Overbooking: Antonella Anedda

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Una delle questioni chiave della nostra letteratura va sicuramente cercata negli itinerari degli autori, nelle loro preziose e soggettive cartografie così diverse dalle bibliografie tonanti che si leggono in fondo ai cataloghi delle manifestazioni, dei festival, delle rassegne, insomma di quell’agghiacciante, spesso, fenomeno che potremo definire delle festività letterarie. Premesso che il più delle volte la letteratura non ha un bel niente da festeggiare, ci sono dei libri che quando escono, quasi presupponendo uno stare dentro, prima, da qualche parte, non possono che essere accolti con gioia, felicità, libri che si vorrebbero insomma festeggiare anche quando la voce che li dice è grave e soprattutto se quel libro ha voluto il suo tempo. C’è un passaggio nel libro di Antonella Anedda in cui rivolgendosi alla sua editrice scrive:
Domani scrivo ad Anna e le mando altri brandelli di libro. È stata molto paziente e io invece lenta come una lumaca. A volte ho scritto a memoria, chiudendo gli occhi e ricordando le strade, le cale, le acque, le case, altre volte ho scritto a poca distanza da quello che avevo visto. Non è comunque una garanzia.

Ho cominciato questa mia nota con un’indicazione geoletteraria. Molti narratori del nostro paesaggio, del paesaggio di questi anni, vengono dalla poesia. Beppe Sebaste, Tiziano Scarpa, Massimo Rizzante, Franco Arminio, Gianluca Favetto, solo per citare qualche esempio. Il contributo dei poeti alla narrativa mi sembra fondamentale e questo libro, secondo me, imprescindibile. Ho chiesto così alla casa editrice Laterza l’autorizzazione a pubblicare un estratto che ho amato molto e che, ne sono certo, amerete anche voi (effeffe)

Isolatria
Viaggio nell’arcipelago della Maddalena

di
Antonella Anedda

Cap.4. Villaggio Piras

Vento forte di maestrale in rotazione verso ovest

Oggi siamo andati a fare un bagno al Villaggio Piras. È un centro residenziale tra l’uscita del paese e l’insenatura di Spalmatore, fatto di ville, bouganville, strade curate, molte zanzare. Credo sia il primo villaggio di questo tipo nell’isola, costruito durante il boom economico e faticosamente conservato in seguito. Si arriva superando il Comando della Marina e, girando a sinistra, imboccando la strada con il segnale che recita «Panoramica». Gli edifici brulli e disordinati fanno dubitare del nome quando ecco, quasi a sorpresa nei varchi lasciati dalle case, si spalanca un panorama di acque diverse mischiate dalla luce, fatto di rocce che affiorano e rocce appiattite, grigio scuro e rosso. Tutto l’arcipelago sembra un giardino giapponese appena posato sull’acqua. Spariti nella distanza i condomini con le piscine vuote, le ringhiere scrostate, i mattoni a vista. Man mano che si sale, e le presenze umane si diradano, ci sono solo molti mari diversi moltiplicati dalle insenature. Pochi chilometri e appare la prima baia di Spalmatore, chiamata così perché essendo riparata dai venti veniva usata per calatafare le barche con il catrame. Chi non conoscesse il resto dell’isola e le spiagge di Caprera potrebbe comunque restare abbagliato. Soprattutto al mattino, quando è intatta, si può fare il bagno e prendere un caffè al bar sotto una tettoia di paglia. È uno dei rari posti con un po’ di acqua. Lo si deduce dal canneto e dai pioppi e dalle dalie nelle aiuole. L’ora perfetta di Spalmatore si ferma alle nove e mezza-dieci. La cala è tanto facile da raggiungere da diventare la meta preferita delle famiglie. Da qualche anno ci sono gli ombrelloni e i lettini, i bagni e persino gli spogliatoi.

Tra Spalmatore e quello che chiamo Spalmatore Due, con una spiaggia attrezzata per i disabili e un fondale tra i più belli dell’arcipelago, ci sono piccole, a volte minuscole, cale segrete, nascoste dalla vegetazione. Basta addentrarsi anche poco e si arriva all’acqua bassa e limpida come se tra i lecci ci fosse una fontana.

Ci si può sedere all’ombra, il tempo si azzera, il corpo è nascosto quel poco che serve a scoraggiare altri turisti. Sono cale monouso, chi arriva prima le occupa e generalmente non viene disturbato. Ho trascorso intere mattine così, a volte leggendo, il più delle volte dormendo. Un sonno interrotto solo dai bagni che avvenivano quasi per inerzia, in uno slittamento dalla terra all’acqua.

Con la macchina facciamo la rotatoria all’altezza di Spalmatore Due ed entriamo nel Villaggio. Le ville più alte hanno la vista più bella. L’insenatura ha davanti la punta sud dell’Isola di Giardinelli e a ovest, davanti, l’isola di Caprera. Le rocce da cui tuffarsi si raggiungono attraverso un sentiero che parte da un platano e finisce con un’agave. Riconosco il lentisco, il ginepro, l’erba santamaria; la mia amica Pia, che scrive di orti e di giardini, mi dice che ci sono anche piante di lantana (rinfrescante e diffusa in India), hanno colori diversi: gialle, bianche, arancio. Riconosco le campanule color latte che si chiudono di notte e che ho sempre chiamato belle di giorno.

Quando arriviamo agli scogli l’acqua è azzurro cupo. L’accesso non è difficile, qualcuno ha scostato i ricci. Metto la maschera e come ogni volta di colpo c’è silenzio, il mondo è verde, grigio chiaro per le spugne, solcato da pesci trasparenti. I ricci scalzati dalla riva sono migrati più in basso tra gli scogli sommersi e sembrano note nere sul pentagramma mobile delle correnti. Da quando ho scoperto l’uso della maschera non faccio mai il bagno senza. Mi garantisce la vista e mi accentua la sordità. Vado al largo senza sentire più le voci, affondo il viso nell’acqua, mi volto e immergo tutta la testa. Forse c’è della verità nella frase di Darwin secondo il quale i pensieri migliorano (diventano sublimi, scrive) immergendo la testa nel freddo, ma il motivo è fisico: la pressione si alza e la mente si schiarisce. So a memoria la fine della poesia di Elizabeth Bishop, un’altra delle mie preferite, intitolata At the Fishhouses. Bishop, che ammirava Darwin, mette in relazione acqua e conoscenza. Nulla di astratto, anzi legato al sapore e al tatto. Dopo aver osservato una foca che emerge dall’acqua gelata Elizabeth Bishop parla dell’acqua e della conoscenza usando lo sguardo e poi, appunto, il tatto e il sapore. L’acqua è «cold, dark, deep and absolutely clear». Appartiene al mare, visto tante volte: «I have seen it over and over, the same sea», e tanto spesso visto fluttuare con indifferenza sulle pietre. Quest’acqua però non ci è indifferente. Elizabeth Bishop si rivolge a chi legge e dice: se tu immergessi la mano, il polso ti farebbe male – «your wrist would ache» – fino a bruciare come fuoco in una metamorfosi dell’acqua, se tu l’assaggiassi ti sembrerebbe amara, poi salmastra e poi di nuovo brucerebbe come fuoco. C’è un ritmo di risacca, il fluttuare con il suo movimento è reso da un infittirsi di effe che si trattengono nelle dentali. È la nostra sete di conoscenza? È quello sconsiderato desiderio di bere che ci assale davanti all’acqua particolarmente limpida, anche se sappiamo che è salata?

Shaft (una bracciata) If you tasted it would first taste bitter: se l’assaggiassi (l’acqua) prima ti sembrerebbe amara.
Shaft (seconda bracciata) Then briny, than surely burn your tongue: poi ti brucerebbe certo la lingua.
Shaft e shaft (una bracciata dopo l’altra) It is like we imagine knowledge to be: è così che immaginiamo sia la conoscenza.
Dark, salt, clear, moving, utterly free: scura, salata, limpida, in movimento, completamente libera.
Drawn from the cold hard mouth: estratta dalla dura fredda bocca.
Of the world, derived from the rocky breasts: del mondo, scesa da seni di roccia.
Forever, flowing and drawn, and since: per sempre fluttuante e inesauribile, e finché
(sul dorso, facendo il morto) our knowledge is historical, flowing and flown: la nostra conoscenza è storica, scorre ed è trascorsa.

I versi affiorano insieme alla testa e alle braccia con una traduzione approssimativa, di servizio al mare, mentre mi immergo e risalgo non diversa dalla foca della poesia o da una delle foche, che ho visto nuotare in Irlanda nel mare vicino a Dublino e a cui ho dato anche io da mangiare.

Quando esco definitivamente dall’acqua è primo pomeriggio. Si è alzato vento, le raffiche si allontanano verso Caprera, le onde soffiano. Sono apparse le barche della scuola di vela, bianche su scafi rossi. Si vedono solo le sagome degli allievi, ma arrivano le loro voci e quelle degli istruttori. Sembra non ci sia altro da fare oggi che guardare quei due colori contro il blu, dal verde polveroso dei cespugli.

Al tramonto invece il vento cade, il braccio di mare si trasforma in lago, l’acqua si è illimpidita, rivela ogni roccia, ogni sasso, i pesci, le scie dei motoscafi. L’azzurro è diventato verde ghiaccio. Si può nuotare senza maschera, tutto è sollevato in superficie, si vede ogni particolare. Un cane si butta per seguire la padrona, due bambini siedono sul pontile con le dita dei piedi che sfiorano il mare. Il cane non abbaia, i bambini parlano piano. È una tregua: senza grida, senza strappi, acqua, bestie, adulti e bambini. L’aria è tiepida, il vento fresco ha un tintinnio di campana. Per un momento sembra che la parola cura abbia un senso e sia possibile scostare la paura, accantonare la morte.

Risaliamo il sentiero per tornare a casa. Il tempo di arrivare sul terrazzo e di voltarci. L’acqua è di nuovo scura, le onde hanno bagliori rossi. Il mare davvero è color vino. Quando scendiamo di nuovo in paese, alle otto e mezza, c’è ancora un po’ di luce, ma le candele nei ristoranti, i lumi delle case e i lampioni del lungomare sono già accesi. Ogni volta mi chiedo se, non sapendo l’ora, riusciremmo a distinguere quest’ora dall’alba. Ci riusciremmo: nel tramonto c’è un elemento di stanchezza, di accumulo, assente nella luce mattutina.

Ceno e mi addormento facilmente. Nuotare è il migliore dei sonniferi.

Trovo l’appunto di un sogno, ma chissà se di quella notte. È solo un pezzo di frase incomprensibile che dice: «Sogno l’inizio delle stelle».

Quando mi sveglio c’è una luce livida, il cielo e il mare sono color fucile. Per la prima volta provo un senso di desolazione legato al ricordo di alcune mattine simili a queste quando partivamo dal mare per andare in Continente, a scuola. Ma almeno allora sembrava chiaro da che parte fosse il paradiso: nell’isola, d’estate.

Da allora invece nessun posto mi placa. Amo sempre di più i luoghi di transito, gli alberghi e gli aeroporti, perfino le sale di attesa. Non che mi piaccia viaggiare. I giorni prima del viaggio sono inquieta e durante sono ansiosa, ma appena arrivata mi rassereno e apprezzo quello che ho. Se fa freddo il fatto di potermi scaldare, se ho sonno di dormire.
La lingua non mia, almeno all’inizio, mi culla. Essere stranieri rende il nostro linguaggio precario. Vivere in un paese non nostro costringe alla povertà ma evita le frasi scontate. Contempla l’allerta quasi continua del corpo e della mente. Parlare un’altra lingua ci spella vivi e ci scaccia proprio nell’angolo in cui pensavamo non saremmo più tornati e dove – conosciamo il terreno – ci sono sabbie mobili, smottamento, fango e la nostra voce che muore. Esistono punti della nostra vita in cui affondiamo per metà inghiottiti e agitiamo le braccia e le gambe per risalire, ma quando finalmente risaliamo con quel pugno di parole cominciamo a sopravvivere, sopravviviamo.

4 COMMENTS

  1. è una prosa molto bella, una narrazione delicata e precisa che rivela la mano del poeta: *non è così che immaginiamo la conoscenza?*
    del resto la sperimentazione empirica, con tutti i sensi, è la prima; la prima che conosciamo e forse quella più vicina alla poesia, a quel “fare” della sua radice (poiéo) che sta dentro le cose, i luoghi, le strade, la vita, da ricreare ogni volta attraverso lo sguardo, la cura, il respiro.

    consiglio di lettura accolto, Francesco, libro che sarà presto ordinato.
    grazie, nc

  2. Il paesaggio italiano si porta in sé. Rifletto verticale della luce e linea del mare. Sempre davanti.
    Un paesaggio di notte dentro, un paesaggio giorno negli occhi,sul viso e sulla pelle.
    Si sposa realtà e sogno, autobiografia e storia.

    Il paesaggio italiano è la storia del mio amore.

    Laterza è una casa editrice che mi incanta: il paesaggio non si allontana mai dall’autobiografia.

    Come scrive Antonella Anedda: in terra straniera il linguaggio è precario. Ma prende le sue prime parole nell’aria, nel mare, nel silenzio che vuole parlare.

    Grazie per il consiglio. Il desiderio di nuotare verso l’isola poesia.

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francesco forlani
Vive a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman e Il reportage, ha pubblicato diversi libri, in francese e in italiano. Traduttore dal francese, ma anche poeta, cabarettista e performer, è stato autore e interprete di spettacoli teatrali come Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, con cui sono uscite le due antologie Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Corrispondente e reporter, ora è direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Con Andrea Inglese, Giuseppe Schillaci e Giacomo Sartori, ha fondato Le Cartel, il cui manifesto è stato pubblicato su La Revue Littéraire (Léo Scheer, novembre 2016). Conduttore radiofonico insieme a Marco Fedele del programma Cocina Clandestina, su radio GRP, come autore si definisce prepostumo. Opere pubblicate Métromorphoses, Ed. Nicolas Philippe, Parigi 2002 (diritti disponibili per l’Italia) Autoreverse, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2008 (due edizioni) Blu di Prussia, Edizioni La Camera Verde, Roma Chiunque cerca chiunque, pubblicato in proprio, 2011 Il peso del Ciao, L’Arcolaio, Forlì 2012 Parigi, senza passare dal via, Laterza, Roma-Bari 2013 (due edizioni) Note per un libretto delle assenze, Edizioni Quintadicopertina La classe, Edizioni Quintadicopertina Rosso maniero, Edizioni Quintadicopertina, 2014 Il manifesto del comunista dandy, Edizioni Miraggi, Torino 2015 (riedizione) Peli, nella collana diretta dal filosofo Lucio Saviani per Fefé Editore, Roma 2017