Una madre che piange, o il suo Spettacolo
di Marco Rovelli
Le vedo piangere, le madri. Mi stanno ad un passo, davanti agli occhi. Così vicine che potrei asciugargli le lacrime. Ma non lo faccio. Una madre che piange è sacra. Nel senso che è separata, intoccabile, inavvicinabile. Quando hai davanti una madre che piange l’irredimibile assenza del figlio, è come smisurata. Non sai neppure come potresti abbracciarla. Ti pare di avere davanti il dolore infinito, infinito e informe, e nessun abbraccio potrebbe contenerlo. Stai a distanza, allora. Qualsiasi contatto sarebbe fonte di dolore ulteriore. Potresti sfregare quell’infinita ferita. Chi sei tu, per provarci.
Prendi invece una madre in televisione. Contenuta la mattina tra una canzonetta e un gioco a premi. Resa oggetto di una morbosità che ne fa oggetto di estrazione di dolore per convertirlo in ascolto, in dati di audience. Per convertirlo dunque in pubblicità, in merce.
Andrea Bosich, di Novi Ligure, è morto il 29 gennaio 2004. A trentanove anni. Lavorava in un’azienda di carpenteria pesante. Dove informalmente lavorava anche il padre della titolare. Mica era un gruista lui, solo che era in pensione, e dava un mano alla figlia. O meglio, la ditta era intestata alla figlia, e lui portava avanti il lavoro di una vita. Già una volta aveva causato un incidente. Manovrando una gru aveva fatto cadere un disco di alluminio, novanta chili, sul piede di Andrea. Che al pronto soccorso non aveva detto la verità, “mi è caduto addosso un pezzo” aveva detto, e poi era tornato in ditta perché era stato lui a iniziare un lavoro e voleva finirlo, i suoi genitori gli avevano detto di stare a casa, ma era un piacere che voleva fare al proprietario. Ne aveva ancora per poco, il contratto era a tempo determinato, scadeva a febbraio. Ancora tre settimane di lavoro, dunque, e poi si sarebbe cercato un altro impiego. Se non fosse stato, ancora, per la gru, e per il suo manovratore. Un intero carico di dischi stavolta, per un totale di novecento chili, si sgancia dalla gru mentre stanno caricando un camion e gli piomba addosso. E’ un attimo. Si saprà, dopo, che la gru non veniva revisionata da più di dieci anni. Il procuratore è stato rapido, rispetto al solito, e al processo ha condannato sia la titolare che suo padre. Un anno e quattro mesi, senza la condizionale. Non accade mai che in questo tipo di cause la condizionale venga sospesa. Il fatto è stato giudicato clamoroso dal giudice, un giudice che evidentemente ne ha abbastanza di certe impunità. Gli imputati sono stati condannati a pagare una provvisionale ai familiari – che però non hanno visto niente, dopo tre anni, in virtù di una nullatenenza dichiarata dai titolari. L’assicurazione, poi, rimborsa solo i danni causati dai dipendenti in regola, e il padre della titolare non lo era. I condannati, in ogni caso, sono ricorsi in appello, la pena gli è parsa troppo grave. Nel frattempo c’è stato l’indulto, che ha fatto lo sconto di tre anni anche sulle pene inflitte per gli omicidi colposi sul lavoro. Padre e figlia, dunque, continuano a lavorare come sempre, e come sempre nessuno pagherà pegno.
Anna Maria, la madre di Andrea, mi dice che parlare le fa male. Sono passati tre anni, non me la sento. Mi basta andare dall’avvocato e entro in crisi. Ancora non riesco a farmene una ragione. Sono passati tre anni, e riesco a parlare di mio figlio solo con gli amici, con i parenti, e ancora mi commuovo, e ci commuoviamo.
Dico alla madre di Andrea di quelle madri che si organizzano per far sì che le storie che le hanno toccate non abbiano a ripetersi. Lei risponde che capisce, che è giusto. Ma io non ce la faccio, non ne ho la forza. E poi sono una nonna a tempo pieno, mi devo prendere cura dei miei nipoti. Uno di nove anni, uno di otto, uno di quattro. L’ultimo era nato da pochi mesi quando è morto suo padre. Non posso fare altro che questo. E ancora, la sento commuoversi.
La commozione, fatto privato. Ma non è egoismo, il suo, o semplicemente un ripiegamento sul proprio dolore. Certo, il dolore prostra. Ma si tratta di non esibire, oscenamente, qualcosa che appartiene alla tua intimità. Mi hanno chiamato a raccontare la mia storia in tv, dice, Ma io non vado. Non mi piace mescolare il mio dolore alle barzellette di un comico e a un balletto. E non mi piace andare a piangere davanti a tutti. Anna Maria ha ben chiaro davanti a sé il significato di “spettacolo”. Il divenir-merce di ogni cosa, il degradare di cose incomparabili a equivalenza, a pura scambiabilità, in un grande, immenso blob. Un blob che sa usare le vittime, e coloro che con le vittime hanno un rapporto affettivo, per spremerne lacrime. Perché il cuore resta pur sempre la più intima cavità umana, e dunque un serbatoio straordinario cui attingere per fare ascolto. Un ascolto fine a se stesso, che torna su se stesso e ripiega su un’impasse, fino a formare la figura di un vicolo cieco, a dare il senso di un’assoluta impossibilità di cambiare le cose. Una madre che piange è la cosa più oscena, se non si coglie il senso di quelle lacrime, se non si comprende che quelle lacrime chiedono di essere raccolte, e possono essere raccolte solo con una condivisione vissuta, con una pratica reale. Una pratica religiosa – nel senso etimologico di re–ligare, raccogliere insieme. Laddove, invece, i mass media ci inondano di pianto, un pianto che cresce nel chiuso di uno studio televisivo, del tubo catodico, di un appartamento, e così facendo si autoalimenta, è un circolo vizioso – e non c’è modo di asciugarlo, quel pianto, quel pianto irreligioso, di disseccarlo al sole dell’aperto, dove può scorrere liberamente, e sublimarsi in azione. Ché solo il fare è l’alchimia del dolore.
Davvero i pianti televisivi sono talmente sconci che ripristinerei la censura e manderei a lavorare in quel cantiere edile Maria De Filippi & co.
La merce riesce a trasfigurare ogni cosa e ogni dolore.
E se la paghi, la merce
te ne puoi servire per il tuo benessere.
Il problema è capire quello che è bene essere.
Ché solo il fare è l’alchimia del dolore. Sì, Marco, non ho dubbi, forse anche il far sentire vicinanza, nei modi in cui è davvero, autenticamente, possibile.
gran bel testo. da rifletter/e/ci a lungo. grazie.
E se una, una con una storia analoga, il suo dolore invece lo volesse ESIBIRE? Per denunciare, per urlare al mondo intero quel che l’è successo, per qualsiasi motivo palese e oscuro. Sarebbe meno vero quel dolore? Sarebbe meno sacro quel pianto di madre?
No, certo, il dolore non sarebbe meno vero, né meno sacro il pianto di madre. Il mio punto non era quello, la verità del pianto, quanto l’uso strumentale di questa verità, che la inserisce in una catena (“semantica”) che la svuota di senso (ho in mente la frase di Debord: Nel mondo realmente rovesciato il vero è un momento del falso). Le conosco le madri che gridano, che vanno in tv. Portano la loro forza, la loro rabbia. E chiedono giustizia, e azioni per cui il proprio figlio sia l’ultimo. E’ allora come fosse un compimento: la morte del figlio, per quanto non meno dolorosa, acquista un senso. Loro lo sanno il rischio che corrono, quello che la loro esibizione (ma io preferisco dire, esposizione) sia manipolata dalla concatenazione di (non)senso del magma catodico. Ma lo corrono. E se vincono la sfida, è proprio perché la loro consapevolezza, la loro forza, ignorano quella manipolazione in atto. E in questo modo qualcuno raggiungono, ma ciò non toglie che sanno di essere esibite per l’ascolto che possono dare. Però agiscono anche fuori dallo schermo, ed è questo che dà loro la forza: la condivisione. Poi ci sono quelle madri che vanno in tv per pura urgenza di dire, senza la consapevolezza di cui sopra. Ed è giusto ed è bene che lo facciano, sia chiaro. Però è un fatto che diventano facili prede del meccanismo perverso, anestetizzante, repressivo (nella misura in cui priva quel dolore di sbocchi attivi). La particolarità di Anna Maria, però, è che si tratta di una donna che non ha reagito alla morte del figlio né in un modo né nell’altro. Semplicemente si è chiusa nel proprio dolore. E, senza particolare consapevolezza, ha però fiutato con precisione l’intenzione predatoria dei media nei suoi confronti.
Era una domanda per suscitare una riflessione su un nodo che pure a me non è chiaro. Se è chiaro che la televisione perverte il dolore quando lo sbatte in faccia al pubblico (e temo che questo sia chiaro in qualche modo persino a chi ci sta attaccato a guardasi Michele Cucuzza e compagnia), cosa possiamo fare per non dare per aquisito questo pervertimento?
Sarebbe da ragionare in effetti se il pervertimento è chiaro anche ai cucuzzari. Non so, forse no. Nel senso che chi guarda quelle trasmissioni, forse, si sente riscattato da quel dolore intra-visto. Prima c’è la stupida spensieratezza. Poi c’è il momento in cui chi piange in tv soffre anche per lui. Si soffre per interposta persona. Dopodiché il cucuzzaro “ha dato”, e può riconsegnarsi alla beata stupidità, e al disimpegno assoluto dal mondo. Perchè adesso ha l’anima salva, il mondo è entrato in lui attraverso quel dolore (vero) esibito. C’è pure l’illusione, credo, di aver fatto qualcosa di reale. Una surroga di un’impossibile condivisione reale.
Allora, dici, che fare? (La solita domanda delle domande a cui non abbiamo mai risposta). Io, da uomo all’antica, credo che l’unico rimedio sia rimettere sui piedi quel che cammina sulla testa. E, appunto, fare come le madri che – fuori dallo schermo – praticano la realtà ostinatamente, senza remissione. Reti reali di costruzione del nuovo (di eventi), contro la ripetizione virtuale del fatto. Insomma, non esibire il dolore attraverso il tubo catodico, ma esporlo in un corpo a corpo. Solo su quella base può aver senso prender parte al “cirque” televisivo.
Faccio presente che in Tv ci sono anche trasmissioni che riescono a comunicare il dolore, e lì può aver senso esibirlo (anno zero, reporter,…). Programmi televisivi che insomma non facciano sconti a nessuno almeno finché non le chiuderanno.
Per contro, nelle trasmissioni di intrattenimento, qualunque urlo di dolore è depotenziato (dalla sceneggiatura) in sceneggiata.
Se un film racconta una storia che commuove in quanto rappresenta bene la realtà, senza tuttavia scioccare per la crudezza del vero, qui invece (nei programmi cucuzziani) la realtà (che sia davvero vera o perfino finta) è tramutata in rappresentazione: il vero per il leggero brivido che suscita, la rappresentazione per evitare il fastidio.
Il fine della parvenza del vero è semplicemente quello di provocare una leggera catarsi a buon mercato, che duri giusto il tempo di sentirsi migliori prima di cena.
Una madre che piange il proprio figlio non può volere questo.
Ma un urlo vero.
O il silenzio.