Chinatown, Londra: tra mito e realtà
(Questo articolo e il successivo che verrà pubblicato settimana prossima rientrano in un sottoinsieme del più ampio Dossier “Razzismi quotidiani”. Il sottoinsieme che chiamerò “Migrazioni possibili” raccoglie esperienze e ricerche in corso sul tema delle migrazioni. Vi troverete descritti i processi in atto sia dal lato dei partenti sia dal lato degli accoglienti inserendo il processo migratorio in un’analisi dei fenomeni sociali di contesto.
In particolare sarà dato spazio alle politiche di risposta alle migrazioni e alle analisi di supporto alle politiche di accoglienza. Vogliamo dar voce alle risposte strutturate alle migrazioni che vadano oltre le misure d’emergenza, focalizzare i grandi errori o la gestione dei conflitti degli interessi economico sociali che si creano tra migranti e comunità locali.
Quindi “Migrazioni possibili” presenta casi, notizie su come si muovono le istituzioni di fronte alla questione sociale, che ingloba la migrazione, ma non si esaurisce in questa. MLV)
Più che come una metropoli Londra si presenta come una cosmopolis. Luogo di transito o di permanenza per immigrati, rifugiati e richiedenti asilo, minoranze etniche, migranti temporanei tra cui studenti, turisti, giovani avventurieri, professionisti e lavoratori altamente qualificati, nuovi e vecchi ricchi che la eleggono a loro domicilio fiscale, Londra è una città visceralmente cosmopolita. Nemmeno la segregazione spaziale, l’esistenza di comunità perimetrate, o la presenza di conflitti, discriminazioni di genere e di etnia impediscono alla capitale inglese di essere una città dove il cosmopolitanismo ha assunto uno stato di relativa normalizzazione.
Chinatown è un elemento potente nella rappresentazione di Londra come città cosmopolita.
È una vetrina del successo della comunità cinese ed espressione della sua incorporazione economica ed integrazione culturale nella città e nella società inglese. È sede di importanti celebrazioni culturali cinesi, come China in London 2006 e 2007 e il Capodanno cinese. È uno dei principali itinerari turistici promosso dalle guide e dalle stesse istituzioni, uno shopping centre non solo per turisti ma anche per i residenti. Anche il governo cinese sfrutta la fama di Chinatown per promuovere l’immagine della Cina all’estero contribuendo ad iniziative culturali e commerciali.
In questo contributo analizzerò Chinatown ed il suo ruolo sia come città-vetrina, branded city, sia come luogo d’identità e senso per gli immigrati cinesi a Londra, ma non prima di avere descritto per sommi capi le caratteristiche della nuova immigrazione cinese. Esso si basa su due progetti di ricerca che insieme ad alcuni colleghi della Middlesex University e della Leeds University sto conducendo sui nuovi immigrati cinesi a Londra e sul significato di Chinatown per la diaspora cinese.1. La nuova immigrazione cinese a Londra
La popolazione di origine cinese è uno dei più vecchi e dei principali gruppi etnici presenti a Londra. I primi immigrati arrivarono intorno alla metà del secolo scorso ed erano marinai che sbarcavano dalle navi e decidevano di fare fortuna o cercare migliori opportunità di vita nella capitale inglese. La prima area cinese ha quindi sede nella zona dei docks ed è a partire da quegli anni e con maggiore vigore a cavallo del secolo che comincia a svilupparsi il mito di Chinatown come zona esotica, pericolosa, immorale. Dopo un lungo periodo di relativa stabilità, a partire dagli anni ’70, e con maggiore vigore dagli anni ’90 e nel corso dei primi anni del nuovo millennio l’immigrazione cinese ha registrato un rinnovato impulso. Nel 2001 gli immigrati d’origine Cinese a Londra erano 80.206, un terzo del totale a livello nazionale, due terzi dei quali nati e cresciuti a Londra. A partire dal 2001, secondo cifre ufficiose, ci sarebbero stati tra 50.000 e 80.000 nuovi arrivi.
I nuovi immigrati hanno trasformato la comunità cinese per molti rispetti. Innanzitutto, è cambiato il rapporto numerico tra cinesi nati in Inghilterra e quelli provenienti da altri paesi. Contemporaneamente vi è stata una diversificazione territoriale dei nuovi arrivati, che non provengono più solamente da Hong Kong, o dal Viet Nam come era avvenuto negli anni ’70, ma soprattutto dalla madre patria e da alcune regioni del sud-est. Vi è poi stata una diversificazione sociale ed occupazionale. Sono molti gli immigrati qualificati che lavorano nel settore dell’information technology, per agenzie governative o imprese che hanno bisogno di personale bilingue, gli accademici che lavorano nelle università, così come sta crescendo il numero degli studenti cinesi che frequentano le università londinesi. In parallelo, è significativo il flusso dei lavoratori non qualificati o con competenze che non trovano posto nel nuovo contesto, come gli artigiani tagliati fuori dall’industrializzazione e dall’ingresso della Cina nel mercato capitalistico globale o i contadini che non hanno usufruito della crescita economica di questi anni. È inoltre cresciuto uno strato intermedio di immigrati che svolgevano lavori o mansioni qualificate nel paese d’origine e non sono stati in grado ti trasferire le loro competenze nel nuovo mercato del lavoro, ed il numero delle donne che emigrano da sole e non necessariamente al seguito della famiglia. Infine, sono alcune migliaia i richiedenti asilo ed i rifugiati (sindacalisti, membri della setta Falungong etc.).
Dati i numeri dei nuovi arrivati e le restrizioni all’immigrazione da parte del governo Inglese sono in molti a non poter ambire alla fascia alta del mercato del lavoro ed impiegati nell’economia informale, in particolare nella ristorazione o nell’industria alimentare. È un segmento invisibile che permette a questi settori, la ristorazione ma anche le grandi catene della distribuzione come Tesco e Sainsbury, di competere riducendo al minimo il costo del lavoro ed esasperando la rincorsa al ribasso dei prezzi dei loro prodotti. Soltanto raramente questo segmento esce dall’invisibilità. Successe nel 2004 quando 23 immigrati senza permesso di soggiorno morirono a Morecambe Bay sorpresi dall’alta marea mentre stavano raccogliendo frutti di mare (su questa vicenda è stato girato un ottimo film, Ghosts). Oppure, più recentemente (ottobre 2007), quando la polizia ha organizzato un’enorme e spettacolare retata a Chinatown e portato via 30 lavoratori senza documenti.
Sebbene nel suo insieme la comunità cinese venga spesso indicata come una ‘minoranza modello’ (Pieke 2005), ‘invisibile’ nel dibattito pubblico e nelle politiche di intervento e gli indicatori offrano un quadro economico e scolastico mediamente positivo, i problemi che gli immigrati cinesi devono affrontare quotidianamente sono molteplici: isolamento sociale ed esclusione economica, dispersione geografica, lunghi orari lavorativi, razzismo, scarsa o spesso nulla conoscenza della lingua inglese che in molti casi può essere all’origine degli altri problemi. I gruppi più colpiti sono le donne anziane, immigrate alcuni decenni fa al seguito della famiglia, e gli anziani in generale, i disabili, i nuovi immigrati ed i richiedenti asilo politico.
2. Chinatown tra mito e realtà
Nelle società occidentali gli immigrati cinesi hanno sempre avuto una connotazione negativa ed abbondano i luoghi comuni nei loro confronti. Il cinese è lo straniero per eccellenza, è chiuso, difficilmente avvicinabile, che non integrarsi nella società cosiddetta d’accoglienza ed ha sempre qualcosa da nascondere. Queste convinzioni trovano ospitalità anche nel cinema e nella letteratura per cui il cinese è un personaggio ambiguo e misterioso, un corrotto ed un corruttore, un consumatore d’oppio. Sono gli stessi immigrati cinesi a denunciare il modo in cui la società occidentale guarda a loro. “Ho sempre avuto la sensazione che l’occidente avesse un problema psicologico nei confronti della Cina … come se fosse ‘Fu Manchu’, o come se fosse il pericolo giallo” (brano tratto da un’intervista).
Una sorte simile è toccata anche alla Chinatown di Londra sia come luogo storico sia come astrazione. Più precisamente, si può affermare che esistono due Chinatown: quella mitologica ed inventata e quella storica e reale. La prima è una costruzione occidentale che vede in Chinatown una zona misteriosa, un luogo di traffici dove dare sfogo a depravazioni (sesso) e vizi (oppio e gioco d’azzardo). Parafrasando Edward Said (Edward Said, Orientalismo, Feltrinelli 2002) sul modo in cui l’occidente si rappresenta l’oriente, Chinatown stessa è in un certo senso un’invenzione dell’Occidente, un’enclave esotica nel cuore delle società occidentali dove sono possibili esperienze in qualche misura eccezionali.
La Chinatown reale è una realtà complessa, uno spazio urbano che ha diverse facce, talvolta conflittuali ma anche sovrapposte. La prima è quella di area turistica, che attrae milioni di turisti ogni anno, sostenuta e riconosciuta come tale dalla stessa municipalità di Westminster, nel centro di Londra dove Chinatown ha sede. Sotto questo profilo è un’area normalizzata, incorporata nell’industria del turismo di Londra e da cui molti attori traggono profitti; innanzitutto imprese immobiliari come Rosewheel and Shaftesbury che sono proprietarie di gran parte degli immobili della zona; in secondo luogo i commercianti ed i ristoratori cinesi, che bilanciano gli esosi affitti degli immobili con l’utilizzo di manodopera irregolare; infine, le catene di negozi (Starbucks etc.) e le attività commerciali (ad esempio case di scommesse come Windmill) che non appartengono a persone di origine cinese ed hanno sede a Chinatown, nelle vie limitrofe o del centro di Londra. Per questi attori Chinatown non è più un’invenzione che appartiene al mito ma è semplicemente una “gallina dalle uovo d’oro” (definzione data da un testimone privilegiato), un potente fonte di ricchezza.
Chinatown, però, non è soltanto una branded area, una città vetrina da offrire al turismo di massa, un parco a tema di una più vasta disneycity che comprende il London Eye, il Big Ben, il cambio della guardia e, perché no, luoghi culturalmente più blasonati come la Tate Modern, il British Museum o i teatri del centro di Londra. In generale, Chinatown ha un ruolo importante nella vita sociale quotidiana degli immigrati cinesi (Christiansen 2003). “Poiché alcuni non parlano inglese o non hanno accesso a internet e non possono nemmeno leggere i giornali cinesi … se vanno a Chinatown trovano ciò che vogliono ed anche velocemente” (brano tratto da un’intervista). Essa è per certi versi una piazza dove gli immigrati della diaspora londinese scambiano informazioni, organizzano campagne politiche, s’informano sui recenti avvenimenti che riguardano la Cina e l’immigrazione cinese in altre parti del mondo (per esempio, ha avuto molto rilievo la notizia della rivolta a Milano nell’aprile del 2007).
In questa area una minoranza etnica facilmente visibile e riconoscibile, soggetta a varie forme di razzismo molecolare, può riconoscersi, scappare da quel senso di isolamento che nasce dalla particolare dispersione della comunità cinese. Chinatown, pur essendo un luogo ad uso e consumo del turismo di massa, rappresenta un rifugio dalla ‘visibilità razziale permanente’. Di conseguenza, riesce a trasmettere intimità ad alcuni immigrati cinesi: “Quando ero qui da poco era strano e vedere dei cinesi mi trasmetteva un senso di intimità. A quell’epoca, quando venivo a Chinatown, mi ricordava il mio paese. Sentivo nostalgia così venivo a Chinatown e mi sentivo felice…”. Oppure: “Londra ha un’atmosfera cinese, così molti cinesi possono adattarsi alla vita di Londra … poiché ci sono moti cinesi a Londra non c’è nemmeno bisogno di parlare inglese poiché sono in molti a parlare cinese” (brani tratti da due interviste).
Infine, Chinatown è uno spazio transnazionale, un nodo che connette il locale ed il globale. Lo è come global brand, un marchio esportato in altre parti del mondo, come altri simboli del turismo che hanno ormai trovato cittadinanza globale, ed adattato allo stile architettonico locale. Lo è come sede di banche (la HSBC e la Bank of China per esempio) che curano le rimesse degli immigrati cinesi nel paese d’origine. Lo è come sede delle agenzie di viaggio cinesi che organizzano viaggi per la Cina ed hanno come clientela quasi esclusivamente l’immigrato cinese. Lo è come porta d’ingresso in Inghilterra per i nuovi immigrati cinesi come emerge dal racconto di un’immigrata arrivata agli inizi degli anni 2000 sulla sua esperienza a Londra: “Quando arrivai a Chinatown per la prima volta sono riuscita a trovare un posto dove stare attraverso un po’ di aiuto. Stavo aspettando e mi sentivo persa. Completamente senza aiuto. Nessuno sembrava notarmi. Ho chiesto qualcosa a qualche cinese che incontravo ma mi rispondevano in inglese e non capivo nulla. Poi vidi un gruppo di cinesi uscire da quella che suppongo fosse una casa di scommesse. Mi diressi verso di loro ed uno di loro parlava un po’ di mandarino. Dissi che stavo cercando una stanza e lui rispose che poteva chiedere ad un amico se aveva una stanza. Chiama l’amico con il cellulare ed alla fine trovai questo posto. È stata un’esperienza molto dura”.
Lo è come spazio che attrae investimenti dalla Repubblica Cinese per cui “lentamente, lentamente stanno giocando un grande ruolo, come il ristorante all’angolo o i supermercati che hanno aperto negli ultimi anni [sono d’investitori dalla Cina]” (brano tratto da un’intervista). Lo è, infine, come luogo di rappresentanza del governo cinese che fa delle donazioni per abbellire e rendere più attraente Chinatown e promuovere l’immagine della Repubblica Popolare Cinese all’estero.
Come si vede, Chinatown è uno spazio complesso, che presenta diversi strati sovrapposti. Per usare la celebre definizione di Marc Augé è luogo ed insieme non-luogo. In quanto città-vetrina, area turistica, semplice oggetto di consumo e di passaggio, spazio in cui “si riannodano i gesti di un commercio ‘muto’, un mondo promesso all’individualità solitaria, al passaggio, al provvisorio, e all’effimero” (Marc Augé Nonluoghi. Introduzione a un’antropologia della surmodernità, Elèuthera, Milano, 2005), Chinatown è un non-luogo. In quanto spazio sociale dove i vecchi ed i nuovi immigrati intessono relazioni e spazio dove si costruisce cultura, storicità e riconoscimento Chinatown è un luogo di appartenenza e d’identificazione per la dispersa comunità cinese.
Nicola Montagna è dottore di ricerca e Research Fellow presso la Middlesex University di Londra. Si occupa di movimenti sociali e di immigrazione, sui quali ha scritto diversi saggi per libri e riviste accademiche.
Altri riferimenti bibliografici in lingua inglese:
Christiansen F. (2003) Chinatown, Europe. An exploration of of Overseas Chinese Identity in the 1990s, Routledge, London
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“il cosmopolitanismo ha assunto uno stato di relativa normalizzazione”.
http://www.aabo.it/sminky/paura.gif
Trovo l’articolo ricco, avvincente perché parla anche del mito, del mistero che avvolge chinatown.
A Parigi, c’è anche un piccolo “chinatown”. La cultura cinese affascina. Mi dispiace che questa bella cultura affronta un mondo troppo capitalizzato, violente. nella lingua cinese, non c’è insulto. Il vincolo nella società è diverso, più cortese: una bella eleganza.
articolo molto bello! sarebbe interessante leggerlo in rapporto agli studi di saskia sassen (che però, purtroppo, conosco a malapena) sulle città globali, le megacittà che formano una specie di rete attraverso il pianeta, avendo più relazioni une con le altre che non con il resto delle rispettive nazioni.
Vivo a Londra. China Town è vicina a Soho. Il quartiere gay della città. Due posti frequentati prevalentemente dai turisti. Non saprei neanche dove finisce l’uno e inizia l’altro…
Londra non è una città cosmopolita. Londra è un cosmo. Il cosmo. Terrestre.
P.S. Condivido l’appartamento anche con un cinese… Persona normalissima. Ordinaria.
[…] precedente articolo del ciclo Migrazioni Possibili sulla realtà della Chinatown londinese è qui.) Segnala questo articolo presso: Questo articolo è stato scritto da Maria Luisa Venuta, e […]