Etere 2: i secoli “bui” e anche no.

di Antonio Sparzani

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Dopo un inizio all’insegna della poesia, l’etere s’inoltra proteiforme nelle tenebre dei cosiddetti secoli bui, che bui non furon poi tanto, intrufolandosi negli scritti degli scienziati e dei filosofi, parole a quei tempi davvero equivalenti. Questi secoli vanno dall’ottavo al quattordicesimo, molto approssimativamente dico, perché distinguere il buio dalla luce non è agevole per nessuno, con quella retina poi così limitata che abbiamo tutti. Limitata realmente perché mentre è in grado di percepire i meravigliosi colori dell’iride, è invece del tutto cieca a tutte le altre radiazioni elettromagnetiche, infrarosso, ultravioletto, e su su fino ai raggi X, raggi gamma, e, d’altra parte, alle onde radio di tutte le frequenze possibili. Del resto pensate che spavento se la retina “vedesse” le onde radio, le UHF e tutto il resto, non vivremmo più – la televisione in diretta continua. Ma ancor più limitata metaforicamente, perché come facciamo a percepire le sconosciute latitudini dei pensieri di uomini così lontani da noi, se già facciamo così fatica a percepire quelli di chi ci sta a due passi.
Vi ricordate che l’etere, in qualche modo era la materia del cielo, fin dai tempi del vecchio macedone, Aristotele – maestro di Alessandro Magno, giova non dimenticarlo – era quell’impalpabile rugiada che riempiva della sua opalescenza tutti i cieli, qualcosa che nessuno vedeva, ma della cui esistenza ognuno era certo. Ed essendo una questione sulla quale Aristotele s’era appunto affannato, è naturale che i commentatori medioevali si siano dati pena di chiosare e precisare.

Nicole d’Oresme fu l’intellettuale prediletto da Carlo V il Saggio, re di Francia dal 1364 al 1380, che gli fece avere svariati uffici e cariche, da ultimo quella di vescovo di Lisieux, ma soprattutto gli impose di tradurre in francese, spiegandole esaurientemente, le opere più importanti di Aristotele, tra le quali appunto il De Cælo. Oresme si mise d’impegno e scrisse Le livre du ciel et du monde, opera nella quale accennò anche all’etere, non dandogli però questo nome, ma chiamandolo semplicemente “ciel”: guardate qua cosa scrisse: C’est le ciel que l’en apelle la quinte essence, qui est plus divine et plus precieuse pour ce qu’elle est plus haut que les elemens, vedete dunque, ancora la quintessenza, tanto più divina e preziosa in quanto sta più in alto degli altri elementi.

Ma il testo più interessante è forse quello di un altro dei “fisici di Parigi”, Jean Buridan, sì, Buridano – quello dell’asino che non sapeva decidersi tra due mucchi di fieno identici e morì quindi di fame – , che scrisse nelle Quaestiones super libris quattuor De caelo et mundo, aderendo all’interpretazione averroista di Aristotele, queste parole: Ritengo che esprima il pensiero di Aristotele e di Averroè, e che corrisponda a verità, l’assunto secondo il quale il cielo non possiede materia, di modo che non è una sostanza composta di materia e di forma sostanziale inerente a quella materia. Essi fondano questa conclusione sulla considerazione che il cielo non è generabile, né corruttibile, mentre tutto ciò che è dotato di materia è generabile e corruttibile, perché la materia che esiste sotto una forma è per sua natura in potenza ad altre forme e le desidera naturalmente

Vedete dove siamo arrivati: il cielo non possiede materia, un modo elegante per non aver da spiegare di che tipo di materia si trattasse, e di non dover poi spiegare come mai essa non fosse corruttibile. Il che non significa, attenzione, che l’etere non c’è, ma che la sua natura non è assimilabile a quella della materia: comincia così a manifestarsi una nuova linea teorica nell’interpretazione della natura dell’etere: questo qualche cosa che riempie i cieli comincia a rivelare una natura intermedia, inter-media: d’ora in poi svariati saranno i tentativi di utilizzare l’etere come ente mediatore tra realtà assai differenti.

Alcuni decenni prima il padre Dante, che certo non può mancare in questa medioevale carrellata, aveva scritto il Paradiso, si direbbe il luogo naturale dell’etere, anzi, dell’etera: è il canto XXVII, quello dell’invettiva dell’apostolo Pietro contro la chiesa tesa ad arricchirsi e a perseguitare (né che le chiavi che mi fuor concesse, / divenisser signaculo in vessillo / che contra battezzati combattesse; / né ch’io fossi figura di sigillo / a privilegi venduti e mendaci,), nel quale lo stesso Pietro invita Dante, una volta tornato nel mondo, ad “aprir la bocca” e denunciare tutta quella corruzione. Ma appena finita l’invettiva, Dante si dà a contemplare il panorama, e vede questo:

Sì come di vapor gelati fiocca
in giuso l’aere nostro, quando ‘l corno
de la capra del ciel col sol si tocca,
in sù vid’ io così l’etera addorno
farsi e fioccar di vapor trïunfanti
che fatto avien con noi quivi soggiorno.

Non è proprio male questa similitudine che paragona il fioccare della neve all’in giù nell’atmosfera invernale (la capra del ciel è ovviamente la costellazione del Capricorno), con il fioccare dei beati che si erano trattenuti intorno a Dante e Beatrice, all’in su, adornando così l’etera (che in altro passo del Paradiso è detto poi tondo, come conviene al suo ruotare attorno alla Terra). E del resto Dante poco dopo ascenderà anch’egli alle più alte sfere, verso l’Empireo, attirato in su, in una delle sue migliori prestazioni, dallo straordinario potere dello sguardo di Beatrice (E la virtù che lo sguardo m’indulse,/ del bel nido di Leda mi divelse, / e nel ciel velocissimo m’impulse.).

Facciamo ora un bel salto fuori da questi secoli come si vede per nulla bui, fino a Giordano Bruno, che dal 1889 – Leone XIII regnante e recalcitrante – ci guarda dall’alto, tutte le volte che ci sediamo ai tavolini di piazza Campo dei Fiori; la piazza dove fu arso il 17 febbraio di 408 anni fa. Fu lui che propose ai suoi contemporanei una assai innovativa cosmologia, che per la prima volta con tale forza annuncia un universo infinito, nel quale l’elemento chiamato etere assume un ruolo fondamentale. Nel De l’infinito, universo e mondi, scritto durante il soggiorno londinese di Bruno, nel 1584, l’etere è nominato fin dalla proemiale epistola, ma è meglio definito e spiegato nel seguito dell’opera. Ecco un passo che aiuta a capire l’ampiezza della concezione cosmologica di Bruno: è tratto dal quinto dialogo, entra nel merito della natura di un tale elemento, rivelandone aspetti che verranno in varie occasioni ripresi dalla scienza del secolo che a Bruno non fu dato di vedere. Guardate che la prosa di Bruno non è accattivante come quella di Galileo, è aspra, come il suo carattere poco pieghevole, bisogna conoscerla un po’ alla volta, con calma.

“Oltre gli quai quattro elementi che vegnono in composizion di questi, è una eterea regione, come abbiam detto, immensa, nella qual si muove, vive e vegeta il tutto. Questo è l’etere che contiene e penetra ogni cosa; il quale, in quanto che si trova dentro la composizione (in quanto, dico, si fa parte del composto), è comunmente nomato aria, quale è questo vaporoso circa l’acqui ed entro il terrestre continente, rinchiuso tra gli altissimi monti, capace di spesse nubi e tempestosi Austri ed Aquiloni. In quanto poi che è puro, e non si fa parte di composto, ma luogo e continente per cui quello si muove e discorre, si noma propriamente etere, che dal corso prende denominazione. Questo benché in sustanza sia medesimo con quello che viene essagitato entro le viscere de la terra, porta nulla di meno altra appellazione; come oltre, si chiama aria quello circostante a noi; ma, come in certo modo fia parte di noi o pur concorrente nella nostra composizione, ritrovato nel pulmone, nelle arterie ed altre cavitadi e pori, si chiama spirto. Il medesimo circa il freddo corpo si fa concreto in vapore, e circa il caldissimo astro viene attenuato, come in fiamma; la qual non è sensibile, se non gionta a corpo spesso, che vegna acceso dall’ardor intenso di quella. Di sorte che l’etere, quanto a sé e propria natura, non conosce determinata qualità, ma tutte porgiute da vicini corpi riceve, e le medesime col suo moto alla lunghezza dell’orizonte dell’efficacia di tai principii attivi trasporta.”

Vedete dunque, nella complessa concezione bruniana, che molteplicità di ruoli l’etere riveste a seconda del contesto in cui si trova, sono questi i registri che verranno in seguito ripresi e approfonditi sia sul versante più propriamente cosmologico sia su quello medico – anatomico.

Dal canto suo, poche decine d’anni più tardi, Galileo, nella Prima giornata del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, prende le mosse, come i fisici di Parigi di cui s’è detto prima, da una discussione degli argomenti impostati nella prima parte del De Caelo aristotelico, tra cui, naturalmente la questione della ‘materia del cielo’:

E perché, collocando il Copernico la Terra tra i corpi mobili del cielo, viene a farla essa ancora un globo simile a un pianeta, sarà bene che il principio delle nostre considerazioni sia l’andare esaminando quale e quanta sia la forza e l’energia dei progressi peripatetici nel dimostrare come tale assunto sia del tutto impossibile; attesoché sia necessario introdurre in natura sustanze diverse tra di loro, cioè la celeste e la elementare, quella impassibile ed immortale, questa alterabile e caduca.

La discussione occupa in vario modo gran parte della prima giornata del Dialogo, e fornisce tra l’altro spunti per argomentare su parecchie questioni di cinematica. Ma, per cominciare, l’opinione (aristotelica) di Simplicio sull’incorruttibilità della materia del cielo viene – come d’uso – ridicolizzata così:

SIMPL.: […]convengo con voi in una parte, e nell’altra dissento; convengo nel giudicar il corpo della Luna solidissimo e duro, come la Terra, anzi più assai, perché se da Aristotile noi caviamo che il cielo sia di durezza impenetrabile, e le stelle parti più dense del cielo, è ben necessario che le siano saldissime ed impenetrabilissime.
SAGR.: Che bella materia sarebbe quella del cielo per fabbricar palazzi, chi ne potesse avere, così dura e tanto trasparente!
SALV.: Anzi pessima, perché sendo, per la somma trasparenza, del tutto invisibile, non si potrebbe, senza gran pericolo di urtar negli stipiti e spezzarsi il capo, camminar per le stanze.
SAGR.: Cotesto pericolo non si correrebbe egli, se è vero, come dicono alcuni Peripatetici, che la sia intangibile; e se la non si può toccare, molto meno si potrebbe urtare.
SALV.: Di niuno sollevamento sarebbe cotesto; conciosiaché, se ben la materia celeste non può esser toccata, perché manca delle tangibili qualità, può ben ella toccare i corpi elementari; e per offenderci, tanto è che ella urti in noi, ed ancor peggio, che se noi urtassimo in lei. Ma lasciamo star questi palazzi o per dir meglio castelli in aria, e non impediamo il signor Simplicio.

Lasciamo star questi palazzi, direi ironicamente anch’io, con Galileo, che, quando si trattava di sostenere le proprie posizioni, non risparmiava ironia ad alcuno, soprattutto se, come in questo caso, le sue argomentazioni non avevano in sé una forza irresistibile. Con ben diverso spessore il problema etere sarà infatti affrontato dagli scienziati e dai medici dei due secoli successivi. Per lo che dovete però attendere la prossima puntata.

11 COMMENTS

  1. Attendo la prossima puntata – un mix raffinato di scienza, affabulazione e letteratura – grazie Antonio!

  2. ecco, leggendo questo post così ricco di spunti filosofici, cosmologici, scientifici…si viene proiettati in una dimensione eterica molto suggestiva che ci permette di raggiungere uno scorcio del paradiso di Dante, la sua lucida visione, contrapposta all’affascinante pensiero della molteplicità nell’etere di Giordano Bruno…
    molto molto interessante Antonio
    grazie

  3. devo assolutamente aggiungere questa:

    ‘Non vuoi capire che ogni Uccello che fende le vie dell’aria

    È un universo di delizie, chiuso dai tuoi cinque sensi?’

    William Blake

  4. Suggestione per suggestione… un particolare momento di passaggio da una visione dell’aere, etere, popolato di spiriti, folletti ed entità varie delicate e dispettose governabili solo dalla magia, è questa altra celebre “abiura”, in cui Prospero lascia il mago per l’uomo del Rinascimento, più solo più debole, più piccolo di fronte al tutto, ma in viaggio verso una nuova consapevolezza.

    La tempesta. W. Shakespeare
    Atto Quinto Scena I

    PROSPERO
    Elfi delle colline, dei ruscelli,
    dei tersi e placidi laghi, dei boschi;
    e voi che lungo le sabbiose rive
    su cui non lascia orma il vostro piede
    vi divertite ad inseguire il flutto
    che si ritrae, e quando rifluisce
    a scansarlo, fuggendo via da esso;
    voi, gnomi, che al chiarore della luna
    tracciate verdi cerchi d’erba amara,
    che i greggi si rifiutan di brucare;
    e voi, cui solo piace divertirsi
    a far spuntare i funghi a mezza notte,
    e che gioite quando dalle torri
    udite batter l’ora della sera,
    io fino ad oggi con il vostro aiuto
    (per deboli artigiani che voi siate),
    ho potuto abbuiare il gran meriggio,
    stanar dagli antri i riottosi venti,
    e scatenarli ovunque, in mare e in terra,
    destar di colpo strepitosa guerra
    tra il verde mare e il ceruleo cielo,
    accendere del fragoroso tuono
    le paurose fulminee saette,
    e con esse spaccar di Giove stesso
    la salda quercia, scrollar dalla base
    il monte che nel mare si protende,
    strappar dalle radici il cedro e il pino.
    Le tombe hanno svegliato, al mio comando,
    i lor dormienti, aperti i lor coperchi,
    e li han lasciati uscire,
    sì potente si dimostrò finora
    la mia magica arte.
    Ma ora all’esercizio di tale arte
    io faccio abiura, null’altro chiedendo,
    come ultimo servizio, che produrmi
    qualche istante di musica celeste
    perch’io possa raggiungere il mio scopo
    d’agire sovra i sensi di coloro
    cui questo aereo incanto è destinato;
    poi spezzerò questa mia verga magica,
    e la seppellirò ben sottoterra
    e in mare scaglierò tutti i miei libri,
    che vadano a sommergersi più in fondo
    di quanto mai sia sceso uno scandaglio.

    (Musica solenne)

    (…)

    EPILOGO
    I miei incantesimi sono finiti;
    sol mi restano ora le mie forze,
    piuttosto scarse, per la verità.

    ,\\’

  5. Che bello se ci fosse l’etere ( e non mi riferisco a quello etilico), vorrebbe dire che l’universo trasmette musica. Invece è un postaccio senza suoni, pieno di botti, vampe, risucchi che nona scolteremo mai.
    Ma insomma Dio non gioca a dadi, e questa è una fortuna, poi non ascolta Behethoven, e poi è muto. Dobbiamo rifarci a manifestazioni mediate, per credere in Lui.

  6. a le fimine, a li homini, a li tempora bui
    consiglio l’obra di sparzani
    così finalmente un po’ di luce avran
    effeffe

  7. grazie a tutti i commenti, davvero benevoli. Aggiungo che, per non appesantire il tutto ho omesso, facendomi un po’ violenza, tutte le opportune citazioni bibliografiche dei passi che ho riportato. S’intende però che chi le volesse me le può chiedere qui e sarò ben lieto di fornirle.

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Antonio Sparzani, vicentino di nascita, nato durante la guerra, ha insegnato fisica per decenni all’Università di Milano. Il suo corso si chiamava Fondamenti della fisica e gli piaceva molto propinarlo agli studenti. Convintosi definitivamente che i saperi dell’uomo non vadano divisi, cerca da anni di riunire alcuni dei numerosi pezzetti nei quali tali saperi sono stati negli ultimi secoli orribilmente divisi. Soprattutto fisica e letteratura. Con questo fine in testa ha scritto Relatività, quante storie – un percorso scientifico-letterario tra relativo e assoluto (Bollati Boringhieri 2003) e ha poi curato, con Giuliano Boccali, il volume Le virtù dell’inerzia (Bollati Boringhieri 2006). Ha curato anche due volumi del fisico Wolfgang Pauli, sempre per Bollati Boringhieri e ha poi tradotto e curato un saggio di Paul K. Feyerabend, Contro l’autonomia, pubblicato presso Mimesis. Ha curato anche il carteggio tra W. Pauli e Carl Gustav Jung, pubblicato da Moretti & Vitali nel 2016. Scrive poesie e raccontini quando non ne può fare a meno.