla citazione delle fonti. Che io ho preteso, anche perché era chiaro che dal punto di vista giornalistico ci stavano manipolando. Che invece la storica/antropologa era disposta a tralasciare, perché la sostanza (e la premessa, quella dell’inchiesta etnografica) era un’altra. La sostanza era la loro rappresentazione del reale.

    Si è discusso molto, tra noi, e con loro che non accettavano il punto di vista etnografico, delle due l’una. O parlate, giornalisticamente parlate, e allora visto che si può (non sempre si può), vi citiamo come fonti. Oppure accettate il fatto che la vostra, dal punto di vista etnografico, è una (reale, avevano ragione) rappresentazione del reale. Il tutto si è concluso con un ibrido di poco senso (irreale, nel senso che non ha riportato la reale portata del conflitto in atto). In sostanza col ridimensionamento della portata delle affermazioni , e la citazione delle fonti.

    In questo caso però. E qui ritorno alla sostanza del pezzo di quadrelli. Che da quanto ho capito tu ritieni ideologica, seppur condita da fatti veri (quali?), seppur condita da deliri stile rambo tre (le “sostanziali” modalità di fuga/salvataggio?).

    Dal mio punto di vista, visto chi ha fatto l’intervista, e dove è stata pubblicata, la sostanza rientra nell’ambito della rappresentazione del reale che è: reale. E del cosa cova sotto le realissime ceneri, cioè il risentimento, e la portata devastante del risentimento. E questo vale anche per l’articolo che ho citato io sulle donne delle banlieue parigine. E questo vale anche per il pezzo di quadrelli sugli ultras in occasione della guerriglia di catania. E questo vale anche per il pezzo sulla controguerriglia nel caso dell’intervista al militare italiano in iraq. E questo vale anche per i kamikaze, o per le terroriste cecene delle quali ho letto altrove. E questo vale anche per la donna russa sopravvissuta al dubrovka che ho visto anni fa in intervista televisiva. In teatro le han fatto fuori (chi?) il marito e uno dei due figli, le è rimasto solo un figlio, che fortunatamente era restato a casa perché malato.
    Odio le terroriste cecene ha detto, MA LE CAPISCO e se non mi fosse rimasto un figlio andrei in cecenia e mi farei saltare in aria davanti alle scuole dei loro, di figli. Tralasciando l’ideologia, che in questo pezzo di quadrelli per altro è pacifica:) anche nel senso di : sgamabile, e con un occhio di riguardo al reale conflitto in atto, imho quel che realisticamente conta, quel che fa la differenza in termini di realissimo sangue, cioè quel che entra in corto col reale preventivo e/o umanitario iperealizzandolo, è il REALE DI ANNA , che non viene da marte (error 404:)

  17. gina,

    come la metti tu, la cosa è interessante. Sole che il pezzo è uscito su un giornale, il lettore pensa di trovarsi di fronte a dei fatti, non ad una rappresentazione. Ed è questo che metto in discussione in tutti i miei interventi.
    Interessante anche la tua esperienza. Di che cosa vi eravate occupati con la storica-antropologa?

  18. Alias è supplemento culturale del manifesto:).
    In quell’occasione io e la storica/antropologa (che è una cara amica) ci siamo occupate di scuola.

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ha pubblicato uno studio di teoria del romanzo L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo (2003) e la raccolta di saggi La confusione è ancella della menzogna per l’editore digitale Quintadicopertina (2012). Ha scritto saggi di teoria e critica letteraria, due libri di prose per La Camera Verde (Prati / Pelouses, 2007 e Quando Kubrick inventò la fantascienza, 2011) e sette libri di poesia, l’ultimo dei quali, Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, è apparso in edizione italiana (Italic Pequod, 2013), francese (NOUS, 2013) e inglese (Patrician Press, 2017). Nel 2016, ha pubblicato per Ponte alle Grazie il suo primo romanzo, Parigi è un desiderio (Premio Bridge 2017). Nella collana “Autoriale”, curata da Biagio Cepollaro, è uscita Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016 (Dot.Com Press, 2017). Ha curato l’antologia del poeta francese Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008 (Metauro, 2009). È uno dei membri fondatori del blog letterario Nazione Indiana. È nel comitato di redazione di alfabeta2. È il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.