La mossa di Tito

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Sono quello che sono
di
Azra Nuhefendić

Visto che uno dei candidati alla presidenza degli Stati Uniti, Barak Ehud Obama, è stato accusato di essere musulmano [v. “The Sunday Times” -Culture International, 16 dicembre 2007], che alcuni musulmani nell’Italia settentrionale furono detenuti avendo pregato in pubblico, ho deciso che la cosa migliore per me sia di ammettere: va bene, anch’io sono una musulmana.

Come mai mi è successa una cosa del genere? E perché è capitato proprio a me? Di solito, come nei casi di malattie gravi o di tradimenti sentimentali, sono stati altri ad accorgersene per primi.

I miei genitori non mi hanno dato alcuna educazione religiosa. Nessun riferimento alla religione si è fatto né a scuola né nelle varie associazioni sportive o culturali che frequentavo. Così sono cresciuta non solo come un’atea, ma anche in una profonda ignoranza sulla storia delle religioni.

Riflettendo, potrei scavare dalla memoria due episodi dai quali si deduce che tipo di rapporto io e la mia famiglia, ma pure la maggior parte dei bosniaci, avevamo con la religione.

Il nome di mia sorella minore, Sunita, non era comune né diffuso nella Bosnia degli anni Sessanta. Né mia mamma, e neanche la madrina di mia sorella che le diede il nome, sapevano quale fosse l’origine di tale nome, né il suo significato. Ero già adulta quando ho imparato che esistono i musulmani sciiti e sunniti, e soltanto allora ho capito da dove proveniva il nome della mia sorellina.

Già adolescente, un giorno il nostro papà mi fece una domanda da un “milione di dollari”: “Quale è la differenza tra i turchi e i musulmani”? Non sapevo, naturalmente. Mi spiegò che i turchi sono una nazione, e i musulmani una religione.

Negli anni Settanta del secolo scorso, i musulmani bosniaci sono diventati una nazione, cioè Musulmani con la “M” maiuscola. Il partito comunista li ha promossi a nazione, uno dei popoli costitutivi dell’ex Jugoslavia.

Fu una mossa di Tito allo scopo di compiacere i nuovi amici della Jugoslavia, i membri del Movimento dei Non-allineati (ideato da Tito, dal presidente egiziano Nasser e da quello indiano, Nehru). Il Movimento fu una specie di contrappunto al mondo diviso in due tra l’Alleanza Atlantica e il Patto di Varsavia. La maggior parte dei membri del movimento proveniva da paesi arabi o musulmani, e per mostrare loro a che titolo anche la Jugoslavia potesse farne parte, Tito si decise e tirò fuori i musulmani del suo paese…

Una tale decisione ebbe anche uno scopo a livello interno nonché un risvolto storico. I nazionalisti, sia croati che serbi, già dal secolo XIX con i loro movimenti di risveglio nazionale, pretendevano che i musulmani bosniaci fossero o croati o serbi, ma di diversa religione. Ciò non perché stessero loro molto a cuore, ma in quanto aspiravano soprattutto al controllo dei territori in cui vivevano i musulmani: la Bosnia, appunto.

La prima volta in cui potei dichiarare la mia nazionalità, al censimento, a 18 anni, mi dichiarai proprio così come mi sentivo: jugoslava.

Nella ex Jugoslavia, e in Bosnia in particolare, si teneva rigorosamente conto di avere, in tutti i posti pubblici e in tutte le istituzioni, la rappresentanza equilibrata dei popoli e delle religioni presenti in quelle terre.

Malgrado mi fossi dichiarata come jugoslava, ogni volta quando alle autorità “serviva” una musulmana, per completare il quadro nazionale, mettevano il mio nome. Si trattava di puro opportunismo. Protestavo, ma invano. Questo dialogo tra me e le autorità non è mai stato una cosa seria né importante: in qualche modo lo Stato, le sue istituzioni, e soprattutto il partito comunista, giocavano, ma giocavo anch’io.

Talvolta questi giochi si fecero davvero assurdi. La rappresentanza proporzionale delle varie nazionalità era obbligatoria pure nei sondaggi che noi giornalisti facevamo per esempio al mercato, per sapere se la gente era contenta del prezzo delle patate; non potevamo citare solo 5 musulmani, o solo serbi, o i croati. Per non parlare delle occasioni importanti come i congressi del Partito comunista. Ovviamente non si poteva chiedere prima a una persona di che nazionalità fosse per poi procedere con la domanda del tipo “Sei soddisfatto delle ultime risoluzioni del Partito circa il prossimo piano di sviluppo quinquennale?” Noi parlavamo con la gente, ma dopo, tra di noi, nel retroscena barattavamo due serbi per un croato, oppure un musulmano per uno jugoslavo.

Ci divertivano quei giochi, ma era indispensabile avere un quadro che riflettesse precisamente la composizione nazionale della Bosnia Erzegovina.

Le tracce di questa necessità di ottenere una rappresentanza equilibrata le ho trovate anche dopo quest’ultima guerra, quando alcuni reclamavano perché tra gli accusati per i crimini contro l’umanità ci fossero maggiormente i serbi o solo i croati ecc., senza che si tenesse conto dei fatti!

Negli anni Ottanta mi sono trasferita a Belgrado. Proprio là, per la prima volta nella mia vita, mi hanno fatto capire che sono una musulmana. “Perché tu, una turca, ti sei trasferita a Belgrado?”, mi chiesero alcuni nuovi colleghi. Cercando l’appartamento, accompagnata dalla mia amica Jelena, pure lei bosniaca, ma di nazionalità serba, un proprietario ci ha sbattuto la porta in faccia quando ha sentito il mio nome: “Non affitto la casa ai turchi”.

“Che stupido”, abbiamo concluso scherzando dell’uomo che per noi era proprio suonato. Questi casi erano comunque sporadici, così che né io né i miei amici più prossimi davamo a ciò alcun peso.

Con l’ultima guerra nei Balcani, la situazione è cambiata radicalmente. La propaganda del regime nazionalista serbo contro i bosniaci musulmani fu forte, esagerata, e davvero efficace; ci chiamavano esclusivamente “turchi”, ci presentavano come i nemici peggiori, infedeli, assassini, nati per sgozzare e uccidere, “che un convertito all’islam (cioè i bosniaci) sia peggio dei turchi” prendendo le parole dell’attuale ambasciatore serbo in Vaticano, D. Tanasković. Suggerivano, come il prof. Serbo M. Jeftic, “la distruzione completa di ogni parte del corpo dei turchi” come unico modo di fare i conti con i bosniaci.

Nenad, il figlio della mia amica Jelena, aveva sei anni e un giorno, con l’orrore negli occhi, scoprì che “la madrina, la sua kuma Azra, è una turca”.

Altri episodi furono più seri: il figlio di una coppia mista, Nino, madre serba e padre musulmano bosniaco, è tornato da scuola piangendo. Terrorizzato diceva alla mamma: “Ho dovuto ammettere che sono musulmano”. Tara, figlia di un’altra coppia mista, si è rivolta alla mamma con: “Stai zitta sporca musulmana”.

Fu allora che capii come il fatto di etichettarci come “turchi” non fosse per ignoranza, bensì contenesse un preciso messaggio. Dando dei “turchi” a noi bosniaci, in realtà ci dicevano che eravamo estranei alle terre, alle case, alle città, ai campi, insomma all’Europa, che siamo “una piaga asiatica”, per citare le colorate parole di Radovan Karadžić, latitante e accusato di crimini contro l’umanità.

In quel turbolento e tragico periodo molti dei miei amici, colleghi e conoscenti volevano tornare alle radici dei loro antenati, scoprivano la religione, si facevano battezzare da adulti. L’avanguardia di un simile “movimento” furono gli ex comunisti, quelli duri, quelli che da un momento all’altro si scoprirono religiosi. È stata una religiosità da opportunisti, superficiale; coloro che fino a ieri occupavano le prime file nei congressi del Partito, ora si facevano vedere nelle varie manifestazioni religiose. Messi ben in vista, con le catenine e la croce, usavano mettere una croce lignea sopra il parabrezza dell’automobile.

Invece io non volevo cambiare. Anzi, avevo bisogno di rafforzare quella che ero; davanti alla distruzione fisica e mentale del mondo nel quale sono nata e cresciuta, io avevo bisogno di conservare me stessa; così mi difendevo dai nazionalisti, dai ladri delle nostre vite, dai criminali che hanno fatto sparire la Jugoslavia e che con il terrore hanno distrutto la Bosnia.

Una volta giunta in Italia, ho lasciato alle spalle la storia dei turchi e dei musulmani. A Trieste, dove giunsi, fui costretta a fare i conti con i pregiudizi della città nei confronti degli slavi, precisamente s’ciavi de merda, come i triestini usavano chiamare tutte le genti della ex Jugoslavia. Dei musulmani, a Trieste, non importava nulla a nessuno. Fino all’undici settembre e al rilancio dello “scontro di civiltà” (Samuel Huntington) o “scontro di ignoranza” [v. Edward W. Said: The Nation, “The Clash of Ignorance”, October 22, 2001].

Man mano che cambiava l’immagine dei musulmani nel mondo, i conoscenti, gli amici e colleghi hanno cominciato più spesso a chiedermi: “Ma tu che tipo di bosniaca sei”? A volte, sussurrando, e in confidenza girandosi intorno come se si trattasse di un segreto “sei per caso una musulmana”? Sui loro visi appariva un’espressione di empatia, proprio come si fa quando si parla con i malati gravi. Mancava soltanto che mi esprimessero le condoglianze.

Recentemente, un mio conoscente dal Medio Oriente mi ha fatto gli auguri per Il Bajram, una festa musulmana che corrisponde al Natale.

Grazie, ma io non lo festeggio. Sono atea.
Ma sei una bosniaca?, voleva assicurarsi.
Si, lo sono, ma atea.
Allora non sei una musulmana, mi disse. Non preghi e non credi in Allah, allora non sei una musulmana.
Beh?!

Ho riflettuto un po’ su quelle parole, e mi sono ricordata della zia paterna, quella che ogni sera prendeva una medicina, non importa per cosa: “Non si sa, per ogni buon conto, dovesse succedere qualcosa nel sonno”.

Beh intanto, per ogni buon conto, io ho confessato. Dovesse succedere qualcosa. Non si sa mai.

Testo pubblicato nel blog Osservatorio sui balcani, (editing Ljiljana Avirović)

18 COMMENTS

  1. Cosa vuol dire avere la Pace dentro.
    Ho poco da commentare, e molto da imparare.
    Grazie

  2. @OC
    ne touche pas à Babsi! entendu?
    effeffe
    ps
    sto per pubblicare su NI un estratto del testo che Peter Handke mi ha mandato per Sud. Non è par condicio, ma solo desiderio di raccogliere delle voci, come quella di Azra, nel gran rumore contemporaneo.

  3. @effeffe
    qui sopra viene affermato genericamente che “alcuni musulmani nell’Italia settentrionale furono detenuti avendo pregato in pubblico”.
    ora, trattandosi di articolo scritto da una giornalista, chiedo che si citino le circostanze spazio temporali di tale accadimento.
    potresti inoltrarle la mia richiesta?
    dato che ho visto spesso musulmani pregare in pubblico, rivolti presso la mecca con il loro tappetino steso per terra, completamente indisturbati, vorrei sapere quando, dove e da chi sarebbero stati arrestati i musulmani di cui sopra.

  4. Tash
    ho chiesto ad Azra di riportare nel dettaglio la notizia. credo lo farà a breve.
    effeffe

  5. dove, quando e da chi “alcuni musulmani nell’Italia settentrionale furono detenuti avendo pregato in pubblico”?

    Treviso, dicembre, 2007 nell’occasione della festa musulmana, il Bajram, quando alla comunità islamica fu negato di usare anche la sala per festeggare insieme, prenotata e pagata in anticipo,

    2. Barac Obama, o qualcun altro, musulmano o cristiano, non importa ma quello che mi ha colpito e il fatto che qualcuno oggi all’inizio del terzo millennio è accusato di essere un musulmano! Stiamo tornando agli anni 30 e 40′ del secolo scorso quando la gente era accusata, e non solo, di essere ebrei o due mila anni fa quando quelli che si convertivano al cristianesimo erano perseguitati e accusati ?
    Azra

  6. Carissimo, tocco chi cazzarola me pare. Leggiti il Langonide e poi mi dici. Lui, gli Handke e i babsidi.

  7. @oc
    a volte vorrei proprio vedere la faccia che c’è dietro a certe parole. Poi mi dico, perché, e rinsavito passo oltre.
    effeffe

  8. e comunque sia ho molti amici montenegrini
    croati, serbo bosniaci, e uno, due cuori – d’amitié- in Beograd
    effeffe

  9. a Treviso ormai può accadere di tutto.
    è come se a Treviso sia annidata una singolarità, una porta del Nulla prossimo venturo.
    Treviso serve ad abituarci alla Trevisizzazione del paese.
    Treviso è l’inizio.

  10. Questo non è un articolo contro i Serbi. Perché non esistono i popoli cattivi, ci sono solo le persone singole, buone o cattive.
    Se uno legge bene quello che ho scritto trova che parlo dei “nazionalisti serbi”. I miei migliori amici sono ancora a Belgrado. Tra di noi non c’è stata neanche una crepa.

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francesco forlani
francesco forlani
Vive a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman e Il reportage, ha pubblicato diversi libri, in francese e in italiano. Traduttore dal francese, ma anche poeta, cabarettista e performer, è stato autore e interprete di spettacoli teatrali come Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, con cui sono uscite le due antologie Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Corrispondente e reporter, ora è direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Con Andrea Inglese, Giuseppe Schillaci e Giacomo Sartori, ha fondato Le Cartel, il cui manifesto è stato pubblicato su La Revue Littéraire (Léo Scheer, novembre 2016). Conduttore radiofonico insieme a Marco Fedele del programma Cocina Clandestina, su radio GRP, come autore si definisce prepostumo. Opere pubblicate Métromorphoses, Ed. Nicolas Philippe, Parigi 2002 (diritti disponibili per l’Italia) Autoreverse, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2008 (due edizioni) Blu di Prussia, Edizioni La Camera Verde, Roma Chiunque cerca chiunque, pubblicato in proprio, 2011 Il peso del Ciao, L’Arcolaio, Forlì 2012 Parigi, senza passare dal via, Laterza, Roma-Bari 2013 (due edizioni) Note per un libretto delle assenze, Edizioni Quintadicopertina La classe, Edizioni Quintadicopertina Rosso maniero, Edizioni Quintadicopertina, 2014 Il manifesto del comunista dandy, Edizioni Miraggi, Torino 2015 (riedizione) Peli, nella collana diretta dal filosofo Lucio Saviani per Fefé Editore, Roma 2017