Gli occhi della vittima, gli occhi del nemico
di Christian Raimo
A Pasquetta scorsa, a Roma, a Tor Pignattara, fu ucciso a freddo Ahmed, un uomo bengalese. L’assassino era un vicino di casa che non sopportava la puzza e i rumori che venivano dal piano di sotto. Il processo deve partire in questi giorni ma il clamore che allora suscitò la notizia adesso è nullo. Si disse che il municipio si sarebbe occupato dei funerali e del rimpatrio della salma ma non fu così. Si disse che il Comune sarebbe stato vicino alla famiglia della vittima, ma chi elargiva promesse è scomparso. A vedere ammazzare Ahmed c’era anche la nipotina, sfiorata da uno dei colpi: una bambina di quattr’anni che ha le convulsioni di notte, che viene assistita saltuariamente da alcuni psicologi volontari dell’Arci, e che quando cercano di convincerla che lo zio è tornato in Bangladesh risponde: «No, no, lo zio è morto».
Mi è venuta in mente la faccia della bambina, leggendo il libro Spingendo la notte più in là (Mondadori, pp. 131, euro 14,50) di Mario Calabresi, figlio del troppo famoso commissario. Il giorno in cui spararono al padre aveva due anni e mezzo, e questo libro è il resoconto pubblico di un lunghissimo tentativo privato di elaborazione del lutto, di comprensione del trauma. Passando per i brandelli di memorie famigliari, e mettendoli insieme a quelli dei figli di Walter Tobagi, di Antonio Custra, di Luigi Marangoni…
Alla sua presentazione al Festival di Letteratura di Mantova c’è stato un flusso ininterrotto di appalusi e alla fine dell’incontro a farsi firmare la copia c’erano almeno duecento persone. Il suo libro, se ne rende conto l’autore stesso scrivendo, era quello della voce che mancava. Nelle librerie nello scaffale dei libri sugli anni di piombo c’è pieno di analisi di ex terroristi, ex teorici della lotta armata, etc… I ricordi dei famigliari delle vittime sono pochi e fanno poca eco, forse anche perché è difficile che il figlio di un poliziotto sappia scrivere in modo accattivante quanto un ex-br. Mario Calabresi invece è un giornalista di Repubblica , che ha ragionato probabilmente una vita su questo libro e sottolinea in ogni momento la pesantezza alle volte letale delle parole, a partire da quell'”assassino” che ha condannato a morte suo padre.
Leggendo Spingendo la notte più in là è impossibile non commuoversi, e ascoltando Calabresi parlare al Festival si fa fatica a non dargli ragione quando parla di una memoria che non si può conciliare se non si conoscono le vite di quelli che – loro malgrado – si sono trovati coinvolti in una tragedia collettiva. Eppure, a conti fatti, a mente più fredda, c’è qualcosa che non convince del tutto nelle sue affermazioni lapidarie. Che cosa?
In un pamphlet uscito da Bompiani quest’anno ( All’ordine del giorno è il terrore , pp. 141, euro 8,00), Daniele Giglioli cercava di analizzare la semiologia del terrorismo e mostrava come all’origine di ogni discorso di rivendicazione terroristica ci fosse l’autocertificazione di se stessi come vittima. Sono vittima, per cui giustifico la violenza senza mediazioni. Come un kamikaze palestinese si sente vittima dell’oppressione sionista, così negli anni ’70 si uccideva un commissario perché si sospettava avesse buttato dalla finestra un innocente. Sembra un processo automatico. E’ il meccanismo vittimario che, come insegna l’antropologo René Girard e articola Daniele Giglioli, funziona in questo modo. Crea vittime sacrificali, capri espiatori, mimetismo della violenza collettiva (Quante bottiglie di spumante si stapparono quando fu ammazzato il commissario Calabresi?).
Come uscirne allora? Come rompere quest’incantesimo distruttivo? Mario Calabresi nel dibattito pone direttamente sul piatto la questione, o meglio il dilemma di come avvicinare analisi politica e esperienza privata, responsabilità singole e collettive. Si potrebbe fare come suggerisce Erri de Luca – ossia come è accaduto anche nel Sudafrica post-apartheid – scambiare verità per immunità? Graziare gli assassini di allora per riscrivere la storia di quegli anni? Il figlio del commissario non ci crede: in Italia non sarebbe possibile, dice. Il pubblico applaude, ma nessuno gli chiede perché. L’incanto di essere vittima, di stare quindi dalla parte della verità, seduce anche Mario Calabresi, che giustamente cita suo padre dicendo una cosa che dovrebbe essere, e non è, una banalità: «Lui non pensava che ci fossero due Italie ma una».
Sarebbe auspicabile allora che non ci fosse soltanto questa sacrosanta compensazione nella commemorazione delle tragedie italiane (soltanto nel 2004 Carlo Azeglio Ciampi ha celebrato una cerimonia statale a ricordo dei famigliari delle vittime), ma che il centro del racconto, il punto di vita della narrazione si spostasse.
Nella piazza accanto, al Festival della Letteratura, appena finisce l’incontro su Spostando la notte più in là, la gente defluisce e va a sentire David Grossman. Un altro racconto di un trauma privato, quello della morte del figlio, che deve essere messo accanto al dramma di una terra contesa. Il titolo del suo libro, Con gli occhi del nemico (Mondadori, pp. 115, euro 12,00) fa impressione, è quasi inumano, e con certe sue parole si riesce a empatizzare difficilmente. Ma se non così, come?
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pubblicato oggi 12 09 07 su “Liberazione”
non so se sia possibile lo scambio (reciproco) verità-immunità. credo che sia una cosa importantissima, una cosa che tutti quei protagonisti ci devono, a noi che abbiamo venti trent’anni adesso.
in punta di piedi su un terreno minato.Coraggioso Raimo.La nostra è una terra straniera e gli anni 70 un buco nero.Il nostro Vietnam particolare.Un periodo in cui bastava pochissimo per guadagnarsi l’etichetta di fascista(Baglioni veniva abitualmente apostrofato in questa maniera.Eppure cantava delle ragazze dell’Est ai semafori dei cui fratelli oggi i suoi accusatori di un tempo vorrebbero liberarsi).C’era gente che sparava a sangue freddo eroicamente contro soggetti inermi che oggi cerca di riciclarsi come ex-rivoluzionanaria(Zapata e Villa si staranno ribaltando nella bara)inseguendo i fantasmi di un’ossessione che tarda a confonderci
“Come un kamikaze palestinese si sente vittima dell’oppressione sionista…”, queste non sono vittime, sono perdenti. Perdenti ultraradicali. E a proposito di “oppressione sionista”, ricordo a mr. Raimo il Quassam che l’altro ieri ha fatto circa 66 feriti tra i soldati di Davide.