Tre domande sulla scrittura (a Giulio Marzaioli e Andrea Inglese) 1

(Nell’ambito di una tesi dal titolo “Dalla prosa lirica alla prosa in prosa”, discussa da Marco Inguscio presso la facoltà di Lettere moderne presso l’Università del Salento, Giulio Marzaioli ed io siamo stati invitati a rispondere a tre medesime domande relativamente alla nostra esperienza di autori.
Pubblico di seguito lo stralcio della tesi con l’intervista a Giulio Marzaioli, cui seguirà quella mia. a. i.)

INTERVISTA A GIULIO MARZAIOLI

1) La prosa in prosa è scrittura della crisi. Siete d’accordo con una simile affermazione?

“Prose en prose” è una definizione che Jean-Marie Gleize ha coniato relativamente alla propria scrittura e che vuole significare un’inclinazione della sua opera verso l’oggettività, la documentazione, il taglio dell’inquadratura, la riduzione (o l’azzeramento) della fascinazione metaforica (tracciando così un confine rispetto alla poesia in prosa).

In Italia la definizione di Gleize è stata mutuata dagli autori/redattori di GAMMM come titolo di un’antologia loro dedicata e che, in parte, raccoglie testi in prosa. Credo che né l’una né l’altra circostanza siano indicative di una crisi o che, in qualche modo, la procurino. Nel caso di Gleize la definizione veste a misura un percorso di scrittura, tra i più significativi – a mio avviso – della letteratura contemporanea, che prende le distanze dalla complicità estetizzante della poesia (o della poesia in prosa, di cui, peraltro e per certi versi, la prose en proses di Gleize può anche essere considerata un’evoluzione) e, al pari di alcuni autori di simile sensibilità (su tutti Emmanuel Hocquard), prosegue su un tracciato inizialmente delineato dall’opera di Francis Ponge.

Nell’ambito del panorama italiano, la scelta, ironicamente provocatoria, del titolo di “Prosa in prosa” talvolta è stato con una certa inerzia esteso a delineare una categoria che ovviamente non è data, ponendosi la suddetta definizione quale paradosso. Per contro, la provocazione mi pare tesa a individuare un atteggiamento che, nelle intenzioni dei redattori di GAMMM e non solo, considera la prosa – una prosa prevalentemente non narrativa – come miglior occasione di scardinamento di alcuni luoghi comuni e vincoli formali che, in poesia, difficilmente sarebbero altrettanto superabili.

Più che di crisi, quindi, in ambito italiano parlerei di apertura verso istanze diverse che, anche nella scrittura, trovano riscontro. Tali istanze muovono da un’attenzione rivolta verso scritture di altri paesi, verso modalità e dinamiche di dialogo ulteriori e maggiori rispetto a quelle possibili in un ambito esclusivamente letterario nonché, ancora, da una perdita di “referenti” interni (che siano essi intesi come pubblico o come categorie critiche). Laddove il c.d. pubblico della poesia è spesso costituito esclusivamente dai poeti stessi e allorché l’approccio alla scrittura rimane ancorato a strumenti noti, consueti (e talvolta desueti), sorge una necessità di esplorazione che certo non risulta facilmente compatibile con la chiusura del verso e delle regole sottese alla poesia tradizionalmente intesa. Ciò varrà, a maggior ragione, quando, grazie all’accessibilità delle tecnologie, appaiono illimitate le possibilità offerte ad un autore per sperimentare linguaggi diversi e diverse traiettorie di scrittura.

Naturalmente occorre avere consapevolezza del proprio percorso e del territorio in cui questo viene delineato e occorrerà osservare il massimo rigore, proprio nel momento in cui tutto sembra possibile. Qualsiasi sperimentazione è plausibile nel momento in cui è funzionale alla realizzazione di un’opera, ma senza opera, ovvero senza risultato, saremo di fronte ad un esercizio fine a se stesso (per opera, sia inteso, è da considerare anche l’esibizione della sperimentazione o dell’esercizio, purché dotata di significato).

Per quanto riguarda la mia esperienza di autore, la prosa è lentamente affiorata come forma prevalente contestualmente alla progressiva perdita di fiducia nell’adesione del verso (intendo della mia scrittura in versi) alla realtà. Considerando il paesaggio che si impone sulla soglia della scrittura, possiamo immaginare che la narrazione accompagni le possibilità di un autore fino al punto più estremo di osservazione. Qui, di fronte all’attualità di tutti gli elementi che concorrono a formare l’alterità e in prossimità all’oggetto di riferimento, intervengono la poesia e la prosa.

La differenza, per quanto mi riguarda, sta nel punto di osservazione. In poesia (rectius nella poesia intesa come genere corredato di tutti gli strumenti retorici che gli attribuiamo comunemente) la prospettiva è data dall’osservatore, che chiama il lettore ad osservare nel punto in cui vorrebbe trovarlo e per far ciò ricorre ad ogni capacità, la più ardita delle quali mira a destare meraviglia.

La prosa, non potendo vantare armi retoriche paragonabili alla poesia, non sorprende. È, casomai, il paesaggio a sorprendersi nel momento in cui formula il proprio accadimento. La prosa è in un rapporto più casuale ed indeterminato poiché il paesaggio ti guarda mentre lo stai osservando e l’annotazione dipende non già dalla propria volontà di persuasione, quanto dalla condizione o occasione della raccolta di elementi (di scrittura). In tal senso il paesaggio non è nella prosa, la prosa è il paesaggio. In forte analogia con la fotografia, la responsabilità dell’autore sta nella scelta di quel paesaggio, nell’inquadratura, nell’esposizione etc.. Si badi, tuttavia, che tale opzione non è ad esclusivo appannaggio della prosa, potendosi tranquillamente esplicare anche in una scrittura in versi spogliata dagli artifici della retorica.

Riferendo, tuttavia, del mio percorso, riscontro una maggior facilità a trasferire nella prosa i risultati delle mie osservazioni, che sempre più sono rivolte ad esperienze quotidiane di compensazione. Provo a spiegarmi meglio. Essendo interessato ad inquadrare – in diverse esperienze – le misure che nella realtà vengono adottate nel tentativo di alleggerire, sopportare, giustificare la realtà stessa, difficilmente mi troverò in presenza di un’alterazione della medesima realtà, dal momento che questa indurrebbe ad un movimento di fuori-uscita. Se esco dalla realtà non sarò attendibile nel momento in cui ne parlo. E dovendo necessariamente parlare entro i confini di una realtà condivisibile, difficilmente questa si presenta sotto forma di figura retorica. Naturalmente sarà impossibile osservare un grado zero di metaforizzazione, ma soltanto tendendo ad esso si potranno evitare i rischi che qualsiasi retorica, anche giustificata e giustificabile, comporta.

2) Dal punto di vista contenutistico in questa scrittura interessa ancora la condizione umana storico-determinata? In che modo? Quanto e cosa vi è di civile?

Se per scrittura civile intendiamo un’opera capace di svegliare le coscienze e muovere le masse, credo che con la diffusione dei mezzi di comunicazione, su tutti la rete, una realtà che sia potenzialmente soggetta ad un interesse diffuso venga molto più facilmente e velocemente veicolata da un social-network che da qualsivoglia libro. Al di là di rare eccezioni, che comunque si possono riscontrare esclusivamente nell’ambito della narrativa, è difficile che la poesia e la prosa riescano davvero a “denunciare”, così come in alcuni casi ed in altri tempi può essere accaduto.

Altrettanto è a dirsi, a mio avviso, per quanto riguarda la portata esponenziale di una scrittura. Anche se idealmente condivisibile, l’assunto che il poeta dia voce alla collettività mi pare inattuale sia rispetto al ruolo che oggi ha il poeta (e lo scrittore in genere) sia rispetto alla possibilità di perimetrare una collettività in rapporto alle proprie esigenze e ai propri valori.

Se invece per civile significhiamo, ancora sul piano del tema trattato, una scrittura che comunque sia dedicata ad aspetti prettamente sociali (o politici etc.) per fornire una prospettiva inedita degli stessi o per testimoniare la permanenza (o l’attualità) di una data questione, allora l’impegno dell’autore sarà significativo.

Per quanto riguarda il mio approccio alla scrittura, tuttavia, devo ricorrere ad una terza accezione che dall’oggetto del testo si sposti al gesto della scrittura. L’aspetto civile (o, se vogliamo azzardare, etico) di una scrittura sta, per quanto mi riguarda, nella considerazione del rapporto che si instaura tra autore, oggetto e potenziale terzo fruitore. Credo che, proprio per la diffusione dei mezzi di informazione e della rete, una delle principali responsabilità rimesse ad un autore/artista sia di condividere con il terzo una prospettiva inedita di una realtà che, per quanto già comunicata e percepita attraverso varie fonti, sempre si offre e sempre si offrirà ad uno sguardo ulteriore.

In tal senso la componente etica (o civile) non sta nell’eventuale espressione dell’ipotetico elemento emotivo che l’autore (spesso del tutto estraneo all’evento) trasferisce sul lettore scrivendo dell’evento. Così, infatti, non soltanto si entra nell’ombra del sospetto relativamente alla reale partecipazione a quell’evento, ma si pone il fruitore dell’opera in una posizione subordinata poiché, sostanzialmente, lo si fa soggiacere ad una risposta predeterminata. L’autore (l’artista) che invece intuisca e adotti come strategia un rapporto differenziato con la realtà, si potrà assumere la responsabilità di invitare il fruitore all’interno della propria strategia in modo che questa si attivi per opera di entrambe le presenze (quella dell’autore e quella del fruitore). In altri termini, non indirizzerò la ricezione altrui verso una prescelta modalità percettiva (non scriverò in modo tale che il lettore debba muovere la propria sensibilità guidato dalla scrittura), dal momento che non avrò scelto di occupare una posizione sovra-determinata. Sceglierò, invece, di adottare una prospettiva ante-posta a quella del terzo, invitandolo ad “usare” la scrittura secondo regole che andrò a condividere al momento della lettura. Ad esempio, anziché adottare una figura retorica che possa nascondere il significato sotteso ad una data espressione, sceglierò una tecnica o una formula che di quella espressione riveli ogni significato possibile. Così facendo consentirò al testo di giocare su diversi piani, tutti denunciati, lascerò libero il lettore di muoversi all’interno della scrittura e non pre-figurerò alcuna direzione prestabilita.

Naturalmente questa potrebbe apparire come misura estrema e, allo stesso tempo, aleatoria. Tuttavia, considerando il testo come invito e non come orientamento, prenderò debite distanze dalla naturale inclinazione di ciascun autore a centralizzare su sé (e da sé) il proprio sguardo. Quanto più avrò considerato il testo come invito, tanto meno incivile sarà la mia scrittura.

3) Cataldi scrive: gli scrittori d’avanguardia – (come fecero i Vociani ad esempio) – non cessano di occuparsi, in modo più o meno esplicito e diretto sia della poetica della forma (rispondendo alla domanda: come dev’essere un testo per rappresentare la situazione presente?) sia di quella che potremmo chiamare poetica della ricezione (rispondendo alla domanda: come dev’essere un testo per creare nel pubblico dei lettori un certo effetto?). Questi fattori, intervengono nella vostra scrittura, e a che grado di consapevolezza?

Per quanto riguarda una poetica della forma, in parte la risposta è assorbita nelle precedenti. Il primo grado di attualità, infatti, è da misurare rispetto alla collocazione di sé in rapporto alla grammatica della propria vita quotidiana e, conseguentemente, l’adesione ad una scelta di coerenza, ovvero di deviazione, rispetto a tale grammatica – e nel rispetto della propria collocazione – determinerà l’attualità della scrittura.

Ampliando la visuale, credo che un testo non debba necessariamente rappresentare la situazione presente e quindi, in tal senso, non mi pongo alcun problema. La questione può essere posta in altri termini. Se un testo non deve necessariamente rappresentare la situazione presente, non deve neanche, in ossequio ad una postura predeterminata, rispondere a requisiti di ricezione rispetto ad un determinato pubblico. Tuttavia il testo non può essere indifferente rispetto al terzo fruitore. Come scrivo in risposta alla precedente domanda, assume un rilievo determinante la considerazione della scrittura come invito. Tale invito non consiste nella possibilità di riconoscimento di sé nell’altrui visione (così come può avvenire, ad esempio, quando si mostrano le foto del proprio matrimonio, etc.), ma come possibilità di attivazione, come offerta di una funzione.

Un testo, in altri termini, deve avere anche una potenzialità dinamica, consentendo al lettore di attivare un meccanismo che rilanci, scarti o comunque accompagni il lettore stesso ad arricchire la propria esperienza. La possibilità (e potenzialità) di questo fattore, che potremmo definire téchne (nel Cratilo di Platone la radice di téchne viene individuata nell’espressione héxis noû, che può tradursi come “possesso della mente” o “condizione della mente”. A sua volta M. F. Ferrini, nell’introduzione allo pseudo-Aristotele della “Meccanica”, intende la téchne come un principio di mutamento), è sempre più presente nel mio approccio alla scrittura e concorre a definire sia l’impostazione formale sia l’ideazione stessa del testo. Tale ideazione investe (deve investire) l’opera nella sua progressiva definizione, sino all’ultimo stadio. In tal senso il libro si configura come uno dei vettori prescelti dell’idea che si concretizza nella scrittura (soprattutto se anche il libro è concepito come tale) e, nel rispetto della piena libertà delle idee, riveste scarsa importanza la catalogazione dell’opera (o del libro) nel momento in cui ci si relazioni non già ad un mercato della scrittura, bensì ad una comunità di pensiero.

L’autore, come l’artista, il filosofo, lo scienziato e così via arrivando – a pari livello – a creativi “ulteriori” come il cuoco, il dj o lo stilista, sarà realmente tale solo se sarà capace di produrre ulteriore curiosità e scoperta, limitandosi, altrimenti, ad un’azione riconoscitiva che, anche se superlativa, si estinguerà nello stesso perimetro in cui si è prodotta, così rivelandosi come in-azione. Insisterei, più che su una poetica della ricezione, su una politica della condivisione, che prescinde da parametri comparativi e/o economici e che si misura con criteri esponenziali e non sommatori, se è vero che ciascuna opera viene (anche) “attivata” dal fruitore e se, quindi, l’opera stessa è base di una potenza (potenzialità) soltanto nel momento in cui si relaziona all’esponente (fruitore).

 

 

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ha pubblicato uno studio di teoria del romanzo L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo (2003) e la raccolta di saggi La confusione è ancella della menzogna per l’editore digitale Quintadicopertina (2012). Ha scritto saggi di teoria e critica letteraria, due libri di prose per La Camera Verde (Prati / Pelouses, 2007 e Quando Kubrick inventò la fantascienza, 2011) e sette libri di poesia, l’ultimo dei quali, Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, è apparso in edizione italiana (Italic Pequod, 2013), francese (NOUS, 2013) e inglese (Patrician Press, 2017). Nel 2016, ha pubblicato per Ponte alle Grazie il suo primo romanzo, Parigi è un desiderio (Premio Bridge 2017). Nella collana “Autoriale”, curata da Biagio Cepollaro, è uscita Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016 (Dot.Com Press, 2017). Ha curato l’antologia del poeta francese Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008 (Metauro, 2009). È uno dei membri fondatori del blog letterario Nazione Indiana. È nel comitato di redazione di alfabeta2. È il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.