Per chi suona la campana
Si muore una volta sola
di
Azra Nuhefendic
Editing: Ljiljana Avirovic
“Spero di morire da innocente, come Slobodan Milošević”, ha dichiarato Vojislav Šešelj, presidente del Partito radicale serbo (“Pravda”, 9 marzo, 2008).
Ormai da cinque anni detenuto nella prigione dell’Aia, Šešelj è accusato di pulizia etnica in Bosnia e in Croazia, di uccisioni di massa, di deportazione dei civili, di torture e comportamenti disumani, di distruzioni in Croazia e in Bosnia Erzegovina.
Tali accuse che fanno venire la pelle d’oca, non hanno creato alcun problema al Partito radicale serbo. Nelle prossime elezioni parlamentari che si terranno in Serbia l’11 maggio prossimo, il partito di Šešelj è tra i favoriti. Il fatto che il loro presidente debba rispondere davanti al Tribunale Internazionale per i crimini contro l’umanità nella ex Jugoslavia, non imbarazza i suoi elettori.
Per loro Šešelj è un eroe, l’ultimo, che combatte l’ingiustizia del mondo, protegge la Serbia, anzi la “grande Serbia”, perché lui, Vojislav Šešelj, non è mai indietreggiato neanche di un millimetro dal suo programma, ovvero dalla creazione di una “grande Serbia” comprendente tutta la Bosnia Erzegovina e metà della Croazia.
Per un caso, che soltanto la vita è in grado di creare, le mie strade nel passato si sono varie volte incrociate con quelle di Šešelj.
Šešelj è nato a Sarajevo da una modesta famiglia di operai. Intelligente e tenace, ha completato la sua formazione scolastica con ottimi risultati fino a diventare assistente del professore presso la Facoltà di Scienze politiche. Era il più giovane, il più bello e il più amato dagli studenti. Il suo stile informale, la simpatia, il senso dell’umorismo, la faccia da attore hollywoodiano, tutto ciò contribuiva alla sua popolarità.
All’inizio degli anni Ottanta Šešelj aveva accusato un suo collega più giovane (pure lui serbo, tale Brane Miljuš), protetto da un importante politico bosniaco, Hamdija Pozderac, d’aver plagiato la tesi del Master. Tutto ben documentato. Si trattava di intere pagine copiate. Scoppiò un caso che cambiò per sempre la vita di Vojislav Šešelj, ma purtroppo, anche la mia.
Perché il giovane collega plagiatore non era uno qualunque. Brane Miljuš era stato presidente dei giovani comunisti, uno che aveva consegnato l’ultimo testimone a Tito, un onore che spettava soltanto ai più fedeli. A parte ciò, era un “Mr. nessuno”, un mediocre, “sbiancato”, noi dicevamo, “appena uscito dalla candeggina”.
Per difendere uno di loro, e accusare Šešelj, il partito comunista della Bosnia Erzegovina aveva organizzato una serie di conferenze, sia pubbliche che a porte chiuse. Tutto ben organizzato e con ruoli preparati anticipatamente. Ero una giovane giornalista e mi toccava seguire il caso, scrivendone sul quotidiano di Sarajevo “Oslobodjenje”. Le mie simpatie, come quelle della maggioranza degli studenti, erano dalla parte di Šešelj. Non solo perché lui aveva ragione, ma perché era uno che si era ribellato, uno che diceva ad alta voce qualcosa che non era in sintonia con la verità ufficiale.
Non è che a noi, al resto dei bosniaci, mancasse il coraggio di ribellarci. Presumo invece che la maggioranza, come me, non avesse alcun motivo per farlo: tutto andava bene, il lavoro c’era, si viaggiava, ci si divertiva, con la musica, le macchine, le vacanze all’estero, l’educazione scolastica quasi gratuita.
Il “caso Šešelj” fu un tipico processo politico montato. L’attore fu accusato di “attività controrivoluzionaria” e finì nell’infame prigione di Zenica. Giravano voci che là lo maltrattassero e che addirittura fosse stato violentato da altri prigionieri. Comunque sia andata, la verità è che dopo la prigione Vojislav Šešelj divenne un altro uomo. Da duro comunista divenne un altrettanto duro nazionalista. Si trasferì a Belgrado, dove a dargli il benvenuto furono soprattutto i nazionalisti serbi. Per loro il suo processo non era soltanto “un altro caso politico”, bensì la Bosnia Erzegovina contro i serbi.
Anch’io nel frattempo mi ero trasferita a Belgrado. Per noi bosniaci Belgrado in quei tempi era un posto magico, simbolo della liberta di parola, prima di tutto. A Belgrado la gente parlava ad alta voce, quello che noi in Bosnia Erzegovina non osavamo neppure pensare. Là, poco alla volta anch’io mi ero distesa, e avevo cominciato a giudicare i fatti diversamente, a prendere tutto con un po’ di scetticismo, oppure con un po’ più di critica.
Una volta stavamo seduti in un bar nel centro della città, quando un collega giornalista mi mise davanti al naso un pezzo di carta: era una petizione per appoggiare la richiesta di Šešelj per il diritto al lavoro e alla vita regolare. In quei tempi, uno accusato per motivi politici aveva difficoltà a trovare lavoro, nessuno osava darglielo. Per anni Šešelj visse aiutato da amici e simpatizzanti.
“Firmare qualcosa contro lo stato?” Per un attimo fui pervasa dal panico, ma mi passò per la mente quello che diceva la mamma quando doveva prendere delle decisioni difficili: ”Sì muore una volta sola”. Allora firmai la petizione per i diritti umani di Šešelj e mi sentii subito bene, orgogliosa di me stessa, del coraggio acquisito.
Sono sicura che, in qualche dossier dei servizi segreti serbi, esiste ancora oggi quella petizione con il mio nome.
Semi clandestinamente circolavano pure altri testi e lettere che Šešelj scriveva ai politici. All’inizio li leggevo, ma presto mi accorsi, e non solo io, che nella mente di quell’uomo qualcosa non funzionava bene, qualcosa non “girava” più. Era come certi uomini super intelligenti, ma che da una minuzia ti accorgi che sono un po’ fuori dai binari.
Da uno che era venuto a Belgrado “scalzo e con una borsetta di plastica” (sono le parole dell’ex primo ministro Zoran Đinđić, che accusava Šešelj di corruzione e che venne assassinato dagli anti-democratici serbi), quest’ultimo era diventato un importante uomo politico, addirittura “il preferito da Slobodan Milošević”.
Nell’aprile 1992 Šešelj, da presidente del Partito radicale serbo, aveva stilato una lista di 15 giornalisti “traditori”, con accuse completamente inventate. Sulla lista comparve anche il mio nome. L’elenco dei “traditori” venne pubblicato sulle principali testate, letto ripetutamente in tutti i notiziari radiofonici e televisivi. Una specie di “lista nera”. Molto presto tutti quelli della lista rimasero senza lavoro.
Nel corso della guerra lavoravo facendo l’interprete e traduttrice per i giornalisti stranieri. In tale veste mi sono recata nel villaggio di Hrtkovci, non lontano da Belgrado. Il 70 % degli abitanti erano croati, il 20 % ungheresi e il 10 % serbi. Ma Šešelj là ci aveva preceduto. Nel maggio del 1992 aveva stilato una lista dei croati che dovevano lasciare le proprie case e trasferirsi in Croazia. La loro unica colpa era quella di non essere serbi. In quell’occasione ci furono pure dei morti. Il terrore provocato da Šešelj e dai suoi paramilitari, rafforzò la decisione degli abitanti di andarsene in fretta e furia.
Questo fu l’inizio della sua criminale campagna di pulizia etnica. In Croazia e in Bosnia Erzegovina i cosiddetti “šešeljevci”, le unità paramilitari create da Šešelj, si distinsero per le atrocità commesse e ben presto, soltanto il sentire il loro nome, provocava tra i civili autentico terrore. Una volta Šešelj aveva esortato i suoi a cavare gli occhi ai croati con un cucchiaino arrugginito. I nazionalisti serbi invece invitavano i “šešeljevci” a dar loro man forte nei lavori sporchi.
Incontrai Šešelj per l’ultima volta nel 1994, mentre stavo facendo un’intervista per la BBC. Avevo paura e chiesi al giornalista inglese di non menzionare il mio nome nell’ufficio di Šešelj. Eravamo appena entrati quando il giornalista mi disse: “Azra, perché non ti metti qui, tra noi due?” Rimasi pietrificata. Šešelj mi diede un’occhiataccia, quella di uno che è in allerta, ma non disse nulla. In quell’occasione si comportò da signore, gentile, niente parolacce, niente attacchi di rabbia o parole insensate. “Nella sua pazzia, c’è pure una logica”, pensai.
Nella vita politica della Serbia, Vojislav Šešelj ha introdotto un comportamento poco serio, indecente, con le parolacce come regola, le maniere e linguaggio della strada. Divertiva il pubblico con il suo modo di fare da pagliaccio, un buffone, insomma. Ci lasciava sempre nel dubbio se fosse normale o pazzo. Nel suo caso, la linea di confine era molto, ma molto sottile.
Oggi, davanti al Tribunale dell’Aia è uguale come allora: parolacce, insulti, affermazioni senza fondamenti. Vojislav Šešelj sì e costituito spontaneamente nel 2003, promettendo di “distruggere l’infame Tribunale”. All’epoca dei fatti, il primo ministro serbo Zoran Đinđić aveva avvertito la Signora Carla del Ponte, ex Capo Procuratore dell’Aia che “…le sceneggiate di Šešelj avrebbero potuto creare in aula più disturbo dell’ostinazione di Milošević” (Carla del Ponte, La Caccia: io e criminali di guerra, G. Feltrinelli Editore, p. 187).
E nella stessa Serbia la popolarità di Šešelj e del suo Partito radicale non diminuiscono. I sondaggi indicano che quasi due milioni di serbi voteranno il suo partito.
Chi sono i suoi supporter? Chi è la gente che gli da fiducia? Chi sono quelli che non vedono niente di male in un personaggio che deve rispondere di crimini contro l’umanità, uno che ha causato cosi tanta sofferenza, cosi tanto male?
Una gran parte sono i profughi serbi dalla Croazia e dalla Bosnia Erzegovina. Tanti sono dovuti scappare quando la politica dei loro capi, compreso quella di Šešelj, era stata sconfitta. Tanti hanno perso la casa, la terra, il lavoro. In Serbia vivacchiano in condizioni precarie, spesso nei centri di accoglienza. Dunque, anche loro sono vittime di Šešelj, del suo nazionalismo e del terrore che provocava.
Un altro gruppo di perdenti sostiene il Partito radicale: sono gli ex militari, i membri dell’Armata popolare jugoslava (JNA), la quarta potenza militare in Europa prima dell’ultima guerra.
L’unica volta in 50 anni che dovettero impiegare i carri armati e i bombardieri, gli ex militari dell’Armata li usarono per attaccare i civili disarmati, le città indifese. Mostravano la loro forza senza eroismo per attaccare il popolo che l’aveva costruita, che l’aveva amata e l’aveva sostenuta, senza alcun motivo. Il loro disonore è abissale. C’è più onore nell’atto di perdere qualsiasi battaglia, un’intera guerra, che nel comportamento dell’Armata popolare jugoslava. Resteranno per sempre macchiati dal sangue degli innocenti.
Ci sono troppi ex militari in un Paese piccolo come lo è la Serbia di oggi. Hanno perso il lavoro, sono scomparsi i loro alti stipendi, sono finiti i privilegi d’un tempo, non ci sono più grandi e comodi appartamenti, le vacanze nei posti più belli sulla costa dalmata a un prezzo simbolico. Mai più! Ora sono persi e disorientati, e come dei drogati hanno bisogno di una dose sempre più massiccia di nazionalismo. Sognano ancora “la grande Serbia”, credono nella prospettiva di riavere il passato glorioso. E Šešelj, di tutto ciò ne offre loro quanto ne vogliono.
Cosa ne pensa Šešelj dei suoi sostenitori lo ha dichiarato pubblicamente: “Finché in Serbia ci saranno gli stupidi, non mi preoccupo per la mia carriera politica” (“Borba”, 18-19 giugno 1994).
La speranza di Šešelj di morire da innocente, non poggia sui fatti. Ci sono fin troppe prove documentarie, filmati, testimoni delle sue malefatte. Quello che spera è che gli capiti una cosa imprevista, come nel caso di Slobodan Milošević, morto prima della sentenza, perciò innocente dal punto di vista legale.
Ma per tutti e due, e per molti altri che la pensano in questo modo, vale la pena citare le parole di Dostojevskij:
Sei colpevole, perché potevi essere l’unica luce nel buio, e non lo sei stato.
Editing:Ljiljana Avirovic
Ottimo.
Come sempre, i pazzi hanno al loro seguito i disperati, gli illusi e i violenti. Per quanto riguarda la prima categoria, essi sono purtroppo le vittime (anche se non del tutto incolpevoli) di meccanismi storici molto più grandi di loro. Invece, chi cerca a tutti i costi un posto al sole spesso rimane scottato dalla propria avidità.
Un articolo che dà ribrezzo. Era una guerra atroce vicina, alla nostra porta quasi. mi rammento articoli a proposito di donne stuprate e ferite a vita, non so come vivono ora, con questa ferita nella testa e nel corpo. Poco libri parlano di questa guerra, come si era stata una ferita pronta a essere cicatrizzata.
E’ un ottima idea di dare voce a questa parte dell’europea un po’ ignorata.
Ho letto l’articolo precedentemente qui pubblicato da Azra Nuhefendic, La mossa di Tito, toccante ed autentico come questo.
Ogni volta che leggo qualcosa sulle storie balcaniche che non sia il solito articolo di cronaca di un quotidiano, rimango spiazzato, la lettura di Sappiano le mie parole di sangue è recente.
Così, torti e ragioni, sogni e illusioni, fiori e cannoni appaiono disegualmente distribuiti tra popoli e capopopoli in cerca di gloria, spazi, sangue che si sono resi protagonisti delle terribili vicende accadute alle porte degli italici territori.
A prescindere dalla regione e dagli schieramenti politici e militari in cui follia e fucili hanno sparato e a seconda del periodo e dei punti di vista di chi racconta: in ogni caso, ogni parte in causa in questa tormentata regione ha pianto i propri morti ammazzati, spesso provocati dalle bombe decollate da Aviano.
Dietro a tutte queste storie e chissà quante altre continua a fluire l’alito nero della morte, erede diretto dell’uranio impoverito dalle “missioni di pace”.
“Mostravano la loro forza senza eroismo per attaccare il popolo che l’aveva costruita”, difficile esprimere con tale potenza una mutazione storica. Ogni parola contenuta in questa frase possiede un peso specifico enorme.
Ma questo pezzo è chiaro, e ringrazio effeeffe e l’autrice per aver proposto ancora informazione sulla ex-jugoslavia.
I pazzi che “resteranno per sempre macchiati dal sangue degli innocenti” esistono e sono ben individuati ed individuabili. E non possono e non devono avere più a disposizione neanche un millimetro quadrato di spazio di manovra, né nelle aule dei tribunali, né nelle celle delle carceri. Hanno già disposto di troppo arbitrio, e per troppo tempo.
“Non era solo” recitava la didascalia a grandi caratteri della foto-fotogramma tv di Milosevic campeggiante sulla prima pagina del manifesto del 13 febbraio 2002.
Vi racconto com’è cambiato il mondo.
La seconda manifestazione – la prima fu contro il vicepresidente degli Stati Uniti, Humphrey, che veniva ricevuto in Palazzo Vecchio, e fu la prima e ultima volta che mi arrestarono, perché mi ero voluto far arrestare: era già tutto finito e io mi misi a sfottere il poliziotto che aveva suonato la carica, la portava in mano, chiedendogli, a grida, se quella tromba non era per caso angelica – a cui ho partecipato: la prima con scontri con la polizia, in piazza Duomo e davanti al consolato americano, contro la guerra in Vietman, promossa dal movimento studentesco, allora ancora una piccola élite, portava un manifesto con teschio e bandiera americana a illustrare lo slogan preso da Tacito: “Hanno fatto un deserto e lo hanno chiamato pace”.
I due oratori, ad arringare la folla, in piazza Strozzi, erano uno un santo: La Pira, l’altro un poeta: Fortini.
La parola d’ordine da LORO lanciata: GUERRA NO GUERRIGLIA SI’.
Qualche tempo dopo, quando la guerriglia aveva ormai, da noi, disegnato
la sua stella, in Colombia fecero saltare in aria il primo giudice.
La cosa ci turbò tanto, anche se pensammo: mai ci accadrà.
Secondo voi Vittorio Emanuele II aveva meno informazioni su Mussolini, di quanto ne avesse Paul von Beneckendorf und von Hindenburg su Hitler? E di quale dei due è più grande il delitto contro la storia e contro l’umanità?
Scusate, rileggo, non si sa mai: Emanuele è il III.