Bill Viola. Spettri
di Antonella Anedda
“C’erano spettri tornati sulla
terra per sentire le sue frasi…./
C’era chi tornava per sentirlo leggere il poema della vita/ della pentola sulla stufa, la brocca sul tavolo, i tulipani…”
La poesia Large red man reading di Wallace Stevens ci parla di morti che tornano per ascoltare un uomo (forse lo stesso poeta, corpulento e rosso di capelli) che legge “from the poem of life.”
Al suono della parola “poesis” ripetuta due volte “i loro (dei morti) orecchi, i loro cuori sottili, esauriti, \prendevano forma, colore…”
La lettura, meno violentemente del sangue nero e fumante che attira i morti nell’undicesimo canto dell’Odissea, – qui suscita il fantasma dell’emozione: “ciò che era loro mancato”.
Tutta l’opera di Bill Viola ruota intorno a questa mancanza. I suoi video trasformano la mimesis in phantasia (1) parlano di cose eterne: dolore, assenza, perdita, nascita, separazione. Accanto alla più alta tecnologia ci sono aria, fuoco, soprattutto acqua, suoni che plasmano lo spazio e un ritmo spesso lentissimo, volutamente inadeguato, in rivolta contro il cosiddetto tempo reale.
Presentata alla Biennale del 2007, l’istallazione Ocean without a shore sui tre altari della chiesa di san Gallo a Venezia, concretizza a distanza di anni la poesia di Stevens.
I morti che cercano di tornare dopo aver infranto una barriera d’acqua, vero Stige verticale, lo fanno accanto ai versi del poeta senegalese Birago Diop. Lo stesso titolo nasce dalle parole di un altro poeta Ibn Arabi: “Il sé è un Oceano senza sponde…non ha né inizio né fine in questo mondo e nell’altro…”
Come in Stevens i morti tornano per desiderio, trascorrono, dalla cenere del bianco e nero, al colore dell’alta definizione. Una delle immagini mostra una donna che riprendendo forma, passa dal grigio al rosso della camicetta tesa sul seno, dalla staticità allo struggimento.
“I morti, dice la poesia di Diop, non sono morti, non se ne sono mai andati”, ma il loro restare coincide con il loro mancare. Noi non li vediamo, né possiamo toccarli. I morti ci mancano proprio nel senso che ci mancano come si manca un bersaglio. Se pure esistono, i loro segnali, il loro stesso alfabeto, (come intuiva Marina Cvetaeva nel poema Versi per un nuovo anno, scritto per la morte di Rilke) non è il nostro e potremo impararlo solo là dove sono.
Meditando sulla mancanza Viola prova a dire la prossimità tra il qui e l’altrove, tra la vita e la morte. La modalità di ripresa permette uno slittamento tra le apparizioni, la tecnica è al servizio della solitudine: questi morti, tremendamente seri, non si incontrano mai, esattamente come succedeva nel dittico-video di Union (2) (Worchester Museum, galleria medioevale) dove un uomo e una donna, parzialmente nudi, inermi, si cercavano esprimendo emozioni continuamente sfasate: senza mai raggiungersi.
Dagli anni ‘90 Viola affida a degli attori (ma anche ai suoi familiari) la responsabilità di una recitazione che somiglia non tanto a un’azione quanto a un esercizio spirituale o addirittura a una confessione nel senso in cui la intende Maria Zambrano in La confessione come genere letterario: “solitudine sonora” come in san Giovanni della Croce, che spezza l’argine tra poesia e filosofia.
Questi attori confessano senza schermo, senza finzione: sono vere e proprie icone animate. Di loro non rimane impresso solo il viso, ma il corpo, anzi il viso fa corpo con il corpo. La loro nudità coincide con l’inermità, ribadisce un’incarnazione, il passaggio – teorizzato da Pavel Florenski in Porte Regali – dalla bellezza alla compassione.
In un mondo che ripudia la morte o la spettacolarizza, Viola è uno dei pochi artisti in grado di interrogarla. Chiede la nostra attenzione, anche attraverso la scomodità, proprio davanti a quel camino dei nostri tempi che è lo schermo televisivo. Penso per esempio alla difficoltà di guardare la stanza interna nella istallazione Room for St. John of the Cross ma anche alla pazienza che la lentezza con cui sono girati i video, impone.
In Viola c’è sempre una memoria di pioggia come in The Dead dei Dubliners: un corpo si disfa, scompare, resta la memoria di una voce. L’acqua è onnipresente. In Ocean without shore i morti tornano infrangendo una barriera d’acqua. In Five angels for the Millennium, cinque corpi nudi affiorano dall’acqua, l’acqua è la protagonista assoluta di The reflecting pool e di Raft, in The Sleepers i visi dei dormienti riposano in catini pieni d’acqua. Le stesse emozioni sono rappresentate in modo liquido. Sono solo alcuni esempi di una presenza costante che è in parte spiegabile con l’esperienza dell’artista che da ragazzo stava per annegare. “Il mondo sottacqua, racconta in una intervista alla BBC, mi sembrò meraviglioso, pieno di luce, di quiete, di colore. Solo in un secondo tempo quando ero già in salvo, cominciò lo spavento e – mi misi a gridare”.
Mi ha colpito la vicinananza dell’arte di Viola con l’opera della poetessa canadese, Ann Carson che all’acqua ha dedicato un testo come The Anthropology of water. L’acqua è la materia prima della sua meditazione sull’affondo della mente e del corpo. L’immagine del nuotatore accanto a quella dell’anima paragonata a alla procellaria glaciale (“the petrel”) che vola sul mare in tempesta, attraversa l’intero poema Glass in Glass, Irony and God. L’acqua è si moltiplica nei riferimenti mistici: si fa esplicita nella “Lista dei liquidi di Dio”. Noi siamo immersi nel tempo come nell’acqua, la nostra conoscenza – come nei versi di Elizabeth Bishop – è acqua in grado di unire meditazione a visione, attimo che scorre ed è già trascorso (3). La nascita è un piccolo diluvio, il nostro spazio va dalla rottura delle acque alla morte che stilla lacrime prima del nulla. “L’acqua è qualcosa che non puoi tenere”,(4) scrive Ann Carson: i sentimenti fluttuano tra il desiderio e il disamore, la delusione, la malattia mentale del padre, il dato ironico di un viaggio sentimentale in un paese povero d’acqua come la Spagna. L’acqua è legata allo scorrere via, alla perdita, a un’ inutilità archetipica:la pena delle figlie di Danao condannate a riempire di acqua dei setacci (5).
Anche noi come Odisseo, come Dante stringiamo a vuoto delle ombre. La barriera tra noi e i morti è fragile, ma – come mostrano i visi pieni di rammarico e sconforto del video veneziano- loro sanno di essere morti. Nonostante la poesia, nessun Orfeo li andrà a cercare. Forse è questo il dato più sconvolgente della installazione: la consapevolezza che i sentimenti del mondo appartengono al mondo e non resta che abbandonarli ai vivi. Per questo tutti, eccetto una ragazzina che resta sulla soglia, tornano indietro. Rabbrividiamo quando questi attori-spettri ci voltano le spalle per addentrarsi di nuovo nel buio. La loro presenza non fa che ribadire la distanza. Forse non sono mai andati via, ma nulla può cambiare la loro condizione: il nostro tempo, il nostro spazio non è più il loro. Il video dà realtà al fatto che quei corpi sono intangibili, disperatamente separati da noi.
In Tiny Deaths del 1993 le figure proiettate sui muri emergevano lentamente dal buio, continuamente sfasate tra loro, e solo molte ore dopo, per un attimo, comparivano tutte nella stessa sequenza. Ma il tempo nell’opera di Viola è imprevedibile, come nota Otto Neumaier(6).Noi non sappiamo quando le immagini sbocceranno né quando s’inceneriranno, quanto resteranno tra noi.
Negli appunti preparatori di Going Forth by Day del 2003 ispirato al Libro dei morti egiziano, Viola scrive di cercare una descrizione”obbiettiva” dello spazio dopo la morte.
Usando il video crea fantasmi, nel senso esatto del termine:gente senza carne, folla senza sangue, schiere di corpi fatti e disfatti dalla luce e dall’acqua, trasformati dal fuoco come in The Passage, smarriti nella neve come in Pneuma.
C’è un altro punto per me particolarmente coinvolgente nell’opera di Viola: il suo rapporto con l’arte, anzi con tutti quei corpi che “lastricano la storia dell’arte”. Solo alcuni nomi: Pontormo per The Greeting, il fregio del Partenone per The Path, i trittici medioevali per il Trittico di Nantes, il Cristo coronato di Spine di Bosch per Quintet. L’ambizione è quella di dare respiro al quadro e allo stesso tempo di tradurre nel video la stasi del quadro. Il riferimento di Viola però non è l’individualismo, il genio creatore occidentale, ma (anche in relazione ai suoi interessi per la mistica, da Meister Eckhart e San Giovanni della Croce al buddismo giapponese) il dissolvimento del sé, appunto la sua liquidità. Ora, il corpo nel video si muove ma è intoccabile, è reale, ma basta una luce a spegnerlo. Nella mostra per il Museo Paul Getty le figure che sembravano ferme, di fatto erano rallentate fino all’estremo. Di qui il loro tremore: colme di tempo, commoventi come la donna in Cavalcanti che fa di “claritate l’aere tremare”. Non è un caso che per la copertina del libro Dipinti e lacrime, storia di gente che ha pianto davanti a un quadro, James Elkins abbia scelto Quintet. Viola (come Mark Rothko) suscita lacrime. Se le ultime tele di Rothko sono garze imbevute di dolore, i video di Viola ne rivelano l’enigma, l’irrealtà. Contrariamente alla pittura dove il dito di carne può toccare la materia esattamente come Tommaso il costato di Cristo, nella video-art il mondo è vetro, il corpo è dietro uno schermo. Forse Viola racconta con infinite varianti un eterno noli me tangere. Chi non c’è più non può essere toccato, ciò che scompare riappare, solo sotto forme diverse, Cristo viene scambiato per un giardiniere. Forse non si tratta di un errore, forse davvero un corpo si disfa e si ricompone in un altro. La memoria mistica rintocca su quell’unica constatazione: “l’hanno portato via”. Penso a To Pray Without Ceasing: ciò che cattura è anche lo stesso tipo di ipnosi della preghiera del cuore dell’esicaismo che infatti chiedeva di pregare incessantemente. La stessa ciclicità, la stessa lentezza, il moto apparente delle immagini che comunque ricadono con inesorabilità di gocce dentro lo stesso luogo: lo schermo.Nella sua alternanza di buio, acqua, nascita e morte, l’opera, visibile solo di notte era ritmata da una voce che leggeva passaggi dal Song to myself di Walt Whitman.
Molti lavori di Viola sono essenzialmente stanze. Lo stesso video rimanda a una cella e a una finestra. In Sweet Light del 1977 il primo piano sul dettaglio dell’insetto si schiudeva sullo spazio di una camera con un uomo seduto a un tavolo davanti a una lampada accesa, ma è con Room for St. John of the Cross del 1983 che lo spazio diventa un vero e proprio elemento narrativo.
Viola costruisce una stanza nella stanza, di cui una inaccessibile. Su una delle pareti viene proiettata in bianco e nero l’immagine di una montagna innevata. Si avverte lo sforzo della ripresa, la fatica di chi deve quasi lottare con l’inerzia di un mezzo e la violenza degli elementi. La stanza interna ha una luce raccolta, pochi oggetti (natura morta). E’ immersa nel silenzio. Quella esterna ( buia) è battuta dal rombo di un vento furioso. Una voce sulla soglia – ma è appena udibile- legge i testi dalla Noche oscura. Non solo. Chi vuole vedere la stanza interna deve chinarsi, capire che per accedere anche a una scheggia, a una particella di interiorità bisogna fare i conti con i corpi: il nostro e quello altrui. Lo sforzo rende attenti: osservando ancora la stanza interna notiamo un piccolo monitor che riprende in tempo reale un leggero movimento di foglie, un fruscio di rami.
La riflessione sulla relazione fra spazi diversi di Ocean without a shore, passa anche attraverso l’immagine del vento che sferza la stanza esterna di questa istallazione. Allo stesso modo Catherine’s room, video del 2001 coniato sulla predella di Andrea di Bartolo dedicata a Santa Caterina, non è concepibile senza l’affondo in the inner life della installazione dedicata a san Giovanni. Apparentemente il video Catherine’s room con la scena finale della morte sembrerebbe più prossimo a Ocean whithout a shore. In realtà Room for St. John of the Cross dialoga soprattutto con la realtà/irrealtà dell’io, l’individualità del santo è avvolta e poi smembrata dalla natura e dalla storia. Non c’è acqua ma buio. Tutto è parziale. I suoni arrivano smorzati, imprevedibilmente, la voce che li recita va e viene. L’ascoltiamo e la perdiamo, non abbiamo nessun potere. Questo sì. Esattamente come davanti alla morte: un’acqua senza nessun approdo.
Avevo sette anni quando ho visto morire una persona giovane, che amavo. Da allora per semplice destino,mi è capitato di trovarmi vicino a chi moriva. Ogni volta l’assenza, la trasformazione del corpo in un cadavere, il vuoto, gli oggetti abbandonati, il silenzio, tutto ciò che noi vivi chiamiamo morte, non ha mai smesso quietamente, inutilmente, di ossessionarmi.
Note
1)Sophie-Isabelle Durfour, Bill Viola, Le morts, l’eau et la vidéo, in Critique, aprile, 2008
2) Union (2000)installazione nella Galleria Medioevale del Worcester Art Museum.
3)”…Cold, dark deep and absolutely clear\ the clear gray icy water…”Elizabeth Bishop, “At the Fishhouses”, in Miracolo a colazione, a cura di Abeni, Duranti, Fatica, Adelphi,2005
4)Ann Carson, “The Anthropology of Water”, in Plainwater, Knopf, 2004 pag.117.
5) Ann Carson, op cit, pag.118 Cfr.anche la coincidenza di titoli e tema del video di Viola, The Sleepers (1992) e lirica The Sleeper in Ann Carson, Glass, Irony and God, 1995
6)Otto Neumaier, “Space, Time, Video, Viola”, in The art of Bill Viola, Thames & Hudson,2004
Questo saggio è stato originariamente pubblicato su A+L. Sguardi a perdita d’occhio. I poeti leggono l’arte, numero 12 (2008). A cura di Corrado Benigni, Luciano Passoni, Mauro Zanchi
L’opera di Bill Viola è attualmente in mostra al Palazzo delle Esposizioni di Roma
Sarà questo il Tremendo?
il libro “The art of Bill Viola” c’è anche tradotto in italiano.
Bill Viola non lo sopporto.
I suoi vecchi video sembrano oggi roba di mille anni fa, d’accordo, non è colpa sua, è la tecnologia…erano in fondo le sue opere più coraggiose.
Dopo si è andato a immerdare nell’ “Eterno” nelle “Emozzioni”, nella “Storia dell’Arte”, nello “Spirituale”. Da brillante frickettone a guru tuttologo.
P.S. Ho visto varie sue interviste, come persona sembra molto più modesta e autoironica di quello che i suoi video potrebbero far credere.
Amo il post, perché non conoscevo billi Viola.
La ricchezza del testo di Antonella Anneda entra in armonia con l’argomento: la mobilità dell’acqua nella morte: il corpo morto si lascia portare alla soglia del regno dei morti/ la tremolante luce delle anime illumina il regno dei vivi.
Il mondo dei vivi è abitato delle morti. Mi sembra che si vive sempre accompagnato da un fantasma. La barriera dell’acqua è un miraggio: i morti si manifestano attraverso mille gesti del quotidiano.
Mi piace questo mondo dell’invisibile.
oh, Ibsen, l’ho letto ieri sera, in effetti ho dormito molto male :-)
è sopravvalutato.