Lo “sciopero dell’autore”: Un’iniziativa di dissenso dai governi nazionali e locali di centrodestra

Invitati a leggere nostri testi nell’ambito di una manifestazione patrocinata, tra gli altri, dal Comune di Roma, ci siamo trovati a dover svolgere una riflessione che esorbita dai margini dell’invito e da quelli di una semplice lettura di poesie.
L’attuale condizione storica, per Roma e per l’Italia, rappresenta una soluzione di continuità con il recente passato politico, per altro di già controversa lettura. È la cronaca di questi giorni a evidenziarlo: si assiste a tentativi inquietanti e inequivocabili di compressione della libertà di espressione, del diritto all’istruzione, del pluralismo politico, a un rapido e continuo impoverimento del discorso pubblico. Nonostante il fatto che alcune azioni del governo, a livello nazionale e locale, non costituiscano altro che un’accentuazione in senso negativo di prassi dei precedenti governi, anche di centrosinistra, il momento presente ci appare tuttavia uno snodo cruciale nella storia del nostro Paese, dalle potenzialità profondamente degenerative. D’altro canto, le nuove istanze di protesta e le nuove iniziative di emancipazione in atto oggi nella società italiana ci sembrano da sostenere e da affiancare in ogni modo a noi possibile.

Ci siamo chiesti se non fosse dunque raccomandabile partecipare alla rassegna portando la protesta al suo interno, attraverso una lettura muta, la lettura di testi di «impegno civile» o simili. Abbiamo concordato nel ritenere insufficienti questi mezzi, convinti come siamo che ogni iniziativa culturale pubblica che fa capo alla politica del governo e delle amministrazioni locali (come anche l’industria culturale privata che fa capo al presidente di questo stesso governo) trovi nell’accoglienza di voci dissenzienti e di denuncia – denuncia a cui non è comunque concesso travalicare certi limiti – il principale mezzo di neutralizzazione di ogni dissidenza. Da queste considerazioni, è nata infine la decisione dei cinque firmatari di praticare a partire da oggi uno “sciopero dell’autore”: di non partecipare in qualità di autori a nessuna manifestazione che rechi il patrocinio della coalizione di centrodestra – fino a sostanziali ripensamenti di questa circa il rispetto dei diritti civili costituzionalmente sanciti, in particolare nei campi dell’istruzione e del lavoro; e di non prender parte a manifestazione culturali patrocinate dal centrosinistra, nelle realtà locali in cui esso si renda colpevole di paragonabili guasti.
Dalle medesime considerazioni, nasce anche la decisione di trasformare la nostra decisione in un appello e un invito.

L’appello è rivolto ad autori e interpreti di qualunque campo: architetti, artisti visivi, donne e uomini di spettacolo e di cinema, musicisti, scrittori, saggisti delle più varie discipline, traduttori eccetera; a chiunque ritenga che la propria capacità di produzione intellettuale rappresenti la propria posizione nel mondo. Proponiamo a tutti di entrare con noi in sciopero e dare pubblico segnale di non voler partecipare, astenendosene in misura regolare o intermittente (come nella tradizione dello sciopero a singhiozzo o a scacchiera, e a seconda delle necessità di vita e delle realtà territoriali), a iniziative pubbliche patrocinate da enti nazionali e locali governati da questo centrodestra; né, dove necessiti, a manifestazioni promosse dalle più discutibili fra le amministrazioni locali di centrosinistra.

A tutti gli aderenti rivolgiamo inoltre un invito a muoversi con noi verso la seconda e indispensabile fase di quest’iniziativa. Un invito a individuare, contattare, popolare e rivitalizzare assieme i già esistenti spazi alternativi, pubblici o privati, in cui presentare libri, leggere poesie, fare musica, organizzare mostre o proiezioni ecc.; e a trovarne di nuovi, coordinandoci in una rete nazionale. Una rete che, sotto l’egida dello “sciopero dell’autore”, dovrà saper rappresentare un atteggiamento tutt’altro che aventiniano, ma di rinnovata militanza intellettuale, in chi vorrà aderirvi.

Marco Giovenale
Giulio Marzaioli
Vincenzo Ostuni
Luigi Severi
Michele Zaffarano

Con preghiera di diffusione.
Per aderire, scrivi a scioperodellautore@gmail.com
o adesioni@scioperodellautore.org
www.scioperodellautore.org

[Presentiamo in questa sede un documento elaborato nelle scorse settimane, che nella sua prima redazione ha creato malintesi che non trovavano fondamento nelle intenzioni dei cinque promotori. Questa versione accoglie inoltre preziosi suggerimenti tanto dei primi aderenti quanto di interlocutori che (ancora) non hanno aderito.]

Hanno già aderito:

Damiano Abeni
Alessandra Amitrano
Enzo Apicella
Alessandro Baldacci
Gianni Barbacetto
Simone Barillari
Roberto Bartali
Rossella Bernascone
Francesco Brignola
Donatella Brindisi
Marco Capoccetti Boccia
Pietro Cheli
Cristiano de Majo
Alessandra Di Pietro
Beppe Soundoctor Fontana
Gemma Gaetani
Vincenzo Gallico
Mario Gamba
Simone Garzella
Aldo Garzia
Aldo Giannuli
Marco Giovenale
Armando Gnisci
Emiliano Laurenzi
Tommaso Lisa
Andreina Lombardi Bom
Massimiliano Manganelli
Alessandro Mariotti
Francesco Marotta
Giulio Marzaioli
Lucio Monocrom
Alberto Nerazzini
Valentina Nicolì
Matteo Nucci
Vincenzo Ostuni
Maria Carla Ottaiano
Massimiliano Panarari
Melissa Panarello
Nunzia Penelope
Annalisa Picardi
Lorenza Pieri
Luigi Pingitore
Ferruccio Pinotti
Luciana Preden
Alessandro Raveggi
Rita Regoli
Andrea Rényi
Martina Rinaldi
Edoardo Salerno
Luigi Severi
Marco Simonelli
Paola Tavella
Francesca Valente
Francesca Vitale
Michele Zaffarano
Isabella Zani
Paolo Zanotti

240 COMMENTS

  1. Ho espresso il mio supporto a quest’iniziativa convinto che lo sciopero sia un diritto. Nell’arco di appena due giorni ho raccolto tre generi di critiche diverse che vorrei condividere, giacché penso sia il momento adatto per una riflessione sul mio/nostro ruolo.
    Mi dicono che lo sciopero dello scrittore (del poeta in particolare) ben poco possa produrre se paragonato a quello di una rockstar (e sentendo ciò non ho potuto non concordare).
    Mi dicono che si tratta di azione masochista e autodistruttiva, in quanto chi scrive non esercita un vero e proprio lavoro e quindi non avrebbe diritto a scioperare (questa critica mi ha fatto riflettere su quanto alcuni colleghi non considerino la scrittura un lavoro: sappiamo benissimo che spesso ciò non da pane, ma credo che la professionalità con cui una mansione d’intelletto viene eseguita, al di là della retribuzione spesso nulla, non sia paragonabile ad un lavoro di bricolage, ad un hobby a cui ci si dedica nel tempo libero).
    Il terzo tipo di critica che mi è capitato di incontrare è di genere più pragmatico: “Vi vengono dati spazi per gestire la cultura e voi li rifiutate, non è un po’ un autogol da diaspora di sinistra, un lasciar campo libero alla destra?”
    Io credo che uno sciopero bianco, un silenzio, ad esempio, possa lanciare un messaggio preciso, paragonabile anche a quello di tante parole.
    Ciò che non desidero è la nascita di ulteriori diaspore all’interno di un ambiente già abbastanza diviso. Credo che uno sciopero sia il sintomo di un dialogo mancato: c’è qualcuno che non ascolta e per farsi ascoltare si è costretti ad agire con lo sciopero (non violenta e democratica forma di dissenso). Tuttavia la figura professionale dell’autore è strettamente legata alla comunicazione e uno sciopero che comporti una forma di mutismo mi pare paradossale, in questo caso ed è per questo che esprimo la mia solidarietà.
    Perdonate l’elucubrazione forse non necessaria ma un conto è sentirsi dare del cretino a livello personale (il Simonelli c’è abituato), un altro è venir così definito all’interno di una categoria professionale in cui io ancora (spero niente affatto ingenuamente) credo.

  2. Caro Marco,

    grazie del commento e dell’adesione. In nessuna forma, né quella letterale dei lavoratori “veri”, né quella metaforica, scioperare vuol dire tacersi. Ed è evidente a tutti i firmatari, credo, che questa iniziativa significa soprattutto esprimersi altrove, e non, o non solo, o non soprattutto, fare silenzio. Non lasciando spazio alle destre, ma appropriandosi con forza di tutti gli spazi che non sono occupati dalle destre, e sono tanti. Anche se è il momento negativo e, come giustamente ricordi, paradossale del silenzio l’elemento di novità, se ce n’è uno.
    Altra cosa sempre più chiara a molti è che lo sciopero non è solo dei poeti, e non è nemmeno solo più degli scrittori. Nella lista degli aderenti cominciano a spuntare filmmaker, fotografi, disegnatori. Partiamo dagli scrittori ma speriamo si estenda ancora di più in altri campi. E chiediamo l’aiuto di tutti a questo fine. In alcuni di questi altri campi non è diaspora, ma è semplicemente _impossibile_ fare uno sciopero ad oltranza. Pensiamo agli attori, ai ballerini, ad es., che spesso vivono di sovvenzioni. Per loro l’adesione allo sciopero non può avvenire che secondo modalità occasionali, in considerazione delle necessità di vita, come ricordiamo in questa seconda lettera.
    Non vogliamo divisioni, non siamo interessati ad attacchi ad personam. Ma vogliamo poter esplorare liberamente una forma nuova di protesta in compagnia di chi sarà con noi, e questo è un diritto, giusto Marco?

    A presto,
    Vincenzo

    A presto,
    Vincenzo

  3. Oh yeah, it is! E’ per questo che aderisco, nella mia forma che è quella della solidarietà (in pratica non ho sovvenzioni d’alcun tipo nè inviti da poter rifiutare). Ed è ben giusto specificare appunto che non di poeti bensì di autori si tratta.
    Io comunque metto a disposizione due posti letto di casa mia per chi in futuro si troverà a passare da Firenze senza sovvenzioni per alberghi e mi impegno a cucinare per sopperire a carenza fondi per il vitto.
    E’ poco ma è tutto quello che in questo momento posso.

  4. carissimo marco, ti ringrazio del commento, chiaro e motivato (devo essermi persa la discussione se ti riferivi a questi 2 ultimi giorni :-) avevo giusto una serie simile di dubbi, più che altro stavo per chiedere, molto grossolanamente: ma voi pensate veramente che gliene freghi qualcosa a qualcuno di questi scrittori, se tacciono o partecipano, se fanno baccano o tutto a un tratto zittiscono, qualcuno sentirà forse la loro mancanza o faranno piuttosto un favore a tutti quegli altri, o perderanno piuttosto l’unico canale pubblico per far “sentire” il proprio dissenso?? ( e mi auguro che non me ne vogliano, perché trattasi di alcuni tra i miei preferiti)
    ma ciò che più desideravo mentre m’interrogavo era che qualcuno mi convincesse del contrario, il tuo commento e quello di Ostuni procedono proprio in questa direzione. Vi ringrazio.

  5. Questo sciopero mi sembra paradossale e inutile.
    Paradossale, come ha messo in evidenza Marco Simonelli nel suo commento pubblicato il 1° dicembre alle 10:00, perché fa esattamente il gioco di chi si vuol contestare: la destra vuol far tacere i produttori di cultura ed essi come dovrebbero rispondere «per protesta»? Tacendo?!
    Inutile, perché l’invito di Vincenzo Ostuni a esprimersi altrove rispetto ai luoghi messi a disposizione dalle istituzioni controllate politicamente dalla destra e da una sinistra a essa complice… è esattamente quello che già succede oggi.

    Una iniziativa (non l’unica possibile – solo la prima che mi viene in mente) da farsi potrebbe essere invece quella di inflazionare di creatività i luoghi messi a disposizione dalla destra.
    Perché da un lato è ciò che la destra teme, e infatti uno come Berlusconi vi risponde con gli editti bulgari il cui obiettivo è togliere voce a certi produttori di cultura.
    E perché dall’altro lato una Vladimir Luxuria che vince l’Isola (ovvero che sta sugli schermi tv per tutte le puntate della trasmissione) produce più dibattiti, o strilli se vogliamo, di parecchi gay pride.

  6. Caro Tedoldi,

    come dimostrano i fatti, non è esatto che la destra voglia mettere a tacere. Riserva questo trattamente solo a una piccola minoranza, e solo in televisione. Per lo più, adesso la destra preferisce che tutti parlino entro le barriere – simboliche, politiche – da loro stabilite, esprimendo anche contenuti progressivi o rivoluzionari o di denuncia: ma neutralizzandoli, come scriviamo nella lettera, con il solo fatto di accoglierli. Chi porta quei contenuti, poi, non coglie la dinamica; e con la propria sola presenza conesta il sistema di distribuzione e ammansimento della cultura praticato dalle destre.

    E’ vero che tutti noi andiamo già oggi (vengo così all'”inutile”) in altri luoghi. Ma l’elemento di novità, appunto, è andare _solo_ in altri luoghi. Oppure, per chi non può materialmente permetterselo, andare nei luoghi delle destre solo “a singhiozzo”, o segnalando intermittentemente, ma udibilmente, una presa di distanza. Le forme di protesta e organizzazione che lo “sciopero dell’autore” permette sono tante, e non possono e non devono coincidere, lo ripeto, con il momento negativo che pure ne è parte ineludibile.

    Vincenzo

  7. Rimango perplesso. Per me scrivere vuol dire delinquere, destabilizzare. Portare la parola ovunque sia possibile. Non c’è potere che possa spegnere, ammansire o neutralizzare la forza della letteratura. Pensare altrimenti significa negarle questa forza. Mi sembra un autogoal.

  8. Caro Carlo,

    delinquere e destabilizzare, come? Stando alle reazioni a questo “sciopero”, mi sembra molto più destabilizzante di qualsiasi contenuto. Non sono così ottimista come te sull’impossibilità di ammansire la letteratura. Quando non si ammansisce da sé, che già avviene di rado, ci pensa il grande equalizzatore della distribuzione culturale. Quest’immagine dell’autogol torna spesso nelle posizioni avverse. Il contrario dell’autogol è il gol. A chi “segna” la letteratura? Allo stato delle cose?

    Approfitto per ringraziare i nuovi iscritti di stamattina e Andrea Inglese e la redazione, che ci hanno ospitato. E spero che i redattori vogliano dire la loro.

    Vincenzo

  9. Cito per promemoria dall’esemplare “chi siamo” di nazione indiana:

    Nella cultura italiana vige la pratica dello scambio di favori. Ci impegniamo a non accettare nessun clientelismo. Non solo i do ut des immediati, ma anche le soggezioni, gli atteggiamenti reverenziali in vista di futuri tornaconti o per timore di essere esclusi o danneggiati dai “padrini della cultura”: boss grandi e piccoli del giornalismo e dell’editoria, amministratori pubblici, funzionari, giurie di premi, organizzatori di eventi ecc…

    Attenzione, sempre, al “timore di essere esclusi o danneggiati”. Ci stiamo rendendo conto in questi giorni, parlando con tante persone, di quanto – quanto! – sia diffuso, anche tra i migliori.

  10. Ecco, io mi sono limitato a segnalare le perplessità altrui che avevo raccolto. Non sempre ho la risposta pronta (anzi, quasi mai), necessito di rifletterci il più possibile. Ciò che non mi aspettavo e che mi sorprende è appunto una presa di posizione repentina quanto opposta di molti colleghi. Mi è venuto però spontaneo dare la mia solidarietà: le mie perplessità semmai sono relative all’atto pratico, alle modalità di partecipazione con cui io come individuo Marco Simonelli posso contribuire.
    E’ logico avere perplessità, anzi, quasi auspicabile visto che si tratta di menti abituate alla critica delle cose. Ed è pur vero che non solo di scrittura si tratta, ma si mette in primo piano il concetto di “autore”.
    C’è una parte di me che vede questo sciopero come un’azione creativa di dissenso mentre un’altra lo inquadra più politicamente che creativamente.
    Credo però che, in qualsiasi modo la si possa pensare in merito, sia necessario dalle varie parti mantenere attiva una dialettica che non si limiti all’opinione; in questo modo perlomeno, credo che un buon punto possa essere raggiunto: quello della consapevolezza di un disagio. Ci sono delle persone che lo sentono fortemente. Più che aderire o meno all’iniziativa credo sia una resposanbilità comune quella di interessarsi al disagio altrui, soprattutto di persone che svolgono un lavoro molto simile al nostro. Non ne faccio un discorso politico in questo caso ma umano.
    Credo che Luxuria perlomeno ascolterebbe.

  11. Diro’ la mia.
    Le persone che hanno promosso questa iniziativa non sono solo amici, ma anche persone che stimo. Nell’ambiente letterario e, piu’ in generale, della cultura, mi auguro che un’iniziativa del genere riesca quantomeno a suscitare riflessioni e analisi, oltre che mere prese di posizioni pro o contro. E per questo motivo che sono convinto dell’importanza di ospitare questo appello su NI, per dare ad esso la maggiore pubblicità possibile.

    Su un punto nodale pero’ non sono d’accordo. Sullo “sciopero dell’autore”. Non mi dilungo a spiegare perchè, in quanto non è mia intenzione convincere qualcuno dell’inutilità di questa iniziativa. Per me non è inutile, ma ora come ora insufficiente quanto a strumenti e obiettivi. Ma io spero anche che si sia solo all’inizio di un percorso.

    Come autore, nei confronti delle istituzioni pubbliche, sono quasi inesistente. Sono stato invitato, in Italia, a 5 festival da quando sono presente come poeta nell’ambiente (dal 1998). In compenso, da un paio di anni a Milano, amministrazione di centro destra, grazie alla fiducia di Giancarlo Majorino ho avuto alla possibilità di organizzare sei o sette incontri, presentando scrittori e poeti che in genere non vengono a leggere a milano, o sono poco conosciuti, ecc.

    Sono pronto a rinunciare a questo tipo di “lavoro” (non retrbuito par altro, salvo rimborso spese di viaggio), per partecipare a progetti alternativi specifici. Se si tratta di mettere dell’energia per far vivere altre forme d’arte, scrittura e pensiero sono pronto. Quindi mi auguro che al più presto emerga da questa discussione e confronto, da questa mobilitazione, una fase progettuale precisa.

  12. Caro Vincenzo, per il momento mi limito a dirti che ho espresso un’opinione non opportunista. L’atteggiamento reverenziale infatti non fa per me, e in quanto ai futuri tornaconti o al timore di escluso o danneggiato dai “padrini della cultura” mi limito a sorridere. Purtroppo mi manca ora il tempo per ritornare sul problema, sicuramente lo farò appena possibile.

  13. Caro Carlo,

    non mi riferivo ovviamente a te. Né ad alcuno che abbia preso parte a questa discussione finora

    V

  14. Siamo tutti colpevoli. Ognuno di noi, con i suoi comportamenti, alimenta lo stesso mostro che combatte. È la natura stessa della nostra esistenza: in fondo, non possiamo che stare dentro una condizione che ci spinge al compromesso, ratificando – magari con fastidio, ma ratificando – l’attuale ordine fondato sull’incultura. Potremmo fare diversamente? Proviamo a ipotizzare una risposta affermativa, nell’ottica proposta da questo proclama. Vengo invitato a un festival o rassegna patrocinato da una amministrazione di centro-destra (praticamente tutti gli spazi del Nord Italia!). Anziché trattare sul cachet, firmare il contratto e partecipare, spedisco una lettera in cui spiego il mio rifiuto. L’organizzazione dell’incontro, che non è legata al centro-destra, ma che appunto ne riceve il patrocinio (nella forma, ad esempio, della stampa dei manifesti e dei pieghevoli di presentazione), se la lega al dito e mai più mi inviterà; e il direttore artistico, poniamo un noto critico “di sinistra”, comincia a ostracizzare il mio lavoro; e gli altri invitati, anch’essi “di sinistra”, m’irridono e segnano nel libro nero il mio nome. Insomma, aderendo allo sciopero, l’unica vittima, l’unico cioè a venire penalizzato, sarei io stesso, e non già la cultura di destra (o dell’a-sinistra, che le è complementare). Quanti se lo possono permettere? Forse solo all’eremita è consentito porsi al di là della complicità con questo sistema di potere. Agli altri, se dotati di sensibilità o etica “altra” da quello stesso sistema, non resta che assumere in se stessi quella contraddizione e farla diventare produttiva, ad esempio praticando lo sciopero all’interno della propria opera, cancellando quanto in essa conserva tracce della lingua dominante. Certo, anche in questo caso ci si auto-esclude, perché indigesti al gusto pubblico, però almeno ci si arrende non arrendendosi … Accetto l’invito, mi presento al festival e dico, nei modi miei propri, un pensiero che è al di là dell’ordinato e belante consumo. Tale scelta, proprio in quanto consapevole della contraddizione, attribuisce valore all’opera, più che al comportamento, anche se si porta dietro il fardello di un’altra e più destrutturante consapevolezza: solo i comportamenti possono cambiare una situazione. Ma allora, forse, ne deduco io, è il comportamento dello “sciopero dell’autore” a essere inadeguato. Se uccide me e la mia stessa possibilità di essere autore, e non intacca neppure minimamente l’oggetto del suo odio (il festival, tanto, un altro che partecipa lo trova lo stesso), allora lo “sciopero dell’autore” è velleitario e incapace di misurarsi con lo stato delle cose: è “estremistico” (in senso leniniano di infantile). Anche perché, per essere coerenti fino in fondo, lo sciopero andrebbe dichiarato non soltanto astenendosi dal partecipare “a iniziative pubbliche patrocinate etc.”, ma anche astenendosi dal pubblicare in case editrici, siti-blog, riviste o in altri spazi che legittimano l’attuale non-cultura. Davvero, chi se lo può permettere? Quanti di voi rifiuterebbero di pubblicare per Einaudi?

    La ruota gira; come fermarla? Semplicemente prendendo atto che per l’immediato non c’è alcuna possibilità di farlo. In questo contesto, la dissociazione va agita dentro l’opera. Disorientare la percezione, indifferenti alla ruota che gira e con in più la coscienza che la nostra storicità ci impone la militanza FUORI dal nostro essere autori, dentro l’emergenza quotidiana: e qui non conta se si è autori o operai, conta solo esserci …

    ng

  15. Caro Andrea,

    grazie per aver scritto. Mi piacerebbe che ti dilungassi, invece; mi auguro che lo farai, se non qui, in altra sede. Il punto fondamentale è: il progetto preciso. Qui a Roma stiamo per organizzare almeno due incontri di lettura: uno in Aula I di Lettere occupata, e uno al Rialto Sant’Ambrogio a rischio sgombero. Certo né io né gli altri firmatari abbiamo le forze per organizzare alcunché a Milano da soli. Dovrebbero pensarci i milanesi aderenti, e già ce n’è qualcuno. E magari tu.
    Con Raos e te si accennava a questa idea del festival di poesia “indy”. Sarebbe splendido, e magari qualche amministrazione più amica che ce lo ospita la troviamo. E la troviamo più facilmente se facciamo rumore. E facciamo più rumore se aderiamo in tanti. (E molti degli aderenti, lo avrai visto, contano molto più di te e me, nei numeri della cultura italiana). E quindi, così la vedo io, bisogna prima aderire allo sciopero per poi trovare altri luoghi. (Lo sciopero, insisto, è il momento caratterizzante, anche se preparatorio e insufficiente). Luoghi dove scioperare creativamente, per così dire. E magari anche con qualche soldo “amico”, e un minimo di budget per organizzare cose egregie – di cui sono stato felice ospite – come quelle della Casa della Poesia milanese. E’ che a noi sembra che da allora le cose siano peggiorate e che si rendano necessari azioni di rottura.
    V.

  16. In un paese, forse in un mondo, in cui tutto è «destra».
    In un’epoca in cui la parola «sinistra» è alla ricerca disperata di significati, possibilmente diversi e diversamente propulsivi rispetto ai significati assunti nello scorso secolo.
    In una città in cui l’amministrazione precedente si auto-definiva «di sinistra», senza peraltro chiarire il significato di tale definizione, ma si comportava come la destra più lurida e piccina.
    In questo quadro qualcuno – di sinistra credendosi, ma non chiarendo cosa questa parola tuttore politicamente significherebbe – si mobilita per tacersi.
    Invece di mobilitarsi per parlare.
    Invece di aprirsi l’accesso a quanto più spazio possibile.
    Invece di domandarsi magari cosa abbia senso oggi dire in poesia e a chi.
    Invece di agire e fare, invece di esserci.
    Invece di marcare una presenza, alla faccia di.
    Decide di tacere.
    Per non aderire, per non confondersi, per additare.
    Le masse, accorse alla promessa di poesia, se ne tornano meste alle case, in crisi di astinenza lirica.
    Motivo per cui domani di sicuro si solleveranno contro l’odiato oppressore.
    Sorpresa.
    Sconcerto.

  17. Caro Tashtego,
    mi trovo a formulare lo stesso suggerimento già espresso in altra occasione vari mesi addietro, ovvero di leggere attentamente il testo pubblicato da NI. Al di là di legittime differenze di opinione, tutte le eccezioni sollevate trovano risposta nello stesso. Nessuno ritiene di dover tacere, piuttosto di dire altrove quanto si ritiene di dover dire. E se mai un’iniziativa di questo tipo facesse riflettere sulla gestione di molti spazi di cultura, sia nel corso delle precedenti amministrazioni che in quella attuale, ben venga.

  18. Caro ng,

    sarò francamente aggressivo: sono contento che tu abbia postato quella che considero una summa, inimitabile per concisione ed esemplarità, della pavidità dell’operatore intellettuale italiano medio. “Siamo dentro il compromesso”, “riconvertiamolo creativamente”, “l’unica vittima sarei io stesso”, “il critico di sinistra mi ostracizzerà” ecc. Penso sia evidente a molti che leggeranno che essere come te è un serio problema. essere come te è IL problema della classe intellettuale italiana. Ma davvero – dico a chiunque legga – davvero siamo messi così? Davvero cerchiamo di rigirarci in questo modo la frittata della nostra pusillanimità? Caro ng, sei un perfetto paradigma negativo. Ti ringrazio di esserti offerto in pasto con questo candore.
    Ti ringrazio davvero. Perché trovo in te una caratteristica, dico sul serio, che mi ti fa ammirare. Trovo in te il coraggio e, appunto, il candore di ammettere in pieno e senza infingimenti la forma estrema di patologia intellettuale di cui sei vittima. Questo forse è un primo passo per la guarigione. Mi auguro davvero, di cuore, che tu voglia aderire.

    Vincenzo

  19. Tashtego,

    grazie, mi sono divertito. E’ ovvio, ARIPETO in coro con Giulio, e in consonanza con la lettera che abbiamo cofirmato: è ovvio che sciopero ora da quelle kermesse per proporre incontri in luoghi diversi. Verrai alle nostre letture all’università occupata, nei centri sociali in via di sgombero? Verrai ad ascoltare in manifestazioni organizzate da giunte politiche più accettabili?

    Vincenzo

  20. Caro Vincenzo,
    se ti fossi preso la briga di curiosare nel link del mio nome, avresti magari scoperto che io sono anni che pratico la mia auto-esclusione militante da ogni ambito istituzionale, senza però smettere di fare “altro” … Lo sciopero lo pratico tutti i giorni, per così dire, e a mie spese. Capita poi, in certe situazioni, di scendere a compromessi. A te davvero non capita? Certo, tu vivi coltivando in cortile barbabietole e non frequenti quei ricettacoli di cultura negativa quali sono i supermercati, e certamente indossi abiti costruiti con scarti di altri abiti recuperati non certo entrando in qualsiasi negozio, e quindi davvero non partecipi al mantenimento della società attuale; e sono anche convinto che tu non acquisti nessun libro di poesia o saggistica che non sia auto-prodotto, perché altrimenti anche tu rientreresti nella maschera dell’operatore intellettuale medio che tanto aborrisci … E poi: tu stesso ai detto, nel commento delle 10,26, che “agli attori” … No, non ti sei proprio preso la briga di capire chi fosse il tuo interlocutore … Pazienza …

    ng

  21. @vincenzo
    naturalmente non verrò a nessuna delle iniziative da te elencate.
    non lo farei in nessun caso, ma qui non è in discussione il mio comportamento.
    il quadro sconsolante della realtà di cui tutti facciamo parte, mi impedisce di considerare politicamente importante la vostra iniziativa.
    come molte altre, comprese le lotte studentesche/professorali universitarie.
    ripeto: oggi l’unica cosa importante da fare è discutere e interrogarsi sull’idea stessa di sinistra e sul suo futuro, sui suoi modelli, sulle rifondazioni comunistiche, eccetera.
    per il resto: quando disponi solo di una nicchia scavata in una nicchia ricavata in un’altra nicchia, se una cosa la fai o non la fai è quasi lo stesso.
    ho messo il “quasi” per un eccesso di scrupolo.
    perché per parlare di politica occorre necessariamente tacere come poeti?

  22. sono d’accordo con ng, tashtego, cannella e tedoldi. il rischio che le nostre parole siano ipotecate semanticamente dalla cornice che le ospita è reale e va tenuto in conto, ma tacere non è una soluzione.

  23. potrei quotare il commento di andrea inglese senza, quasi, modifiche. sia per quanto riguarda la stima (estrema) che provo per i promotori dell’iniziativa sia per quanto riguarda la posizione di perplessità nei confronti dell’iniziativa stessa. per conto mio, però, almeno una delle ragioni di questa perplessità vorrei esporla ed è che questo sciopero mi sembra finisca per prendere una dimensione identitaria, di appartenenza, a tratti anche moralistica (come si vede dalla risposta a gambula) che non mi sembra efficace rispetto alla questione che si pone e, anche nel breve termine, mi sembra politicamente debole. è sicuramente il caso di discutere sul nostro ruolo in questo frangente (come anche in quello più lungo degli ultimi anni e, soprattutto, dei prossimi) ma in un modo più ampio di questo e non facendo una separazione tra i puri e gli impuri (scusa vincenzo ma, in una discussione come questa, termini come “pavidità”, “pusillanimità” e “patologia intellettuale” non dovrebbero proprio essere usati).

  24. Riprendo la questione, visto che Vincenzo mi ha sollecitato. Ma disco subito una cosa. Vedo purtroppo già innescarsi i malintesi. Considerare Nevio Gambula “il problema” della classe intellettuale italiana è un grosso equivoco. Allora stiamo attenti su una cosa almeno. Un amico che ha partecipato all’iniziativa dello sciopera, mi ha detto: “Cosi almeno ci contiamo.” Allora se questa iniziativa serve per dare patenti di impegnato o menefreghista, contestatore o trasformista, mi sembra davvero troppo poco. Ognuno ha una sua biografia intellettuale e di cittadino che già esiste. Non dimentichiamolo. Se qualcuno vuole contarmi, cominci da quella e non da una firma posta sotto questo o quell’appello. Questo lo dico proprio per evitarci malintesi.

    Perchè non condivido lo sciopero d’autore.
    Lo sciopero non è l’espressione di un principio, è uno strumento di lotta – che puo’ avere una valenza politica anche ampia – ma in vista di un obiettivo specifico (che si possa chiaramente valutare se è stato raggiunto o meno).
    Qui non vedo un obiettivo specifico.
    Lo sciopero lo fa chi è salariato, chi ha un legame con il datore di lavoro. Io come autore non sono salariato (non ho contratti, posso al massimo ricevere un rimborso spese quando va bene). Umberto Eco e Baricco, lo sono. Facciano loro lo sciopero, e io daro’ sostegno e pubblicità alla loro azione.
    Io come lavoratore della scuola sciopero, e infatti mi viene trattenuto lo stipendio. Il mio sciopero non solo provoca una danno preciso al mio datore di lavoro, ma anche un costo per me.
    Le iniziative alternative.
    E’ da anni che in prima persona le promuovo; da solo e con altri. Ho partecipato a serate in centri sociali cosi come a letture pubbliche in normali librerie e di rado in festival patrocinati da qualche istituzione. Non vedo nessuna discontinuità oggi con quello che ho fatto fino a ieri.

    Arriviamo al punto per me fondamentale. Ponge diceva: “io scrivo per la Repubblica, la mia scrittura è una lotta per i valori della Repubblica”. Come scrittore ci ho messo quasi vent’anni a capire cosa Ponge vuole dire. Ora che l’ho capito, non voglio scordarmelo subito.
    Ne ho avuta la controprova come insegnante al liceo. Il conservatorismo estetico dei ragazzi è una fondamentala mancanza di autonomia, è la rinuncia all’autonomia, al compiere un’esperienza che li ponga come soggetti-lettori-spettatori attivi e non solo passivi.
    Ora, il regime economico attuale già contribuisce a mettere la mia attività di scrittore ai margini del mercato culturale, il luogo dove si gioca nell’immediato l’esistenza della letteratura come dell’arte. Questo non mi impedisce di continuare il mio percorso. In alcuni paesi, pero’, la scrittura è limitata dalla CENSURA che interviene per far tacere davvero gli scrittori, per impedire la circolazione delle opere, ecc. E la censura non si esercita solo su certi tipi di opere, per ragioni contenutistiche e tematiche. Questo ormai dovrebbe essere chiaro a tutti.
    Ebbene in Italia, per ora, per quanto mi riguarda, non ho incontrato questo tipo di censura. Non saro’ quindi io a censurarmi, o a censurare autori che voglio far conoscere in uno spazio pubblico.

  25. Ecco, a me sembra, dopo aver letto questo scambio di battute che comunque la situazione si stia facendo più chiara.
    Secondo me il malinteso nasce dal nome dell’iniziativa.
    Spaventa, forse.
    Di fondo vedo più d’un punto in comune però.
    Dove trovo dettagli sulle iniziative di Roma?
    Qui secondo me sarebbe necessaria un’assemblea.

  26. Caro Gherardo,
    al di là dello scambio in rete con Vincenzo, sul quale se vorrà potrà intervenire lui stesso, non credo che nella lettera (che è l’espressione delle opinioni condivise da chi ha scritto o ha aderito; commentare i commenti è uno dei rischi di NI e quindi ulteriore rischio è considerare i commenti alla stregua della lettera) si manifesti una volontà identitaria o di appartenenza. L’elemento fondamentale, io credo, è manifestare un segnale di discontinuità rispetto ad una serie di dinamiche attuate da alcuni esponenti di questo governo, così come del precedente (anche se questo governo sta brillando per platealità e gravità di azione). Il segnale, cui vorrebbe seguire una pratica costruttiva, è tale in quanto può portare anche altri – non firmatari o aderenti, ma non per questo in linea con le suddette dinamiche, ci mancherebbe – a esporre le proprie ragioni e a dialogare su vari punti. Ma, quantomeno, sarà servito a porre alcune questioni in rilievo. E sono d’accordo con Andrea (Inglese) quando scrive che se fossero Baricco o Eco a promuovere iniziative di questo tipo la cosa avrebbe un diverso effetto, ma, forse è un caso, non lo fanno. E forse è un caso che di fronte a vari episodi degli ultimi tempi (da Gelli conduttore televisivo a Cossiga con le sue interviste, dall’episodio di Piazza Navona all’assalto notturno alla RAI) chi ha molto più peso mediatico di noi non si sia più di tanto espresso. Non si tratta di episodi di censura, ma mi sembrano altrettanto gravi. E, a questo proposito, non è espressa alcuna intenzione di auto-censura nella lettera, bensì semplicemente la volontà di non accogliere eventuali inviti (dubito che ne verrebbero, a questo punto) a prendere parte in qualità di autori ad eventi promossi da enti compromessi con questa amministrazione o con altre di altro colore altrettanto discutibili. Se poi l’amministrazione cambia le dinamiche e/o i provvedimenti attuati mutano indirizzo (ed è scritto nella lettera, cui rimando per l’esatta interpretazione delle intenzioni), lo sciopero perde la propria ragione di esistere, dal momento che tutti “scriviamo per la Repubblica”, ma anche chi sciopera, in qualsiasi forma, non sciopera contro la Repubblica, bensì eventualmente contro chi governa la Repubblica. Detto questo, il confronto è assolutamente aperto e la costruzione di un dissenso “non-inutile” deve sicuramente passare attraverso il dialogo con chiunque voglia affrontarlo, che sia o meno d’accordo con questa iniziativa. Insomma, non “conta contarci”, ma provare ad assumerci una responsabilità ulteriore individuale o collettiva da declinare nelle più varie possibilità e misure.

  27. Verissimo, a mio avviso, che “il momento presente ci appare tuttavia (come) uno snodo cruciale nella storia del nostro Paese, dalle potenzialità profondamente degenerative”, per cui bisogna (o bisognerebbe) che l’intellettuale, l’artista esprima la sua dissidenza (quando lo è, dissidente intendo). Ma la soluzione proposta mi pare ambigua, e poco producente. E non già per l’alternativa parlare (con i propri testi) o tacere, rifiutare l’invito. Ma per le stesse ragioni disseminate nella stessa iniziativa di dissenso, laddove soprattutto si parla di continuità con il recente passato politico e di accentuazione di prassi già consolidate. Lo “snodo cruciale” di oggi è tale a causa delle precedenti accumulazioni, ossia per restare nella metafora ferroviaria, di precedenti inclinature e convergenze dei binari che hanno fatto deviare la locomotiva verso una direzione “impropria” e negativa. In soldoni: l’equivoco reso possibile con la complicità o l’ingenuità di molti artisti è stato quello di considerare il precedente sindaco di Roma amico della cultura magari perché ha dato vita a un festival di cinema, e quello attuale è colui contro cui dissentire. Mentre da molto tempo la politica culturale della (sinistra) andava verso direzioni (IMHO) sbagliate. Un altro equivoco è di considerare che le manifestazioni culturali patrocinate dalla destra siano per loro natura negative, da boicottare (e lo sarebbero se tra destra e sinistra ci fosse una alterità che oggi non vedo), mentre quelle del centrosinistra debbano essere sottoposte di volta in volta a verifica (“nelle realtà locali in cui esso si renda colpevole di paragonabili guasti”). La mia esperienza mi dice che i guasti già ci sono già stati, e che oggi la differenza è solo nei dettagli. Ma non si può fare i dissidenti appellandosi solo a dettagli migliori (quelli del centrosinistra). Una dissidenza culturale e artistica forte oggi la ritengo doverosa, ma va costruita dal basso, con manifesti più organici, dove la condanna delle precedenti politiche culturali che hanno portato a questo snodo sia più analitica. Questo al limite può essere un primo passo, ma che abbisogna di altre iniziative più trasversali e creative, se no è inutile.

  28. D’accordo con Macondo, e infatti se il discorso può essere portato avanti, e non soltanto qui e da parte di coloro che sin qui si sono espressi, il dissenso non sarà stato inutile. L’invito dell’ultima parte della lettera è proprio volto a approfondire e “creare” ulteriori possibilità. Il fatto che questo non sia un “manifesto più organico” dipende anche, e in primo luogo, dal fatto che non è un manifesto, bensì soprattutto un invito.

  29. Solzenicyn teneva un diarietto in gulag e quando non pote’ piu’ tenerlo, mando’ tutto a memoria e lo mangio’, continuando a lavorare a memoria, ma continuando. Gambula la dice male (Einaudi e’ ormai un fantasma), ma mette sul piatto del discorso l’abiura alla vocazione e la smania che ne deriva quando quella si fa mestiere (e consenso).

  30. Vincenzo, ritorno brevemente sul discorso e chiudo. Mi chiedi: a chi “segna” la letteratura? Rispondo: sicuramente può “segnare” le persone, può cambiare la loro vita. Questo è uno dei motivi per cui penso sia importante non tirarsi mai indietro, non auto-ghettizzarsi nei centri sociali e nelle case della poesia, dove quasi sempre si finisce col farsi le seghe a vicenda (scusa l’espressione volgare ma penso sia efficace ai fini della comprensione). Mi piace Tashtego quando mette in evidenza la necessità di fare politica (anche) come poeti, di cosa dire in poesia a chi. Di solito la politica (in senso istituzionale) agisce sulla cultura attraverso la censura (capita cioè di esser costretti ad esprimersi nei centri sociali solo perché tutti gli altri spazi ci sono preclusi). Qui si decide invece volontariamente di auto-ghettizzarsi. Il paradosso è che lo si fa rivendicando una dimensione politica (contro le dinamiche e i provvedimenti del governo e delle amministrazioni locali) senza lasciare che quella stessa tensione politica si riverberi poi nella produzione culturale. In caso contrario, infatti, il problema non sussisterebbe, in quanto tutto ciò che è pericoloso per il sistema non trova spazio nel pubblico. In pratica non si sarebbe mai invitati da nessuna parte. Ripeto, mi sembra un’iniziativa fuori luogo, ma certo, a ognuno le sue opinioni.

  31. @ gherardo
    Mi spiace, Gherardo, ma trovo triplamente moralistico il tuo divieto terminologico, e piuttosto indisponente.

  32. Caro Andrea (Cc: Gherardo, il cinico e disperato e caro amico Tashtego),

    il “così ci contiamo” non mi trova d’accordo, proprio perché pecco di identitarietà (nel senso corrivo e dispregiativo del termine: in un senso più alto e più largo, nessuno è mai non-identitario, e io sono strafelice di essere identitariamente egualitarista, ad esempio, aut sim.) e, non accettando né limiti terminologici alla mia critica (nell’ambito della buona educazione, ovviamente), non accetto neppure accuse controidentitarie.
    L’obiezione terminologica sul significato di sciopero, che è identica, sillaba per sillaba (un caso di telepatia) ad una analoga rivoltaci in sede che io giudico pubblica da Andrea Cortellessa, non regge. E’ ovvio in principio che si tratta di una metafora, e una metafora che calzasse in ogni aspetto non sarebbe più una metafora, ma un’identità semantica. In verità, se un giorno aderissero anche, come dicevo, Nevio, altri artisti – attori, cineasti ad es. – ci potremmo voler aspettare anche quello, sebbene in misura simbolica: una piccola perdita di retribuzione, ma forse neanche: forse uno sciopero appunto bianco (che, ti ricordo, Andrea, non prevede perdite di stipendio). Insomma, di scioperi ce ne sono tanti (a singhiozzo, a scacchiera, a gatto selvaggio, bianco, a oltranza…) in senso non metaforico, e questa varietà autorizza ancor più il senso metaforico. Inoltre, vietare una metafora per molti versi calzante proprio fra poeti mi sembra poco comprensibile. E anche mai non lo fosse, ma lo è, questa tua critica può servire semmai, come non a caso prefigura Simonelli, a convincerci a cambiar nome alla cosa. Che tale sempre resterebbe.
    Sulla disconitnuità nelle cose positive: certo che non la vedi, non c’è in sé. Non c’è in sé con le cose che hai sempre fatto tu, non c’è in sé L’unica discontinuità è nel proporle avendo fatto il passo determinante dell’astensione (se non vuoi chiamarla sciopero). Così assumono un altro significato. Altrimenti, hai ragione, è lo stesso. Ma così, lo stesso proprio non è. E l’onere della prova di dimostrare che non lo sia sta a te, non a me: è una discontinuità oggettiva e riscontrabile, tanto più nel nostro minuscolo mondo di poeti che in media (in media) si affannano per comparire, rifiutare di partecipare alla maggiore rassegna romana, anche visto solo il (piccolo? troppo piccolo? lo vedremo, lo temo anch’io: ma tentare, no, eh?) dibattito che sta suscitando.
    La questione del tipo di censura presente in Italia mi sembra del tutto oziosa. Innanzitutto la distinzione è chiara, ma non assoluta. Mondadori ed Einaudi non pubblicheranno mai un libro che sia chiaramente antiberlusconiano. Lo hanno fatto una volta e basta. Per fortuna si può pubblicare altrove. Per fortuna si può anche leggere altrove. Per fortuna c’è l’editoria cartacea, per quella scarsa circolazione che ha. Per questo, rinunciare al continuo compromesso cui (come riconosce lo stesso Nevio, verso il quale mi scuso per il tono acceso) il sistema ci costringe, può essere più facile di quel si pensa. E più produttivo. E meno costrittivo. E veramente liberante. Nel senso di far arrivare meglio e di più persino il nostro lavoro. Non necessariamente meno e peggio. Non sento in nessuna maniera di autocensurarmi, insomma. Voglio andare a dire le mie cose altrove. E di posto ce n’è, vi assicuro che ce n’è.

    Per tutto il resto mi accodo a Giulio e vi saluto per ora,
    Vincenzo

  33. ostuni io non capisco proprio da dove provenga il suo ottimismo, “E di posto ce n’è, vi assicuro che ce n’è.”
    a me sembra, francamente che di posto per la poesia ce ne sia già poco o nulla, per la vostra ancora di meno, chiudete pure quel poco che ha garantito un minimo di circolazione e così… di male in peggio e il canale unico è cosa fatta.

    che differenza vuole che faccia per il pubblico dei fedeli andare a palazzina liberty, museo Nitsch, casa delle lett, mediateca san lazzaro, centro sociale, aula occupata, ex orso pippo…?
    ma per gli autori sì: il gravio spese viaggio vitto alloggio, non moltiplicherà certo le presenze

    è logico che tutti non possono che essere concordi e solidali con voi sulla questione aprire nuovi spazi, ma voi non solo sembrate voler inaugurare l’iniziativa con la chiusura dei pochi, pochissimi, faticosamente conquistati alla vostra voce, e con ben magri bilanci che non possono certo agevolare, ma, secondo me, peccate di scarso realismo: voi continuate a credere che questo silenzio abbia forza di protesta, ma vi rendete conto che solo pochissimi recepiranno il vostro messaggio? pensate che il vostro sciopero raggiungerà qualcuno? forse il governo che sarà sicuramente scosso dal vostro sciopero? la politica culturale che fa grande affidamento su di voi, grandi progetti? gli editori che non vi pubblicano? il pubblico che non vi legge e che magari, anche per sbaglio, avrà occasione di ascoltarvi almeno una volta, si tratti pure di una rete fognaria?
    mi scuso sempre del livello pedestre delle mie obiezioni, ma su certe cose mi sembra indispensabile un po’ di pragmaticità oltre alle parole

  34. valente, ma l’hai letta la lista degli aderenti? li conosci? non sono pochi, né per lo più sono poeti (certo, siamo sovrarappresentati). né, soprattutto, sono sconosciuti come noi.
    e comunque c’è un livello base per la mia scelta: il livello individuale. io so che io (e credo che con me gli altri firmatari, e forse molti degli aderenti) d’ora in poi non parteciperò a eventi patrocinati da enti di destra, fino a che la destra è questa. in maniera che prescinde completamente dagli effetti. se l’iniziativa collettiva si dimostrerà fallimentare, di fronte al foro della mia coscienza io sono completamente certo nel dire che io non POSSO e non DEVO dare il mio contributo, per quanto minimo e irrilevante, alla conestazione della morte della possibilità del dissenso intellettuale nella società berluscocentrica.

  35. detto questo, valente, la “pragmaticità” è di chi fa le cose, lo dice la parola stessa: io qualcosa la sto facendo, proprio oggi. anzi l’ho fatta: ho detto un no. e se n’è parlato anche, pensa! ci sono sessanta persone, molte delle quali pienamente rispettabili, e anche abbastanza in vista, che con noi hanno detto un altro no, molto preciso. nel mio piccolissimo, io una praxis l’ho inaugurata, un pragma l’ho prodotto. e tu?

  36. Caro Vincenzo,
    dal momento che mi tiri in ballo senza aspettare che ci pensi da solo, dirò perché non aderisco allo Sciopero dell’autore (al di là del fatto che non sono un autore; e diciamo allora perché non lo considero un’iniziativa giusta; sono un critico: lo critico). Fissiamo intanto qualche paletto, qualche postulato comune (e scusa se sarò tautologico, ma io pensavo che certi postulati miei fossero condivisi; così non è invece, mi duole constatare).
    Allora, questo governo. Nazionale e locale. Credo che il giudizio degli Sciopero sia condiviso, largamente dagli utenti di questo spazio e, per quel che conta, è condiviso da me. Penso di poter dire, però, che a sua volta sia condiviso (e, per quel che conta, è condiviso da me) il giudizio di Macondo espresso alle 16.42: circa la politica culturale catastrofica dell’autodefinita sinistra, d’opposizione e di governo (nazionale e locale), degli ultimi anni. Vogliamo ricordare chi esattamente ha cominciato a destrutturare università e scuola pubblica? Chi ha cominciato a destrutturare il welfare (col suo corredato simbolico)? Chi ha cominciato a destrutturare il Fus (cioè l’equivalente del welfare in campo culturale)? Racconto sempre che una volta alla radio, s’era in campagna elettorale, ascoltai un dibattito fra Brunetta e Salvatore Settis, ministro in pectore di Veltroni per i beni culturali. E faticavo a distinguere le posizioni dei due, in merito al Fus. Anzi, a voler essere sincero, era di gran lunga preferibile il cinismo esplicito e arrogante di Brunetta (meglio il pallone dello spettacolo, teatro opera lirica musica, perché il pallone è solvente e in attivo e ci va la ggente, non le signore in pelliccia). Di fronte a un attonito Sinibaldi (e a un giustamente scandalizzato Nicola Piovani in collegamento), Settis disse che “cultura” di pertinenza statale era da intendersi esclusivamente la conservazione dei resti archeologici e il restauro delle opere d’arte antica. Tutto il resto era invece da considerarsi “spettacolo”, cioè (testuale) qualcosa di simile alla lapdance e a consimili intrattenimenti.
    Ma, dice Sciopero, di fronte a questo piano inclinato di progressivo sgretolamento della convivenza civile, le braccia tese e i cori fascisti a Piazza della Repubblica, il giorno dell’elezione di Alemanno, rappresentano sul piano simbolico uno step qualitativamente non indifferente. Sono d’accordo.
    Non sono d’accordo invece sulla risposta: da dare a questo salto di qualità (si fa per dire). L’autoesclusione dagli spazi pubblici che godono di finanziamenti pubblici (e che in quanto tali, come biblioteche e altri spazi d’aggregazione, sono servizi istituzionali, non di parte; se si pensa che non sia più distinguibile l’istituzione dalla parte politica che la gestisce la corretta definizione politica di ciò è: totalitarismo. Al quale non mi pare si poossa rispondere scioperando bensì, semmai, prendendo il primo aereo per Parigi senza tornare indietro: come fecero i migliori compatrioti nostri negli anni Trenta) non è appunto definibile sciopero, in nessuna accezione neppure metaforica.
    A voler essere malevoli si definisce meglio boicottaggio, se non sabotaggio. A voler essere benevoli, e realistici (perché vi conosco bene, uno per uno), si chiama in un altro modo, e la destra chiama così da tempo (non senza ragione) le nostre simpatiche divisioni etiche e deontologiche: tafazzismo.
    Luigi Cinque direttore artistico di Romapoesia vi ha elencato con ordine la quantità di inesattezze, relative alla manifestazione ora in corso e che non gode della vostra partecipazione, che vi hanno indotto alla presente bottigliata sulle palle. Anzitutto il patrocinio parimenti di Provincia (giunta di centrosinistra) e Comune (e lo sponsoring “tecnico” del manifesto, tra gli altri). Poi il dato. in undici anni di attività e con bella indistinzione fra schieramenti politici d’appartenenza, della costante decrescita dei finanziamenti destinati all’unica organica occasione pubblica per la poesia che si organizzi nella capitale del paese. Sino alla ridicola cifra ora a disposizione: che costringe all’esercizio del puro volontariato tutti coloro che, come me, vogliono dare (come sempre hanno fatto e sempre continueranno a fare) un minimo spazio alla letteratura di ricerca e alla poesia.
    Perché non abbiamo protestato quando questa logica di progressivo soffocamento, negli anni scorsi, si mostrava già evidente? Lo chiedo anche a me stesso, beninteso.
    Ma torniamo allo step delle braccia tese. Di fronte a questa offensiva simbolica, non è una risposta togliere spazio alla poesia (ciò in cui concretamente per ora si traduce – nulla mi convincerà del contrario – l’iniziativa di voi Sciopero) e all’editoria di poesia già sinistrata dalle circostanze in cui versa la filiera del libro in Italia. Una risposta sarebbe riflettere, più a monte e più basso-materialisticamente, sulle condizioni di detta filiera. Cioè sulle possibilità concrete di una cultura d’alternativa in questo disgraziato paese. Faccio sommessamente notare che l’iniziativa in tal senso della rivista il verri, che dedicò esattamente un anno fa il suo numero 35 alla questione della Bibliodiversità cadde in un tonante silenzio mediatico (con l’eccezione del quotidiano della Confindustria, che prevedibilmente ci tacciò di “ideologia”). Aggiungo francamente che, al contrario, mi sarei atteso un qualche appoggio, dalla parte ora fieramente protestataria.
    Un’altra risposta sarebbe, come anche voi dite alla fine del vostro documento, realizzare altre iniziative, non sabotare quelle (tanto faticosamente) già esistenti. Per cui dico subito che, a differenza dell’amico Tashtego, io verrò alle iniziative all’Università occupata (del resto ho già collaborato con gli studenti di Roma Tre in tal senso) e altrove. Ma ribadisco la mia risoluta contrarietà a qualsiasi iniziativa “a togliere”: che restringe ulteriormente il già minuscolo, soffocante campo a disposizione, oggi, per esprimere i nostri valori e le nostre posizioni.
    Concludo, scusandomi per il pistolotto interminabile. La dialettica oggi riproposta non può non ricordare, ai miei occhi, quella di quarant’anni fa. Gli artisti nel ’68 non si autoesclusero. Al contrario occuparono i luoghi istituzionali cambiando le regole del gioco. Alla Biennale di Venezia, per es., capovolsero le tele e improvvisarono comizi sul Vietnam. Allora come oggi si può non condividere un atteggiamento simile. Allora come oggi si può legittimamente pensare che, se uno è un artista autentico, non c’è bisogno di cambiare la sua posizione, in uno stato di urgenza democratica e inedia civile: perché l’essere artista autentico, da parte sua, è in quanto tale già e alla radice una contestazione permanente all'”ambienza bugiarda” (per dirla con Gadda) in cui si trova ad operare. Sul numero 8 di Quindici, febbraio-marzo 1968, Carmelo Bene non aderì per sette motivi a Lo sciopero degli attori (nell’antologia Quindici. Una rivista e il Sessantotto, Feltrinelli 2008, pp. 198 sgg.): “Non ho aderito […] perché da sempre sto scioperando a oltranza […]; mi si chiedeva quindi la sospensione del mio sciopero per lavorare al loro”.
    Non è solo un paradosso, anzi non lo è affatto. “Sciopero” (metaforico, appunto) è quello della poesia, voglio dire della poesia che si fa (non di quella che si fa mettere il bavaglio). Da sempre e sempre più man mano che l’ambienza si fa più bugiarda, col suo essere radicalmente incompatibile con le logiche di quell’ambienza: strutturalmente, formalmente e tematicamente. Col solo fatto di esistere e mostrare la sua faccia dove con tutta evidenza non le si vuole concedere spazio per muoversi, aria per sopravvivere. Col suo ostinato continuare a obiettare, a verificare, a controindicare.
    Non è possibile smettere di dire la nostra: nemmeno ove, con l’esibizione del proprio tacere, si voglia far vergognare gli altri. Anche perché, lo ricordo agli ottimisti a oltranza, gli altri non si vergognano più di niente.

  37. E invece, come fa Andrea Inglese, sottolineare il significato (e il valore) della parola “sciopero” è fondamentale. Dirimente. Soprattutto in vista del 12 dicembre. La parola “sciopero” contenuta nel vostro comunicato non l’ho intesa come una metafora; e se Lei – mi rivolgo a Ostuni – è costretto a spiegare che si tratta di una metafora, è già un buco nell’acqua.
    Sottoscrivo in pieno le osservazioni di Tashtego e quelle della Valente, aggiungendo (un mio modesto consiglio) che avreste dovuto iniziare (eventualmente) con un: “Bene, amici sodali sconosciuti et cetera, abbiamo dato vita a questo nuovo spazio che si chiama, che so, Pippo. Questo spazio nasce per… e vi invito a partecipare, in libertà d’espressione”.
    Questo per dire che non cresce niente da una automutilazione.
    Così almeno la intendo io, perché uno spazio – che è di tutti – tale dovrebbe rimanere, al di là delle lobbies transeunti che, alternandosi, lo occupano.
    E, aggiungo, è sempre meglio coinvolgere avendo già dato vita a un luogo d’incontro (metaforico e non) piuttosto che avanzare confuse ipotesi di retrocessione (della quale, almeno io, non si capisco il dove, il come e il perché). Tutto questo nella convinzione – un po’ infantile, perdonatemi – che nuovi (astratti) spazi siano migliori e più liberi di quelli che già, faticosamente, gruppi di persone hanno costruito (e non a destra).
    Detto questo, sinceramente auguro buon lavoro.

    Gino

  38. Iniziativa lodevolissima e auspicabilissima. Sarebbe anche l’occasione, partendo dal basso, per ricucire la frammentarietà cronica del mondo culturale italiano. Proprio per questo mi sembra un’operazione di difficile attuazione. Gli egoismi, gli individualismi esasperati, la superbia e la spocchia, a volte anche l’invidia, quando non l’indifferenza, non di rado accompagnano gli attori dell’universo artistico nazionale. Chi sarà cosi coerente da perseverare e rifiutare un’occasione di visibilità e un gettone di presenza che potrebbe anche significare pranzo e cena per qualche giorno? Spero tanti, ma ho seri dubbi. Comunque poi il centrodestra non avrà problemi a trovare sostituti e a far passare da intellettuali personaggi come Rondoni o Socci o Lauretano (informatevi sull’operazione che quest’ultimo ha compiuto su Cesare Pavese)

  39. Sul tacere.

    Nella sequenza dei commenti ricorre credo più di dieci volte – variamente collocato – il verbo “tacere”. Ho dato uno sguardo rapido con ctrl+f, non è che mi sia messo a fare uno spoglio serio, serioso. Magari ce ne sono anche di più.

    Bon.

    Sabato scorso sono stato al Cantiere (teatro/c.s. in Trastevere, Rm) per una lettura in interazione con alcuni musicisti. Abbiamo fatto un baccano della madonna. È stato bello, perbacco. Un dialogo complesso e magari (si dice) riuscito. C’erano ascoltatori attenti (non masse, ma non 4 gatti). Non mi sembra di aver taciuto.

    Non mi sono autoridotto. Si tratta di proseguire (come sempre). Non solo in centri sociali, va da sé. Ecco:

    Come dice Vincenzo rispondendo ad Andrea I.: “Sulla discontinuità nelle cose positive: certo che non la vedi, non c’è in sé. Non c’è in sé con le cose che hai sempre fatto”. Da anni si va in questa direzione. Semmai una discontinuità risiede, sta, è, può darsi, può crescere – annoto – nel portare queste cose fuori da una rete di segni o contesto che via via le modifica o minaccia di riconnotarle nel tempo sempre più pesantemente, o che – più ancora – trasmette e diffonde la “normalità” di questa riconnotazione, di questa minaccia.

    (Le minaccia dunque non come “cose”, o non solo; ma come “cose-in-un-contesto”).

    Si tratta allora forse di capire se e quanto e quando – singolarmente o no – qualcuno tra noi e ovunque vuole partecipare (=co/organizzare) a una forma – che qui è esplicitamente ancora embrionale – di alterità invece di lavorare (soltanto) entro i margini di un signum istituzionale.

    (E.: cooperare con iniziative indipendenti non significa rifiutare sempre tutte le altre. Significa darsi lo spazio di scegliere. Non significa tacere).

  40. Posto una microlettera che avevo preparato prima di leggere gli ultimissimi interventi qui sopra. Too late, è notte. Allora: in seguito, poi, prossimamente, nel dialogo, altri interventi:

    cari tutti,
    cito Andrea Inglese (1 dic., h.12:34) che scrive che l’iniziativa “non è inutile, ma ora come ora insufficiente quanto a strumenti e obiettivi. Ma io spero anche che si sia solo all’inizio di un percorso […] Quindi mi auguro che al più presto emerga da questa discussione e confronto, da questa mobilitazione, una fase progettuale precisa”.

    Affermativo, mon ami.

    Immagino che sostanzialmente poi sia un desiderio condiviso. (Con un tot di ingenuità, anche, che però spetta al lavoro e volontà e impegno di ciascuno e di tutti far uscire di campo). Non credo sia solo la volontà di quelli che “scioperano”. Anzi.

    La conoscenza (e/o stima) è reciproca. Penso che in questo thread, nella diversità ma perfino nella opposizione delle opinioni, non abbia fin qui messo piede nessuno che non desideri un cambiamento nella condizione e conduzione della cosa pubblica, e nel rapporto che anche autori e artisti possono intrattenere con questa.

    Mi sembra che ci siano scelte e prassi diverse, in chi vuole agire in direzione di un (segnale di) cambiamento, appunto. Bon. L’idea di “sciopero”, e la pratica – semplice – di dire dei no legati a filo doppio ad altri sì (costruendo alternative), è un modo.

    Inutile dire che alcuni di quelli che qui dialogano, anche da posizioni apparentemente ostili alla proposta dello “sciopero”, hanno anche implicitamente in alcune fasi lunghe o brevi della loro vita abbracciato precisamente quel modo. O tutt’ora lo seguono. Chiamatelo anarchico, volendo. Oppure no. Comunque hanno espresso un dissenso e fabbricato alternative. Non bloccandosi mai in uno solo dei due momenti.

  41. Caro Andrea,

    per quanto riguarda te, per fortuna – rispetto non certo ad Andrea Inglese, ma ai Gini et sim., che non danno neppure le generalità e assomigliano alle piante di Aristotele – siamo come sempre su un altro livello, per fortuna. Dovete tutti saperlo: io stimo Andrea talmente che, qualunque cosa dica, con cui io per avventura non mi trovi d’accordo, sono subito incline a pensare di aver torto. Persino se sbaglia il mio codice fiscale.
    Alla gran parte delle obiezioni di stasera ho tuttavia risposto l’altra sera in pubblico, per lo più in maniera che considero definitivamente efficace. Ma questa dev’essere una mia presunzione, temo. Vedo tuttavia che l’argomentazione un passo avanti, e felice, e determinante, lo ha fatto: enunciamolo. Al suo stesso primo terzo di lettera, infatti, per fortuna, risponde ricitando noi dell’altra sera, e obiettandosi da sé, e per di più concordando con l’autoobiezione:

    e braccia tese e i cori fascisti a Piazza della Repubblica, il giorno dell’elezione di Alemanno, rappresentano sul piano simbolico uno step qualitativamente non indifferente. Sono d’accordo.

    Dunque, abbiamo tolta ogni equiparazione ad uso del difensore fra precedenti amministrazioni di centrosinistra e questa di destra o centrodestra, su cui pure Andrea spende preziose righe. Grazie del lavoro tolto, Andrea. E dunque proseguiamo.
    Anzi no! Caveat emptor! Non procediamo affatto! Fermiamoci, piuttosto, e riflettiamo. Non è una semplice concessione en passant all’amico-avversario, questa di Andrea. Vuole travestirsene, ma non ci riesce. Se c’è infatti un salto di qualità, se c’è uno “step qualitativamente non indifferente”, nell’amministrazione capitolina di oggi (e posso permettermi di dire: a fortiori nell’amministraziona nazionale?) non si capisce come non invocare uno “step qualitativamente non indifferente” nella risposta che qualunque categoria politicamente consapevole dovrebbe mettere in atto. Intellettuali, pensa!, inclusi. Ovvero, se le cose son cambiate, e di così tanto, e così tanto per il peggio, che cosa facciamo noi? NIENTE, dice Andrea. NIENTE DI NIENTE. Anzi, prendiamo di petto una delle pochissime iniziative concrete nate in questi mesi di umiliazione politica da qualcuno che, all’interno delle nostre lettere, tenti di fare qualcosa. Niente di nulla, questo vuole fare Andrea. Continuare a lavorare per il Comune di Roma. O per qualsiasi persona gli conceda di portare avanti i suoi (per carità, Andrea, lo sai quanto!) condivisibilissimi, ammirevolissimi progetti. L’Italia cambia, ci tagliano i fondi, ci tolgono i diritti costituzionali, noi ci accontentiamo della carità (carità che li conesta) per clamare in deserto quanto è somma la Rosselli.
    Ma andiamo avanti, graziati – ricordiamoci – dallo stesso Cortellessa. Non dovremo dimostrare l’ovvio: non dovremo dimostrare che, per quanto il centrosinistra facesse recere, questo centrodestra è ancora, in maniera “qualitativamente” e non solo quantitativamente significativa, peggio.

    Autoescludersi, dice, “dagli spazi pubblici che godono di finanziamenti pubblici” (ma non è vero: pretendiamo solo di distinguerli, e di escluderci da alcuni, solamente; forse una maggioranza ma, per l’Aristotele che tutti dobbiamo avere dentro, pur sempre “alcuni”, non certo “tutti”; ma per il davidsoniano principio di carità proseguiamo comunque); autoescludersi, diceva Andrea, vale solo se l’istituzione, che è pubblica e super partes, non sia distinguibile dalla parte politica che la gestisce, quindi (sic) se si sia in regime totalitario. E se è così, bisogna andare a Parigi, come i fuoriusciti degli anni Trenta (non erano tutti i migliori, va be’), non basta certo “scioperare”. E comunque di sciopero non si tratta, neppure in metafora.
    A quest’ultima cosa non so che replicare. A un divieto all’utilizzo di una metafora calzante, posso solo ribadire quel che ho detto con difficilmente controreplicabile dovizia di argomenti rispondendo ad Andrea Inglese: è un divieto incomprensibile. Io sono un autore, vengo chiamato a rendere la mia prestazione, mi rifiuto: lo chiamo “sciopero”, tanto più se il fine è di lotta politica. Impedirmi di descriverlo come tale, pur metaforicamente, è completamente inaudito. Ergo non ribatto. Purtroppo, Andrea, mi costringi a un’alzata di spalle anche con te.
    Ribatto invece, non troppo facilmente, caro Andrea, perché è un punto nodale, sul “tutto o nulla” per cui non sarebbe lecito confondere fra istituzioni e parte politica che le governa, salvo nei totalitarismi pleno sensu. Premetto che concordo: non siamo in un regime totalitario. Tralasciamo, a vantaggio di entrambe le parti, che alcuni degli autori a Cortellessa più cari descrivono l’intreccio fra capitalismo e cultura di massa come forma sostanzialmente totalitaria delle società occidentali (pre-89, sì): ma appunto tralasciamo. Perché mai non dovrei confondere fra istituzioni e parte politica, mi chiedo tuttavia? Io ho l’impressione che Cortellessa si riferisca a un’accezione del termine “istituzione” che fa più riferimento all’ambito socio-antropologico che a quello, appunto, politico-istituzionale. Un’istituzione sarebbe, secondo la sua idea, devo immaginare, una struttura sociale complessa che abbia proprietà 1. emergenti 2. cronologicamente durature rispetto alla breve vita e alle proprietà individuali delle sue componenti. Siamo d’accordo. Non è questo tuttavia il nostro tipo di obiettivo polemico, non sono queste le istituzioni che abbiamo in mente. Abbiamo esplicitamente ammesso in pubblico e riaffermiamo ora che il tipo di istituzioni alle quali vogliamo negare il nostro assenso e la nostra partecipazione non sono “biblioteche” (questo il bizzarro esempio addotto da Andrea: mentre nella nostra lettera parliamo di manifestazioni che rechino “patrocini della coalizione di centrodestra”, non certo “patrocini di biblioteche”: bah) e neppure “case delle letteratura” o “dipartimenti dei ministeri” in sé; ovvero istituzioni nel secondo senso del termine (schiettamente politico) eppure, per così dire, di lunga durata, trasversali rispetto alle componenti politiche e alle occasioni elettorali, proprio come lo è Romapoesia; ma, appunto, enti patrocinanti, di cui ci prendiamo il diritto di aggredire il potere apparentemente solo segnaletico eppure, sotto tutti gli aspetti rilevanti, identificabile con chi lo gestisce, checché tu ne dica, Andrea. Non identifichi con chi lo gestisce il Consiglio dei Ministri? Non identifichi con chi li gestisce (e anzi con chi gestisce chi li gestisce) il Ministero della Pubblica Istruzione, il Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica? Non identifichi con chi lo gestisce il Comune di Roma? Non è imputabile a chi lo gestisce il fatto stesso, che certo non segnaletico non è, degli stessi tagli che Romapoesia ha dovuto subire, ma anche il Festival di filosofia di Roma, l’anno scorso dedicato al ’68 e poi “tagliato”, per non parlare dell’accelerato attacco frontale ai centri sociali e chi più ne ha più ne metta? Sono i signa che campeggiano sull’invito a RomaPoesia o a Più libri più liberi vuote e trans-storiche insegne, deplete del senso che di volta in volta le alleanze politiche e le azioni di queste imprimono loro? Capirei questo ai bassi livelli delle “biblioteche”, appunto: ma è così per gli enti del livello che (seppure solo co-)patrocinano RomaPoesia? Il corpo vivo e storico del Comune di Roma è anche o non è quel segnacolo di fascismo tornante che tu hai visto in Campidoglio a fine aprile 2008, in onore del genero di un imputato per Brescia e piazza Fontana? Quel segnacolo era degno di repulsa e questo che svolazza sopra la tua intelligentissima testa non lo è? Le istituzioni, proprio in regimi non totalitari, non sono metastoriche, non sono espressione di un’ipostatizzata ed eternizzata “essenza istituita”, ma di che le cencellizza e le innerva, eletto di volta in volta dall’imbelle popolo teoricamente sovrano.

    Sono felice che tu, a differenza di Tashtego, verrai all’Università. Mi piacerebbe anche che in quella sede tu rispondessi alle domande che, come noi abbiamo risposto al fuoco di fila degli speravo-più-amici di nazione indiana, io ti porrò sul senso di personale offesa che hai ricavato dalla nostra azione, sulla decisione presa di collaborare con il Comune: spero sarai in grado di convincere in quella situazione, con la medesima persuasività che i “Gini” di turno qui e altrove troppo facilmente ti concedono, della bontà della tua scelta: organizzare anche quest’anno RomaPoesia.
    Oltre a non aver mai stimato Carmelo Bene (ma qui so di essere impopolare anche presso i miei sodali), non condivido peraltro la tua visione così metafisicamente monolitica dell’“artista autentico”: credo che un artista autentico sia come un filosofo autentico nell’(auto)definizione-giustificazione che ne dà Hilary Putnam, forse il maggior filosofo vivente: un uomo che se è tale non può non dover cambiare idea. E che deve, certo – anche tu insisti con questa storia? ma insomma, possibile che neanche tu, come molti altri qui, non ti renda conto che nessuno ha mai voluto fare di questa un’iniziativa di silenzio? ti rendi conto che non lo è già di fatto? – un uomo che, la sua idea, deve continuare a dirla anche contro ogni muro di compagni e fratelli facili a voltare le spalle. Come tu – ancora – non sei, per fortuna, Andrea.

  42. provo anch’io a dare il mio notturno contributo:

    – ritengo ininfluente la distinzione centrodestra-centrosinistra, per me sono corresponsabili dello sfascio, ritengo che andare al governo per anni e non sfruttare questa occasione per ristabilire in italia qualcosa che si avvicini a una specie di democrazia sia tanto scandaloso quanto le leggi ad personam, sono daccordo con andrea cortellessa quando cita gli esempi della scuola, del welfare, del fus, e io metto su tutto la mancata istituzione di una commissione d’inchiesta su genova 2001, che per me è un crimine politico commesso dal centrosinistra di governo, peggiore del lodo x, della legge y, della finanziaria z (con heidi giuliani portata in parlamento a subire quest’altra umiliazione, non bastava avergli ucciso un figlio in piazza, vergogna, non avranno mai il mio voto questi squallidi personaggi, non possono rappresentarmi ma solo umiliarmi e rendermi la vita difficile, non ci gioco al giochetto elettorale col partito unico in veste bipolare) .

    – valutare, secondo la propria coscienza politica e civile, quando è il caso di partecipare ad un evento e quando invece non lo è, è una cosa che ho sempre fatto. se romapoesia la apre un comizio di borghezio, non ci vado in nessun caso, se l’assessore di an mette i soldi(pochi, cosiccome quello del pd), non fa comizi, e lascia piena autonomia agli organizzatori, io ci vado, perchè la ritengo comunque una cosa importante, poi la casistica potrebbe continuare, insomma si sceglie secondo coscienza, l’ho sempre fatto

    -questa dello sciopero mi pare comunque un’iniziativa che vuole mettere in moto un processo di dissenso attivo, costruttivo, nè sabotaggio, nè tafazzismo (noto che dopo le br, oramai anche tafazzi con il suo bottiglione e la conchiglia fa parte dell'”album di famiglia” della sinistra italiana, come lo chiamava la rossanda)

    -la parte del comunicato alla quale mi sento di aderire pienamente è quella che invita a promuovere eventi al di fuori delle istituzioni (che non significa boicottaggio delle iniziative istituzionali) cercare altri spazi e altri pubblici, cercare anche altri soldi, ove possibile, questo mi sembra davvero importante e un vero segnale di dissenso. autogestoni, occupazioni, sono forme di dissenso più efficaci e più coinvolgenti del silenzio (che però a volte fa bene, è necessario)

    saluti a tutti

    adriano

  43. già al momento dell’adesione – dicevo che l’iniziativa mi faceva simpatia – avevo sollecitato i promotori a riflettere sull’inutilità di distinguere centrodestra e centrosinistra nell’attuale congiuntura politica e di politica culturale. ho notato che il testo definitivo sul quale si sta discutendo ha accolto in parte questi suggerimenti che, poi, corrispondono a convincimenti molto profondi per uno come me che della battaglia politica ha sempre fatto qualcosa come una ragione di vita. però queste “varianti” rispetto a un primo testo sono poca cosa, proprio un’aggiunta burocratica. qualche differenza c’è? ma sì, basta guardare le facce a un qualsiasi consesso di an o pdl e le facce a un consesso di pd, questa cosa era vera anche ai tempi della dc e del msi rispetto al pci. le facce contano, la fisiognomica aiuta. d’accordo. e poi? chi ha organizzato a napoli nel 2001 il prologo di genova, la meticolosa preparazione dell’uccisione di giuliani della scuola diaz di bolzaneto? lo sapete tutti: il governo di centrosinistra in carica all’epoca (pochi giorni prima). chi ha urlato dichiarazioni pro-pogrom dopo l’omicidio della signora reggiani? lo sapete tutti: walter veltroni. chi ha tolto soldi alla cultura di ricerca e ha rimpolpato carrozzoni populistico-manageriali-clientelari a roma? lo sapete tutti: gli uffici cultura del campidoglio veltroniano. magari ci sono situazioni diverse. condivido l’opinione di molti di valutare le condizioni concrete, non condivido l’acquiescenza verso nostri “compagni di strada” che non si pongono proprio il problema di quali personaggi sostengano le loro iniziative e con quale contorno di politica culturale, prima o poi bisognerà porselo il problema o no? per non parlare dei nostri “compagni di strada” che accettano incarichi di consulenza della giunta alemanno senza batter ciglio. prima o poi si vorrà dare ascolto a un grande moto di sovversione che spinge verso l’indipendenza: luoghi, pubblici, finanziamenti (è bene essere più ricchi possibile). e contenuti, però. perché io dico: se la produzione indipendente è roba povera di idee di intuizioni di immaginazione di decostruzione-costruzione, di rotture magari “costitutive”, se non gioca in grande, non serve a nulla. “apocalypse now” e poi anche in anni recenti film costosissimi magari usciti da hollywood hanno fatto davvero tremare di commozione il pubblico dei sovversivi e si sono presentati sul mercato (sì, il mercato, non è detto che non si debba agire anche lì, come nei punti di massimo sviluppo del capitale nondiale) come oggettivi atti politici sovversivi, non distinguibili da altri – come lo straordinario movimento della moltitudine precaria che è oggi nelle strade e ovunque, anche nelle coscienze dei promotori dello sciopero dell’autore, credo – perché questi altri atti politici sovversivi sono oggi sempre più basati sui linguaggi. sono linguaggi.
    mario

  44. Se non intendo male gli ultimi interventi, il problema è l’uso politico del proprio essere autore, o meglio: il rapporto tra l’autore e l’azione politica, in particolare a livello di partecipazione o meno a certi spazi legati all’attuale gestione del potere. C’è chi (Cortellessa et ultra) non mette in dubbio l’utilità di agire anche dentro gli spazi istituzionali, e c’è chi (gli estensori dell’invito, sostanzialmente) ravvisa la necessità di trovare spazi “altri”, non legati in alcun modo con la gestione dell’esistente. Schematicamente, si potrebbe dire che nel primo caso i contenuti proposti possono trascendere e a volte anche fare esplodere il contenitore, mentre nel secondo il contenitore è già contenuto e come tale non permette la differenza …

    In passato, diciamo tra la fine dei ‘60 e almeno sino a metà dei ‘70, la seconda istanza veniva sintetizzata nel concetto di «decentramento»: uscire dal “centro” (fisico, delle città, e politico, delle istituzioni) per privilegiare le “periferie”. Processi contradditori, spesso ambigui e strumentali, e che comunque si reggevano su una partecipazione politica immensa, che riguardava tutti gli ambiti della società. La reazione più importante, e alla lunga efficace, è stata la coptazione: le istituzioni chiamavano a sé i riottosi, spesso coprendoli di denaro. E molti accettavano, convinti di poter modificare dall’interno le istituzioni stesse. È successo quel che tutti possono vedere: le istituzioni hanno modificato chi doveva modificare e tutto è stato ricondotto, pure se in forme diverse, all’ordine precedente. Ma il processo non è stato lineare, o almeno tale da determinare la bontà di una scelta a scapito di un’altra. Anzi, se facciamo un consuntivo è giocoforza notare come alla fine restino le opere, al di là della scelta di stare dentro-o-fuori. Carmelo Bene, ad esempio (ottima la citazione di Cortellessa), scelse ad un certo punto di fare il proprio “sciopero” dentro le istituzioni, creando spettacoli di una radicalità unica, così come Aldo Trionfo e altri; Carlo Cecchi e De Berardinis e mille altri scelsero invece la lateralità, creando a loro volta opere uniche in quanto a “bellezza” e anche sovversive … Cosa resta, in quanto a opere, dei radicali a oltranza? Il Mistero Buffo di Dario Fo e poco altro.

    Forse allora il problema è davvero la militanza a livello di segni: stiamo parlando di “autori”, in sostanza di soggetti che creano opere col/sul linguaggio, ed è il linguaggio il primo terreno di azione, come giustamente fa notare anche Mario Gamba. Dopodiché, siamo concordi – e mi pare che tutti gli intervenuti lo siano – sulla necessità di “fare” qualcosa, al di là delle differenze in merito allo “sciopero”. A partire, magari, dal fare chiarezza su quali siano le tendenze regressive e quali gli agenti che meglio di altri impersonano le forme autoritarie presenti e prossime.

    Dall’invito allo “sciopero degli autori” e in particolare da alcuni commenti, ritorna Berlusconi come l’indiziato principale; e si nota anche, come è già stato rilevato, una certa accondiscendenza, o comunque tolleranza, con la cultura proposta in questi anni dalla “sinistra”. Io credo invece che sia miopia politica non accorgersi come in realtà lo stesso Berlusconi non sia che un burattino e che altrove risiedano i pericoli per la nostra democrazia (primariamente nell’impianto arretrato dell’industria e della finanza, Confindustria rappresentate unico, e nel Vaticano come corollario ideologico) e che proprio la “sinistra”, e qui davvero senza distinzioni di comodo tra moderati e radicali, sia stata la principale responsabile della debacle culturale in atto, a partire almeno dall’effimero di Niccolini transitando dalla direzione di Veltroni dell’Unità sino a Liberazione d’oggidì (che da anni sto boicottando!) … Basterebbe rileggersi le dichiarazioni di Agnelli (Giovanni) in merito alle ristrutturazioni in fabbrica o Kossiga in merito alla guerra-aggressione alla ex-Jugoslavia per capire le funzionalità e le compatibilità … Ma questo è un altro discorso. Anzi: è l’unico discorso che davvero ha senso cominciare, per lo meno se si vuole uscire dalla propria condizione di autore e mettere mano a un progetto culturale che sia veramente estraneo alla politica culturale in corso …

    @ Vincenzo (scuse accolte con simpatia):
    «La nostra società è impazzita!», diceva Brecht di fronte alla foto di operai che, per vivere, andavano a lavorare nell’industria di guerra. Poi però aggiungeva: «Lavorare per conto della morte / è il solo modo per restare in vita».

    ng

  45. Scusatemi ma lo sciopero non sarebbe vero sciopero se accettato un impegno al momento di svolgerlo non lo si svolge? Voglio dire forse avrebbe effetto se invece che semplicemente rifiutare ingaggi li si accettassero per poi non svolgerli e quindi boicottare ed impedire una sostituzione e ridurre al silenzio l’occasione e magari svolgere all’aperto fuori dal luogo deputato la lettura o l’incontro ma senza compenso. Sono una musicista ma non canto più e non sono idonea a un appoggio nello specifico.

  46. Caro Vincenzo,
    riconosco alla vostra iniziativa, che contesto nel metodo e soprattutto nel merito, sicuramente un esito. Che è quello che stiamo performando in questo momento: discutere. Quando si discute fra persone che si stimano, per fortuna, non si inalberano stemmi identitari e blasoni di purezza (“io ho fatto questo e quell’altro!” “Lei non sa chi sono io!”); si teme di poter avere torto, appunto (se vuoi, la mia reazione emotiva iniziale deriva appunto dal fatto che i miei postulati comportamentali venivano messi in discussione alla radice; dunque ho sbagliato tutto!, diceva una parte di me; per poi rispondersi: no, guarda, mi sa proprio che hanno sbagliato quegli altri, e non di poco. Una discussione pubblica su questo non la temo: la auspico).
    Basterà, per fare ulteriori passi avanti, non limitarsi a rispondere alle auto-obiezioni, o alle obiezioni di uno “step” fa: come mi pare tu abbia fatto nel precedente commento. Dunque, per me messo punto alla presunta equiparazione destra-sinistra. Tu ti temi impopolare perché non ami Carmelo Bene; io mi so impopolare perché detesto il Gaber di “cos’è la destra cos’è la sinistra”. Come dice Gamba: mi basta guardarli in faccia e so da dove vengono (altra cosa però – se guardo in faccia quegli altri – sapere dove vogliono arrivare).
    Sempre empiricamente, concordo con Padua: occorre valutare, di caso in caso, l’accettabilità dell’ambienza che ci viene proposta. Se Borghezio apre Romapoesia (o, più verosimilmente, qualcosa alla Palazzina liberty) non ci si mette piede, certo. Per questo, infatti, ho trovato offensiva, nei confronti del suo passato (“Lei non sa chi sono io!”) ma anche del suo presente, l’iniziativa contro Romapoesia (aperta quest’anno non da Borghezio ma da Amiri Baraka con un francamente stucchevole comizio, nei toni e coi contenuti che si possono immaginare, per poi far seguire fortunatamente le sue poesie). Perché, al di là dell’opinabile danno effettivo da voi procurato, il punto d’attacco da voi scelto costituiva uno specimen perfetto degli equivoci autolesionistici che l’impostazione da voi data non solo consentiva, ma in qualche modo imponeva.
    Ma, dirai tu, cosa c’è di “qualitativamente diverso” da prima in questa risposta diciamo empirica, caso per caso? Nulla, concordo. Il che non toglie che prima ci fossero buone ragioni per stare in campana, tenere alto il livello d’allerta (concedere che non siano equiparabili non significa dimenticare d’un colpo le malefatte delle amministrazioni autodefinite di sinistra, nella nostra città e altrove: sino al capolavoro, all’uno-due dell’esclusione di Rifondazione e allegati dal Parlamento e della candidatura-harakiri di Rutelli al Campidoglio).
    Mi si dice che non tutti i migliori presero la via dell’esilio, negli anni Trenta. E mi si aggiunge che le analisi dei nostri maestri, Debord in primis, ci insegnano che una forma strisciante, non conclamata di totalitarismo si sia in effetti sperimentato in Italia dagli anni Ottanta, anzi dal ’77 (non: dal ’94; teniamo ben presente questo dato cronologico!): per oggi trionfare e non solo in Italia.
    Si può evidentemente discutere. Ma, sempre nello spirito del passo avanti, diciamoci d’accordo anche su questo. Non credo tuttavia che nessuno di voi proponga la scelta del ’43. Non solo perché spero che una sensibilità nonviolenta (che è in ogni caso la mia) sia qui ben condivisa, il che già dovrebbe bastare. Ma anche perché (qui Vincenzo hai tacciato una volta il mio ragionamento di “conseguenziario”, il che non so bene cosa voglia dire) le condizioni in cui siamo oggi non sono quelle del ’38, né quelle del ’43, né quelle degli anni Settanta se è per questo. Appunto perché di mezzo ci sono gli anni Ottanta e seguenti, che hanno spostato con decisione il piano del confronto dal versante fisico-militare a quello simbolico-mediale. Ed è su questo piano che occorre dare la nostra risposta “qualitativamente non indifferente”. Non che nessuno non abbia inteso darla, nel passato recente. Se ripensi alle logiche che vennero dagli operatori del simbolico negli anni ’90 (penso ad alcuni amici editori molto bravi e molto attenti a non mostrare di esserlo troppo) una risposta te la dai da solo. Una volta pubblicamente (sul manifesto) parlai al riguardo di “nicodemismo” post-situazionista, commisurabile (nello spirito, non nella tattica) a quello degli antifascisti che scrivevano sulle riviste di Bottai negli anni Quaranta. Lo scrivevo alla fine degli anni Novanta, se ben ricordo; e a posteriori mi rendo conto che lo facevo quando quell’esperienza mostrava la corda e si avviava all’esaurimento. (Anche in quel caso l’uscita non venne accolta né discussa né rigettata da nessuno: a partire dagli allora diretti interessati).
    Dunque se l’entrismo radicale del nicodemismo non funziona più, cosa fare oggi? Se lo sapessi lo direi, non mi sforzo di dare meno di quello che ho, io. So però come mi sono comportato in questi anni, e francamente non ho nulla di cui vergognarmi, la mattina, quando mi guardo allo specchio. Rimproveri per errori, insufficienze, distrazioni, quelli quanti ne vuoi. Coltivo il senso di colpa con minuziosità maniacale. Ma su questo il mio foro interiore proprio non mi dice nulla.
    Che fare allora, come diceva quello? Un po’ ti rispondi da solo: fare altro, fare diverso e fare altrove. Ma non in alternativa secca a quanto si fa già, a quanto fanno altri con le risorse che possono e negli spazi che possono. Non distruggendo quello che gli altri hanno edificato, fra mille difficoltà e, aggiungo, senza le solidarietà degli amici e compagni che sarebbe stato lecito attendersi. Non negandosi occasioni di presenza più tradizionali, che non è vero fra l’altro costitutivamente non sortiscano nessun effetto (“Io ho fatto questo e ho fatto quello!”).
    Ma al contrario, come da più parti vi si chiede di riformulare la vostra proposta, aggiungendo(il che promettete, e assumo; ma finora è andata in scena solo la pars destruens, concederai): più impegno, iniziative, fantasia operativa. Non meno.
    Siete autori: in omaggio all’ètimo della vostra qualifica, non diminuite il mondo, aumentatelo.

  47. Scusate, ma per me esserci (come autore ma non solo) ovunque abbia parola Borghezio o Alemanno è vitale. Più che altrove.

  48. Il “piano simbolico mediale” di questo sciopero potrebbe essere efficace se uscisse dallo stretto di iniziative che non incidono sulla realtà del paese, né sul suo immaginario, cosa che a Bene e ad altri riusciva eccome, scandalizzando, stupendo, irritando, e arrivando anche alla strabiliata casalinga di Voghera.
    Scusate se non appartenendo alla vostra generazione ho una memoria fisica di presenze meno deboli che influenzano la mia lettura del post e dei commenti, ma PIU’ spazi, PIU’ luoghi e soprattutto voci più autorevoli e forti sarebbero forse di maggiore utilità.
    Ostuni a un certo punto invita a “fare rumore”.
    Giusto, ma quel rumore io non lo sento, sarò anche sorda, possibile.
    Oppure, ed è forse la cosa peggiore, quel rumore non è destinato a me, ma a chi è presente nella stanza.
    Ma allora, se non esce dalla stanza in cui lo si è prodotto, che rumore è?

  49. Cari tutti,
    leggo serpeggiare un equivoco tra i vari interventi. La mancata adesione ad eventi promossi da amministrazioni che riteniamo discutibili non significa esprimere volontà di distruzione dell’”amministrazione”, significa contestare chi amministra. Andrea scrive
    “[…] Non distruggendo quello che gli altri hanno edificato, fra mille difficoltà e, aggiungo, senza le solidarietà degli amici e compagni che sarebbe stato lecito attendersi”. Non andare a leggere a Romapoesia non significa distruggere Romapoesia, dove hanno tutti la nostra stessa avversione a questo governo. E infatti RP si è svolta, RP che non è un’istituzione bensì una manifestazione che sappiamo aver lottato per la propria sopravvivenza e che ha subito da questa amministrazione ulteriori tagli, come ci è stato detto. Ma allora perché non battersi decisamente contro questa e/o le precedenti amministrazioni in maniera decisa? Invitando proprio RP piuttosto che altri a dissentire si vuole porre l’attenzione su quanto le suddette amministrazioni (di centrosinistra, in parte, di centrodestra, quasi del tutto) abbiano affossato (loro, Veltroni, Alemanno e compagnia, non noi) la produzione culturale negli ultimi anni. Quando ho detto che sarebbe stato auspicabile ospitare Amiri Baraka in una Facoltà occupata è stato detto da alcuni che non sarebbe stato il caso. Perché? Perché non pensare prima a intervenire in maniera diversa, considerata l’attuale situazione culturale, sociale e politica? Qualcuno potrebbe rispondere che la lettura non avrebbe avuto la stessa risonanza o importanza. Siamo sicuri? In una facoltà occupata? Non sempre e per sempre, ma in questo momento il livello dell’offesa da parte di questo governo è inaccettabile e protestare ora non significa non protestare anche contro precedenti gestioni (così ragionando non si dovrebbe mai protestare). La precedente giunta a Roma ha attuato una linea totalmente ostile alla pratica della cultura non “amministrata” della capitale, a favore di uno sperpero di denaro per fantomatiche Feste del Cinema. Bene, iniziamo a guardarci indietro. Iniziamo, noi aderenti e i non aderenti, perché mi pare che al di là dell’adesione ci sia una tendenza a non guardare al di là della lettera. Credo che Carmelo Bene e Leo De Berardinis abbiano “fatto” qualcosa nello stesso verso, sebbene con modalità diverse, chi all’Argentina chi a Marigliano, e non capisco l’eccessiva “divisione” che questa lettera sembra produrre al di là dell’adesione. Non condividere le modalità non significa che non si può provare a fare comunque qualcosa tutti per far “rumore”, se si ritiene giusto farlo. Non ci suono buoni o cattivi, ma differenti opinioni su come esprimere la propria distanza da determinate scelte politiche (dai tagli alla cultura alla riforma (?) Gelmini etc.). Infine non comprendo quanto scrive Alcor. Perché lamentarsi del rumore che fa o non fa questa iniziativa? Se ritieni giusta l’iniziativa vuoi fare rumore anche tu o vuoi aspettare che il rumore arrivi fino a te per decidere che è abbastanza forte? Se non ritieni giusta l’iniziativa, cosa c’entra il rumore che fa?

  50. Confesso di non aver letto attentamente tutti gli ultimi interventi: e chiedo venia se dirò cose scontate (oramai più che commenti a un 3D-iniziativa, qui si sta sviluppando un trattato sulle forme di dissidenza), ma gli interventi di alcuni (tra cui Cortellessa) mi hanno dato spunto per questa chiosa. Sì, la dissidenza “a togliere” mi lascia mooolto perplesso. A questo Aventino preferirei la presenza dell’autore che aggiunga al contesto della manifestazione culturale data qualcosa di spiazzante, di imprevisto, di “inconcepibile”, di OT come si dice nei post. Ossia, se si tratta di una lettura di testi in pubblico, perché non partecipare cambiando la prevista lettura del testo con quella di un comunicato, di un volantino, di uno scritto dove si denuncia, si critica fortemente, si condanna la gestione politica dello status quo culturale, si critica con forme di slogan (per la brevità incisiva) la “de-strutturazione” del fus, e quant’altro? Il che non esclude l’occupazione o la ricerca parallela di altri spazi culturali di intervento. Ritengo questa forma di lotta (perché sul modo di lottare ci si interroga, mi sembra, e non sulla possibilità teorica della lotta) assai più fruttuosa. Difatti se nel corso di una manifestazione culturale alcuni autori invitati si succedono a leggere comunicati-volantini di questo tipo anziché i loro testi, l’effetto sugli ascoltatori sarebbe più impattante della loro assenza motivata dalla dissidenza. E in questo modo, con questa forma di resistenza e di lotta, gli autori ci metterebbero la faccia, come si dice.

  51. quali sono le amministrazioni locali di centrosinistra più discutibili?
    e come si può sapere in quali casi andare o meno, dato che è “a singhiozzo”?
    ogni volta, un autore invitato ad una manifestazione, ed aderente a questo tipo di protesta, si dovrà consultare con gli altri per decidere se andare o meno?
    se l’autore non conosce bene l’amministrazione locale di centrosinistra che patrocina un avvenimento a cui è invitato, e non trova informazioni riguardo una sua condotta discutibile, e scopre, solo dopo, che in effetti quell’amministrazione è una tra le “più discutibili”?
    non andare a discutere là dove le cose sono più discutibili, è un controsenso?
    la decisione di non andare ad un evento implica anche la pubblicizzazione della propria assenza, in modo da informare l’opinione pubblica del fatto che l’autore era stato invitato, ma non è andato, ed esplicare i motivi della propria scelta?

    grazie.

  52. @marzaioli

    Io non mi lamento del rumore, Ostuni invita a farlo, io dico che non lo sento.

    L’iniziativa di scioperare mi pare depotenziata e marginale, quando leggo frasi come questa:

    “le suddette amministrazioni (di centrosinistra, in parte, di centrodestra, quasi del tutto) abbiano affossato (loro, Veltroni, Alemanno e compagnia, non noi) la produzione culturale negli ultimi anni.”

    mi chiedo se rileggete quello che scrivete, come faccia un’amministrazione ad affossare la produzione culturale è davvero misterioso. Tutt’al più non avrà aperto i cordoni della borsa, quelli che però disdegnate, e perciò bene ha fatto – chi lo ha fatto – ad accettare il patrocinio e il finanziamento, se c’è stato, per non farsi affossare.

    Voglio dire, almeno le contraddizioni toglietele dal discorso.

    Mi chiedevo, questa mattina, leggendo, che ne direste se a finanziare le manifestazioni culturali fosse una fondazione bancaria?
    Una banca ha meno a che fare con la politica di un’amministrazione comunale che almeno è stata eletta dai cittadini? E’ più neutra solo perché non si vede da dove arriva il denaro?
    Perchè se si vuole essere duri e puri, bisogna esserlo davvero..
    Voglio dire che per finanziare le manifestazioni che non producono direttamente denaro ci vuole denaro, basta dunque che sia ben verniciato e ci siano sei gradi di disinfettante separazione?

    Miei cari, qua ogni occasione persa è pura perdita, l’importante è dire nei luoghi che si aprono le cose che davvero si vogliono dire. venisse tolta questa libertà di parola farei rumore anch’io, ma finora ho visto o cose molto più complesse davanti alle quali uno sciopero non basta o qualche attore marginale (espressione della destra o espressione del consumo) che ha trovato un po’ più di spazio.
    Non rifiutate gli spazi e le occasioni, dite e fate invece cose significative ovunque sia possibile.

  53. Un intellettuale isolato come Luciano Bianciardi, che pagò di persona il suo rifiuto dell’establishment (non accettando l’offerta di Montanelli di scrivere sul Corriere e preferendo dare i suoi pezzi al Guerin Sportivo, Le Ore e Playmen), consigliava agli studenti di occupare le banche, anziché le aule universitarie.

  54. Pro memoria sulle questioni da approfondire

    per parte mia, ho visto espressi in modo chiaro i diversi argomenti di critica alla specifica proposta dello “sciopero” (non ultimo la sintesi di padua);

    non confondere politica culturale con politica tout court; le questioni possono essere connesse ma meritano analisi diverse; dal punto di vista dei segnali, il problema non è solo Alemanno e i fascisti al governo, o la lega e irazzisti al governo, o berlusca e la delinquenza al governo, ma una larga fetta della società italiana che vuole quel governo, e che è fascista, razzista, delinquente o compiacente con ognuno di questi soggetti. Di fronte a questo, è evidente che altre analisi ci vogliono e altre forme di dissenso più direttamente politiche (il caso dei movimenti a difesa della scuola è un esempio)

    sul piano della politica culturale; qui il discorso può essere fatto in modo equanime nei confronti della destra e della sinistra (come dicono Cortellessa e altri)
    ma qui vorrei sottolineare un punto: Cortellessa ad un certo punto dice di Romapoesia: “in undici anni di attività e con bella indistinzione fra schieramenti politici d’appartenenza, della costante decrescita dei finanziamenti destinati all’unica organica occasione pubblica per la poesia che si organizzi nella capitale del paese.” Ebbene, questo è uno dei veri problemi della politica culturale di questo paese. Il fatto che a Roma esista un solo evento di cui da undici anni si occupa più o meno la stessa gente. E così via in altre città d’Italia. E cosi via per le riviste, le case editrici, i festival di cinema, ecc.
    Allora si può fare una colpa a Balestrini, Cinque e chi con loro da undici anni portano a vanti l’unica “organica occasione pubblica per la poesia”? No, a patto di fare di tutto, perchè non ci sia solo Romapoesia a rappresentare la poesia… Non ci siano solo Balestrini e Cinque a illustrare che cos’è la poesia al pubblico di Roma, e così via.
    Quindi il problema non è certo boicottare Romapoesia, ma fare in modo che ci siano altre “occasioni pubbliche organiche” pensate da teste diverse da quelle di Balestrini e Cinque. Questo accade in altri paesi. Per tanti motivi di politica culturale, ad esempio. In Italia, anche a livello culturale, anche qualcosa di importante, tende a divenire un feudo. laddove esistono più centri, più risorse, più persone che agiscono, questo non accade. Ecco perchè il vero problema è moltiplicare le occasioni come Romapoesia, pensate da altre teste, con scelte artistiche diverse, stili progettuali diversi. (E questo anche quando Romapoesia fosse patrocinata dal Comandante Marcos in persona, ma rimanesse “per 11 anni, l’unica organica occasione pubblica per la poesia” a Roma. E cosi per il resto d’Italia ovviamente.)

  55. Per altro, sempre restando all’interno dei problemi di politica culturale, non è neppure vero che Romapoesia sia “l’unica organica occasione pubblica per la poesia”. Da tre anni, almeno, seguo da vicino il lavoro della Camera Verde, centro culturale, casa editrice, spazio espositivo, luogo d’incontri e letture, proiezioni cinematografiche e video, animato da Andrea Semerano in via Giovanni Miani 20 a Roma. La Camera Verde è uno spazio pubblico, dove una serie di bravissimi poeti e traduttori come Giovenale, Zaffarano, Mesa, Raos, e molti altri stanno portando avanti progetti editoriali molteplici e pionieristici. Ma di Semerano si parla? Della Camera Verde se ne parla? Qualsiasi giornalista, operatore culturale, critico, minimamente consapevole della situazione culturale di questo paese dovrebbe fare i salti mortali per ottenere un paginone su qualche quotidiano, pubblicizzando questa cosa straordinaria per l’Italia, non unica io spero, ma certo rarissima. Cosi come ogni critico serio, che scriva su Alias, l’indice, o si occupi di inserti culturali dei quotidiani o riviste dovrebbe rinunciare a parlare anche dell’ultimo libro di un bravo scrittore americano, pubblicato da mondadori o Feltrinelli, per far conoscere a un più largo pubblico iniziative del genere. Ma guarda caso, questo di solito non accade.

  56. Sia detto con tutta la sincerità possibile sperando di non sconfinare nella brutalità. Parla Marco Simonelli. Non in qualità di autore, semmai di autore senza qualità. Il merito è sicuramente quello della discussione e del confronto, credo che questo punto sia assodato. Ma: non ci ho dormito la notte, m’è venuta la tachicardia, la psoriasi, l’agitazione, la cefalea l’emicrania, la colite, la tosse nervosa e il ranteghino. Purtroppo esistono anche casi patologici in cui il malessere sociale si traduce in sintomi psicosomatici. Non credo d’essere l’unico qui a cui lo sciopero dell’autore ha provocato la gastrite. E confesso che mentre andavo avanti a leggere tutti i commenti, le due o tre idee che avevo in merito si sono fatte ancora più confuse e nebulose fino ad estinguersi. Questo non è uno sciopero, è un attacco di panico. Si tratta di modalità di reazione, ecco: si è convinti che l’assenza e il silenzio facciano rumore? Può farlo, eccome. Si crede invece che la modalità di protesta più opportuna sia al contrario l’intervenire? Può funzionare anche quello; dipende a mio avviso dal dove. Io non rifiuterei di andare a leggere poesie per l’associazione veterani mutilati anche se organizzata da Donna Assunta (e mi si passi l’iperbole astrusa ché sto nervoso). Il mio problema è che credo di capirvi, scioperanti e non. E non vorrei mai ritrovarmi nella condizione di dover scegliere o con noi o contro di noi, ‘sta storia l’ho già sentita alle medie e m’è bastata. Perchè non venite tutti ad occupare casa mia, ché sto sempre da solo? Per adesso mi sento ancora più isola, ancora più confuso e stordito di prima. Preferisco incatenarmi, leggere poesie con la museruola, coi polsi legati, con le penne infilate nel naso, se serve.
    Ora entro in sciopero personale esistenziale e finchè non tirate fuori i tarallucci e il vino mi dichiaro prigioniero politico.

  57. Purtroppo non ho materialmente il tempo per affrontare tutte le questioni sopra poste, mi riservo di farlo in seguito. Rispondo ad Alcor su un punto: un governo che promuove la riforma Gelmini a mio avviso affossa la cultura dal momento che affossa l’istruzione; un governo (di sinistra o destra che sia) che taglia i fondi alla cultura affossa la cultura, o no? Non mi sembra così misterioso. E dove sarebbe la contraddizione se si protesta anche, ma non solo, contro queste scelte? E chi disdegna la borsa? Caso mai sembra curioso che per aiutare, ad esempio, il cinema italiano si spendano centinaia di migliaia di euro in una festa anziché sostenere gli esercenti, le produzioni e via dicendo (giusto per non rimanere a parlare all’interno di presunte stanze e spendere un argomento che non credo ti trovi così discorde). C’è chi ritiene che abbia più effetto protestare dall’interno, ed ha tutto la mia stima, per quanto può contare. C’è chi ritiene che in questo momento abbia più effetto protestare con il dissenso, come il sottoscritto, e non penso che questa scelta meriti disistima. Ritengo quindi che le contraddizioni non ci siano proprio, nel discorso. Quanto alle altre considerazioni di Alcor, di Garufi e di Andrea Inglese (con La Camera Verde sono 8 anni che sviluppiamo costantemente una progettualità, caro Andrea, se altri non ne parlano non è certo colpa nostra) meritano maggior approfondimento e putroppo, come scrivevo, ora manca il tempo.

  58. Premesso che conosco bene e stimo tantissimo i promotori dell’appello, con cui peraltro condivido da anni il progetto editoriale lanciato da Andrea Semerano con la Camera Verde e che dovendo scegliere tra il funambolo e il pagliaccio che da una delle due torri pretende di divertire il pubblico provocando la caduta di chi prende i suoi rischi, sarò sempre dalla parte del candidato alla caduta, vorrei poter trovare le parole giuste per spiegare il perché della mia non “ancora” adesione all’appello.

    Per farlo cercherò di spostare attenzione e strumenti di analisi da un fatto Roma Poesia a un altro, ovvero il grande appuntamento “letterario” internazionale che dal 29 novembre al 7 dicembre avrà come paese ospite l’Italia ( 21ª edizione della Fiera Internazionale del Libro di Guadalajara in Messico). Poiché so che l’appello circola da diverse settimane la prima domanda che faccio è la seguente: sono stati contattati gli invitati per un’azione quella sì decisamente radicale, nella direzione auspicata dall’appello? E se è il caso cosa vi hanno risposto?
    Perché regà detto tra noi, un effetto si ottiene se a sciperare sono i calciatori, ben più modesto se ad incrociare le braccia fossero gli schermidori…

    Ora io so per certo che quella compagine ci rappresenterà più che degnamente ( due indiani sono peraltro presenti nella delegazione, ma basta vedere il programma che abbiamo pubblicato proprio qui da queste colonne
    ( https://www.nazioneindiana.com/2008/11/12/10845/ ) per farsi un’idea e per capire che si tratta di una manifestazione che si badi bene coinvolge sia le ricche sorelle della letteratura ( macchine editoriali, narrativa, saggistica…) che le cenerentole di sempre ( poesia e critica letteraria).

    Tribuna internazionale patrocinata niente poco di meno che, dall’attuale governo. Vi anticipo subito che se fossi stato invitato ( ho cercato di rubare il passaporto a Biondillo ma non mi è riuscito e nella samsonite di Buffoni non c’entravo) e avessi letto l’appello sufficientemente in tempo da poter decidere di “scioperare” , in questo e in altri casi avrei fatto il crumiro,( a che pro sparare a zero su Carmelo Bene? dit en passant) e non solo per il viaggio che si sarebbe prospettato.

    Le mie ragioni sono quasi tutte espresse nel forum che insieme, commentatori e redattori di NI aprimmo qualche tempo fa sulla questione dell’invito di israele alla fiera del libro di torino ( per chi non lo avesse letto troverete qui buona parte di quel dossier ( https://www.nazioneindiana.com/2008/03/21/laltra-faccia-di-israele/ )

    Prima di continuare, spero, a confrontarmi con voi su altri punti mi piacerebbe sapere se è stata fatta una simile demarche o meno.
    E intanto vorrei approfittarne per fare delle pubbliche scuse ad Andrea Cortellessa per avere in passato troppo “facilmente” ceduto a quella diffusa pratica di “inimicato” tra poeti e critici, specie se di aree contigue, il più delle volte farcita di pregiudizi e attacchi alla persona.

    effeffe

  59. @ Inglese (quasi un OT)
    capisco il paradosso, ma per fare un po’ di pubblicità e “ritornare al reale”, Marcos non patrocinerà mai Romapoesia. Sta patrocinando, invece (cioè stanno patrocinando gli zapastisti) il “Primo Festival mondiale della rabbia degna” a Città del Messico, Municipio autonomo di Oventic e San Cristobal de Las Casas, dove parteciperà (dal 26 dicembre al 4 gennaio, se interessasse…) il fior fiore della dissidenza internazionale, tra cui John Berger, Arundhati Roy (invieranno relazioni), Adolfo Gilly, Raul Zibechi, Michael Hardt, John Holloway, Luis Villoro ecc. ecc.
    PS.: Non basta a mio avviso che governo e amministrazioni locali stanzino più fondi per le cose culturali (se poi, tra l’altro, a parteciparvi sono i soliti scrittori dell’ombelico), ma si tratta di mettere in discussione le politiche culturali di governi e amministrazioni

  60. fuori orario massimo (riapro il negozio. webless) scrivo per un semplice ma non freddo saluto a 360° e per dire che le dimensioni del fiume qui sopra stanno erodendo argini e margini del tempo reale a me (non) elargito dalla struttura capitalistica di cui sono dipendente.

    mi serva di lezione. domanda del sottoscritto al sottoscritto: e mo?

    a stanotte, o post.

  61. Buondì,

    mi inserisco a dibattito ben avviato, per cui mi assumo il rischio di ripetere concetti già ampiamente trattati nei tanti commenti.

    Concordo con chi dice: abbandonare i pochi spazi rimasti corrisponderebbe ad una sorta di harakiri.

    Ha ragione Ostuni quando afferma che ci vengono concessi spazi recintati in cui ogni dissenso viene neutralizzato, ma questi spazi, a mio parere, ci vengono concessi indistintamente dalle destre e dalle sinistre. E poi: scrivete “questo centrodestra” – il centrodestra nazionale, secondo voi, si sovrappone pedissequamente ai governi di centrodestra locali, siano essi in Sicilia o in Friuli Venezia Giulia? Scrivete: “manifestazioni promosse dalle più discutibili fra le amministrazioni locali di centrosinistra” – potete fare degli esempi concreti? Potete spiegare come operare tale distinzione? Invitate “a individuare, contattare, popolare e rivitalizzare assieme i già esistenti spazi alternativi” – per capirci meglio, mi potete fare degli esempi, possibilmente di spazi al di fuori di Roma?

    Vorrei spostare il discorso su un altro livello: quello dell’operatore culturale.
    La grande maggioranza degli autori è impegnata soltanto a promuovere se stessa. Siano ventenni, trentenni, quarantenni, molti dei nostri poeti e dei nostri scrittori impiegano il loro tempo a dare notizia di sé, a cercare sponde, a chiedere o invocare inviti a questa o quella lettura, recensioni, pubblicazioni, basse pratiche di do ut des. Si potrebbe invece impiegare il proprio tempo libero in altro modo: ad esempio fondare un’associazione, e attraverso di essa mettere in rete le persone e le idee, elaborare progetti, chiedere finanziamenti agli enti, ai privati, e organizzare festival, rassegne, dibattiti, eccetera. A me, personalmente, non è mai capitato di ricevere pressioni affinché invitassi questo o quell’artista. Il progetto che ho presentato, da solo o con altri, se accettato e finanziato, ha sempre potuto svolgersi nella massima autonomia. Sia che i soldi o gli spazi me li abbia dati la destra, sia che me li abbia dati la sinistra.

    Credo – profondamente – che un autore debba essere anche (oggi più di ieri) operatore culturale responsabile, combattivo, democratico. Responsabile: che si sforza di conoscere i meccanismi dell’organizzazione culturale (teoria+prassi: imparare a organizzare, una roba mica da niente!); combattivo: che si adopera per conquistare nuovi spazi (siano festival, premi, riviste, luoghi di aggregazione) e danari per farli funzionare in maniera continuativa, al di là della propria presenza (vedi alla voce: costruire per le generazioni future); democratico: che rifiuta le logiche di “cricca”, anche a costo di mandare all’aria delle amicizie o dei riconoscimenti alla propria opera (inoltre: trattare in modo equo gli ospiti di una manifestazione, dallo sconosciuto al premio nobel; dare spazio ai giovani). Vi chiedo: ci stiamo impegnando seriamente in questo senso? Seriamente significa pure “a discapito del proprio tempo libero, del proprio lavoro, dei propri affetti, del proprio studio, delle proprie finanze”.
    Non abbiamo nulla da rimproverarci?

    Ha ragione Inglese quando dice “lo sciopero lo fa chi è salariato”.
    Mi viene in mente la piccola e vicina Slovenia. Ogni anno l’Associazione Nazionale Scrittori sceglie, sulla base delle pubblicazioni, delle recensioni ricevute, delle traduzioni fatte e ricevute, degli inviti a festival nazionali e internazionali, quali autori (divisi in due categorie, se non ricordo male under/over 40) meritino una borsa. In sostanza chi vince per quell’anno avrà riconosciuto un ‘salario d’autore’. Certo, in Slovenia ci sono solo 2 milioni di abitanti, ma è il metodo ciò che conta, e di esempi analoghi ce ne sono, da quelle parti (a Est). Insomma, piuttosto che declinare inviti a letture, preferisco impegnarmi affinché sia maggiormente tutelata la figura dell’autore: consolidare gli spazi esistenti, costruirne di nuovi, affinché in quegli spazi vi sia libertà di parlare e di far parlare l’opera; e cercare finanziamenti, affinché l’autore abbia i soldi per pagarsi il viaggio, l’albergo, la cena, nonché per affrontare la precarietà economica che generalmente lo investe.

    C’è un’ultima cosa. Penso che avreste potuto aumentare la carica persuasiva con una lista di promotori non solo romani. In fondo parlate di “un’iniziativa di dissenso dai governi nazionali”: perché, dunque, non aggregare, nel gruppo di primi firmatari, persone che possono portare altre esperienze, ulteriori punti di vista?

  62. ps: ho visto solo ora il commento di Inglese (14:14, 14:36), e non posso che concordare al 100%: “fare in modo che ci siano altre ‘occasioni pubbliche organiche’ pensate da teste diverse”.
    Aggiungo: la Camera Verde non è rarissima, anzi; ce ne sono molte altre di iniziative lodevoli censurate dai quotidiani nazionali. E se per la romana Camera Verde è difficile trovare spazi sui media, figuriamoci i salti mortali che devono fare altre realtà, lontane dalle redazioni centrali dei giornali, delle televisioni e delle riviste.

  63. @ marzaioli solo perchè chiamata in causa.

    Il dissenso, a mio parere, ha più chances nella forza del discorso.

    Io penso che nella situazione data sia più produttivo approfittare di ogni occasione per prendere la parola lì dove si raccoglie una platea il più possibile larga.

    Quello che mi arriva è quello che riesce a emergere. Il silenzio non mi arriva. Non mi arriva, come ho detto, il suo rumore.

    Temo che i poeti, già marginali, si illudano sulla forza retorica e politica della loro non partecipazione, non vedano che è un silenzio – e un dissenso – troppo interno a un mondo a parte.
    Non ho niente contro la lettura in un’aula universitaria o in un centro sociale, pur non illudendomi che abbia un peso maggiore di una performance episodica.
    Mettere in discussione le politiche culturali di governi e amministrazioni prevede un lavoro politico quotidiano, un’organizzazione mostruosa e capillare, un’ideologia condivisa.

    Quando l’appello dice:

    “convinti come siamo che ogni iniziativa culturale pubblica che fa capo alla politica del governo e delle amministrazioni locali (come anche l’industria culturale privata che fa capo al presidente di questo stesso governo) trovi nell’accoglienza di voci dissenzienti e di denuncia – denuncia a cui non è comunque concesso travalicare certi limiti – il principale mezzo di neutralizzazione di ogni dissidenza”

    mi sento in imbarazzo pensando a tutti quelli che nel mondo non hanno diritto di parola.

    Ci sono a volte, è vero, silenzi efficaci, ma sono d’accordo con il parallelo calciatori/schermidori di effeffe, tra gli aderenti non vedo calciatori.

  64. @marco simonelli
    eheheheheh. vien voglia anche a me, del taralluccio.

    @tutti gli altri, Andrea C. in primis
    more later.

  65. simoné stai tranquillo che non c’è nulla da scegliere:
    io ascolto il dibattito di tutti quelli che capiscono, parlano, scrivono meglio di me, però alla fine di tutto, resto del mio parere: in questa forma di protesta proprio non credo. ognuno è libero di accettare o declinare l’invito secondo le sue convinzioni ma senza illudersi che ciò abbia una qualche rilevanza come forma di protesta.
    credo senz’altro, invece, alla libertà di scelta. alla pluralità delle offerte di quanti si auto-promuovono o promuovono altri. questo il mio pragmatismo: per cui continuerò a fare come ho sempre fatto:
    per il piacere della poesia, di volta in volta, senza nessun secondo subdolo fine occulto, quando potrò continuerò a cercare i “miei” poeti dappertutto e andrò a veder te, il padua, il marziaioli, la marmo, effeffe a napoli
    il nacci a trieste, monfalcone etc etc
    giovenale, raos, zaffarano alla camera verde
    christian raimo alla libreria giuffa
    bortolotti, broggi, inglese a milano
    socci ad ancona…( e chissà quanti ho dimenticato)
    e se riesco vado adesso a romapoesia a vedermi la presentazione video costa-vicinelli della daniela rossi e la performance del Voce che in tanti anni ancora non m’è riuscita e se non ci troverò nessun altro, pazienza, ci si rivede altrove.

  66. Immaginiamo per un momento che adriano padua abbia molte donne, molti uomini e molte auto di lusso.
    Una mattina di una candida primavera decide di donare tutto a sparajurij.
    Sparajurij risponde: sì, no, sì. O viceversa. Non dice grazie poiché ha un brutto carattere.
    Da quel momento sparajurij sa come spendere il suo tempo.
    Non passa più le serate mondane di fronte a un bel semaforo.
    Non organizza più aperitivi in riva al treno…
    Va a carfagne.
    Sfreccia a tutto gas verso l’orgasmo universale.

    Questa che vi abbiamo esposto è una bella favola.
    Anche quella degli amministratori o politici vicini a noi è una bella favola. E forse neanche bella.
    Così come quella di un’improvvisa svolta da parte di tutti coloro che non hanno mai creato percorsi alternativi a corrente alternata o alterata di qualche tipo nella loro breve o lunga vita.

    Mi sembra più facile immaginare che, come adesso, se adriano padua trova una macchina, per caso, o per bravura, la dividiamo. Che quando sparajurij fa il giro delle librerie della sua città per convincerle a dare uno scorcio o squarcio di visibilità alla poesia contemporanea, proponga testi altri oltre la collana che cura con cuore: Propone e consiglia altre piccole realtà che considera facciano un grande e difficile lavoro in questi tempi di grandiosità e allegrezza zero.

    Allora meglio partire dai piccoli gesti, dai piccoli segni giusti.
    E avvicinare e collegare queste iniziative semi oscure, private, provate dalla fatica di provarci.
    Utilizzare la rete per mettere in rete – lo fanno anche in russia pensate (che è vasticella e le genti non sempre possono andare a mosca o pietroburgo per conoscere i poeti contemporanei) – in un luogo collettivo iniziative, produzioni, autoproduzioni, contributi, idee (senza esagerare).
    Magari addirittura fondare un’illegale associazione ade linquere per contrastare la distribuzione mafiosa e la gestione mafiosa.
    Insomma, dato che esiste poca collaborazione reale, solo amicale, da creare c’è un mondo, un sentimento nuevo.
    Ma non toglieteci il gusto di estorcere con l’inganno fondi alle amministrazioni di destra e di destra destra.

  67. Giunto fin qui con qualche diottria in meno, preciso che la persona Tommaso Lisa – la quale eccede la figura autoriale di Tommaso Lisa, peraltro espunta dall’opera critica e in versi – intende tale sciopero come abdicazione dalla funzione dell’io lirico.

  68. Sospendo una volontaria auto-clausura e intervengo perché aderente all’iniziativa e perché a quest’ora – 21:33 – ho un quadro abbastanza definito, seppure caotico, averno letto con calma i vari commenti. Dei quali mi colpisce soprattutto l’equivoco di fondo che avvolge la parola sciopero. Sono portato a credere che vi sia malafede nel non voler comprenderne la portanza. Metaforico o reale che sia. Uno scrittore che promuove uno sciopero, porta nella sfera a lui più prossima e quindi più intima, un momento di doloroso strappo col proprio incessante bisogno comunicativo. Quest’atto, che è atto di rivolta, lo si paga sempre. In questo momento, visti alcuni commenti mi pare che il prezzo sia nel non voler scendere nel fondo di questo atto.
    Sciopero come definisce Marco Giovenale non equivale a tacere. Ma di interrompere, che è cosa diversa. E interrompere in certi luoghi. Dacché ne deriva che quest’atto è politico, e non è estetico. E’ politico perché vive dell’immediato, vive nel qui ed ora, e quindi tutti i distinguo tra equivalenti errori della sinistra e della destra non c’entrano ora. In questo atto. Non mi pare che l’intento della lettera sia di rivendicare un orgogliosa appartenenza alle ragioni della sinistra, ma di opporsi con forza a questa destra. Non la destra storica, non un momento generico spalmato negli ultimi quattordici anni di ‘dominio’ berlusconiano. Ma proprio questa destra qui, questo momento qui. Perché di cose negli ultimi 5-6 mesi eclatanti ne sono accadute: saturanti: buon’ultime le frasi di Cossiga e la sentenza g8. A fronte di questo, non leggo nei promotori una voglia di confinarsi in qualche sperduta provincia della sinistra, ma piuttosto di osservare con lucidità e rigore quello che sta accadendo in questo paese. E se, come emerge dall’intervento di Andrea Cortellessa, anche la sinistra è co-responasbile, che la si chiami a rispondere e si facciano atti anche contro di essa. ma l’estrema equivalenza è pericolosissima, degenera in un relativismo che poi è quiescenza. Che poi è un italico tiramm a campà.
    E se la risposta è quella di Bene, possiamo ammirarne la bellezza da boutade ma non mi si dica che c’è una verità in una posizione che è solipsistica, demagogica e tutto sommato inutile.
    Lo sciopero così definito dunque è un atto disperato, che segue la pressa di coscienza che le parole sono divenute autoconsolotarie. I giornali sono ingolfati da 14 anni di finte critiche, allora è il momento di un atto in più. Le parole sono auto-consolatorie. Per uno scrittore mi pare sia un sacrificio enorme auto-escludersi, e non può essere misurato col bilancino delle convenienze e dei conformismi.
    Occorre impegnare il proprio corpo nella realtà. E se Maria Valente teme una forma di suicidio in questa forma di emarginazione della poesia, a me sembra che si possa vedere l’estrema vitalità e voglia di vivere che questa comporta. Torneranno tempi per queste cose e gli spazi per fortuna non sono pochi.
    Si paga sempre un prezzo, no?
    Questo atto, per tornare a quello che chiedeva Maria, è tutt’altro che astratto. E’ pienamente pragmatico.

  69. Ribadisco la mia adesione allo sciopero. E sciopero anche qui, anche ora, per non perdere tempo a provare a parlare coi sordi, a mostrare strade ai ciechi, a dire “Dai!” ai paralitici.

  70. Scusate la franchezza: ormai anch’io paralitico, e fors’anche scioperato nel mio medesimo, non posso fare a meno di notare come il tono degli ultimi due interventi riporta indietro la discussione, ad un livello di separazione netta tra chi c’è (i buoni) e chi non c’è (i meno buoni, “sordi”, “ciechi” e, appunto, “paralitici”, come scrive la Gaetani delle 22:19; e comunque in probabile “malafede”, come dice l’Ellepi delle 21:56). Eppure mi pareva che un po’ tutti gli intervenuti fossero concordi nel ravvisare la necessità di fare qualcosa, al di là del ritenere efficace o meno lo “sciopero” (e tra l’altro sono intervenute persone CHE STANNO GIA’ FACENDO, dunque doppiamente fuori-luogo la stizza). Forse imparassimo un po’ di reciprocità, uscendo ognuno dalla propria presunta purezza, potremmo davvero cominciare a discutere insieme sulle prospettive. Altrimenti, davvero, continueremo a sputarci addosso con il sottofondo delle risate di chi vorremmo contrastare.

    ng

  71. non mi sento puro. Affatto. Però non concordo su: tutti gli intervenuti fossero concordi nel ravvisare la necessità di fare qualcosa… anzi

  72. Tra qualche giorno si apre http://www.piulibripiuliberi.it/
    molti di noi saranno presenti a diverso titolo in alcuni degli appuntamenti.
    Mi sembra un’occasione giusta per promuovere un incontro completamente indipendente e fuori programma per rivendicare le cose dette finora – trovo infatti che tutte le persone intervenute concordino sulla necessità di “fare” qualcosa – e proporre delle modalità di azione di contrasto o di dissenso rispetto allo stato generale della cultura in italia. L’incontro si potrebbe fare in camera verde se Andrea è d’accordo e soprattutto se è tornato da Parigi o altrove. Contarsi sì va bene però se almeno ci si potesse guardare in faccia…
    Nel caso in cui non fosse possibile – i tempi sono troppo ristretti – quello che posso fare personalmente è di mettere a disposizione dei promotori dell’iniziativa l’esiguo spazio in cui sarò ( si tratta di una tavola rotonda con diversi partecipanti). Potrei aprire a un certo punto su quel fronte invitando uno di loro o distribuire il testo ai presenti.
    effeffe

  73. avevo posto delle domande una ventina e passa di commenti fa.
    il commento di effeffe sopra mi risponde (forse)?
    piùlibripiùliberi è manifestazione patrocinata dalla regione Lazio, dal comune di Roma, dalla provincia, dal ministero dell’Istruzione, dell’Università e della ricerca, dunque mi sembrerebbe, per gli autori aderenti allo sciopero, un luogo in cui non intervenire.
    Se, invece, qualcuno interverrà, sulla base di cosa lo farà? (ma non dovrebbe, essendo patrocinata dagli enti di cui sopra)
    Tuttavia, essendo sciopero a singhiozzo, potrebbe accadere.
    Mi scuso se insisto, ma non sono riuscito a capire le effettive modalità di attuazione della protesta. Nelle linee generali, sì.
    Ma non ho capito se gli aderenti, in caso di inviti ricevuti, si dovranno sentire in modo che tutti rispondano no allo stesso invito (magari di un’amministrazione di centrosinistra, magari considerata da alcuni molto discutibile, da altri meno, in relazione alle informazioni che ognuno può avere su quella amministrazione).
    Inoltre se l’assenza da un evento in seguito ad un invito ricevuto sarà resa manifesta su organi di informazione (che altrimenti, mi sembra che, se uno non va per protesta ad un evento, e nessuno sa della sua protesta e dei motivi che lo hanno spinto a quella scelta, non sia raggiunto lo scopo della protesta: ovvero far sapere che una protesta esiste e che viene attuata in certi modi e che ha certi scopi).

    Per finire: c’è una linea di comportamento che chi ha aderito e chi aderirà a tale sciopero è tenuto a seguire anche nei confronti dell’industria editoriale, dato che questa non può dirsi, credo, libera del tutto e indipendente dalla politica di centrodestra e centrosinistra?

    grazie.

  74. A questo punto del dibattito è difficile dire qualcosa di originale. Io credo che il dibattito sia andato oltre la questione dello sciopero, e abbia posto invece il problema nei suoi termini più ampi: bisogna fare qualcosa. Non condivido l’idea di fare uno sciopero dei poeti, qualcuno in questo dialogo ha spiegato il perché meglio di quanto potrei fare io. Il rifiuto di partecipare e la proposta di sciopero, però, hanno avuto un altissimo valore simbolico, e hanno messo il dito su una piaga: l’assenza degli artisti, degli scrittori, degli intellettuali, dalle lotte che si stanno svolgendo in questo momento. Sono lotte che partono da problemi reali e che non hanno una vera e propria rappresentanza politica. Sono lotte che si stanno autoorganizzando e sono una forma di resistenza. Chi scrive, in poesia o in prosa, non può ignorarle o far finta che non esistano. Per questo sono d’accordo con la seconda parte del manifesto.
    Carlo Bordini

  75. Ribadisco come non ci sia alcuna intenzione, in chi ha poromosso questa iniziativa, di dividere la lavagna in buoni e cattivi. Anzi, l’intenzione è di “fare”, che nella più ampia declinazione significa anche confrontarsi e dialogare. Quanto alle modalità di sciopero, ovviamente ciascuno è libero di scegliere. Proprio perchè non si tratta della costituzione di un partito (anche se mi pare che qualcuno stia confondendo i piani) non c’è alcun comitato che va a censurare questo o quello. Io personalmente, che conto numerosi amici tra editori ed autori nella manifestazione citata da Forlani, sicuramente portò andare a salutarli ed ascoltarli, ma sicuramente non andrò a leggere miei testi e non perchè io sia contro gli amici editori ed autori, ma perchè credo nell’iniziativa che assieme ad altri ho promosso e credo che questa sia la linea giusta (altrimenti non l’avrei promossa). Tuttavia mi sembra che si stia perdendo tempo e fantasia a questionare di aspetti non centrali, sebbene importanti. Non condividere le modalità di protesta non significa non avvertire la necessità di riflettere e soprattutto “fare” qualcosa perché la protesta, in senso lato, abbia efficacia. E’ su quest’ultimo piano che invito qui e altrove (stiamo cercando di organizzare un incontro-lettura a breve; ovviamente ne daremo notizia) a formulare suggerimenti. Altrimenti, se rimaniamo all’interno della logica dentro/fuori, davvero qualsiasi possibilità di efficacia si diluisce all’interno della stanza, come scriveva Alcor.

  76. Solo brevemente, sperando di avere il tempo per affrontare alcune questioni per esteso più tardi. Sottoscrivo comunque in pieno quanto ha appena scritto Giulio.

    @carlo bordini (ma in verità tutti)
    La tua analisi di quanto avvenuto è sintetica ed efficace. A parte la precisazione, pur fondamentale, che NON si tratta – perché dobbiamo ripeterlo cento volte? – di uno sciopero dei poeti, e che fra gli aderenti i poeti sono ormai in minoranza, è vero che si è aperta una questione, e che è stato toccato un nervo scoperto. E’ vero che su questa base ci si può incontrare e confrontare, si può cominciare a fare. (@Gemma, ti ringrazio per il sostegno: ma con questi toni – simili a quelli che mi sono fatto scappare anch’io, a un certo punto di questa conversazione, non convinceremo nessuno).
    E’ vero tuttavia, questo lo rivendico con forza, che senza il rifiuto a partecipare, questo impulso è destinato ahimè a perdersi. Senza il momento simbolico e aggregante, che è componente ineludibile dell’azione politica, e senza _questo_ tipo di momento simbolico, _questa_ presa di posizione netta e leggibile, _questa_decisa negazione, la discussione si perderà o si trasformerà in altro – vedi il nuovo post di Gherardo Bortolotti di oggi – e, probabilmente, in troppo poco. Forse è troppo chiedere un’azione politica ad attori estetici (è LP a sottolineare giustamente la differenza)? Se è così peccato. Ma siamo in 65, non pochi. Potremmo diventare ancora di più. E di meglio, spero.
    L’apertura alla discussione e al confronto, i dubbi che gli stessi interventi di questi giorni mi hanno instillato, non tolgono tuttavia la convinzione di aver fatto una scelta giusta, _più giusta di chi non la ha fatta_; una scelta alla quale per motivi comunque etici, ancor prima che politici, e dunque non consequenzialisti ma intrinseci (@Andrea, questa è la distinzione), e anche individualmente, sono certo di volermi tenere fedele – nella mia qualità di autore: in quella di editor mi sarebbe impossibile – fino a che io riconosca in buona fede che qualcosa è cambiato. Una scelta che si basa sulla semplice considerazione che una collaborazione con poteri anche locali, ma che a livello locale rappresentano la diretta emanazione di un potere paratotalitario, razzista, mafioso, corrotto e corrompente, fieramente antiegualitario, sommamente avido, intento alla distruzione dei presupposti più elementari di civiltà nel discorso pubblico, attivamente bramoso di smembrare e imbarbarire il tessuto sociale della stessa possibilità del dissenso (ovvero l’istruzione primaria, secondaria e terziaria, la ricerca, la comunicazione culturale a ogni livello), un potere che non è solo il potere generico delle fallimentari oligarchie italiane di destra e sinistra ma è in maniera esponenzialmente crescente CHIARA E DIRETTA ESPRESSIONE DI QUESTO GOVERNO, CHE E’ IL PEGGIORE DELLA STORIA REPUBBLICANA e forse in assoluto il peggior governo italiano di sempre con l’eccezione del ventennio; ecco, una scelta, la nostra, che si basa sulla semplice considerazione che una collaborazione pur con le emanazioni locali POLITICHE (non le “biblioteche”) di questo governo sia, sarò minimalista, molto, molto, molto meglio evitarla. Una scelta che dunque, temo ma chissà, mi terrà impegnato presumibilmente per i prossimi anni. E che magari (fatemi essere conseguenzialista per un attimo) mi invoglierà più dei non aderenti a cercare altri posti e altri mezzi, visto che neanch’io ho voglia di clausura.
    Per fortuna, è in ogni caso come parte di questa iniziativa collettiva, e non come singolo pazzoide, che devo rifiutare l’invito di effeeffe, ringraziandolo. Sarebbe bello che la nostra istanza fosse testimoniata alla Fiera, per certi versi. Ma sarebbe meglio ancora organizzare un evento indipendente fuori dalla Fiera, con un’eco sufficiente, nel quale portare avanti il nostro “che fare” (mi rivolgo a Andrea I, Gherardo, Carlo, Andrea C., Adriano e tutti gli altri che ne hanno parlato). Non so se abbia senso immaginare un evento che raccolga non solo chi “scioperando” non partecipa a RP e alla Fiera, ma anche chi vi partecipa o non avrebbe comunque preclusione a parteciparvi, e in cui si discuta di questo e di altro. Non lo so. Metteremmo in scena semplicemente le nostre scissioni? Su che cosa ci potremmo incontrare? Come dare visibilità all’evento se non sulla base di un consenso più generale all’iniziativa? Non sono domande retoriche: davvero lo ignoro. Ma pensiamoci: presto.

    Vincenzo

  77. Essendo uno scrittore non praticante, io non so se la mia rinuncia a scrivere e a presenziare a manifestazioni letterarie possa configurarsi come una sorta di sciopero autoriale. Più probabile che sia la letteratura a negarsi a me, nel senso che la mia è una rinuncia che rinuncia innanzitutto a se stessa, revocando ogni possibile ipoteca sul proprio oggetto. Perché la rinuncia a qualcosa di dato può essere consolatoria e lucrativa, ma se tu non sai a cosa stai rinunciando, ammetti pure che quel qualcosa abbia rinunciato a te.

  78. io non conosco personalmente quasi nessuno degli interlocutori, a parte due o tre. e mi pare di capire che quasi nessuno conosca me. vincenzo (e altri) sono teneri quando si affannano a ripetere “non è uno sciopero dei poeti”: è proprio quello, che i poeti tra gli aderenti siano maggioranza o minoranza numerica poco conta. è uno sciopero di un gruppo di persone, di poeti, che amano “stare tra di loro”. solo bordini ha detto chiaro quello che c’è in ballo, se si vuole andare oltre: l’assenza degli intellettuali dallo straordinario ciclo di lotte – lotte di lavoratori cognitivi, come sono e sempre più saranno tutti i lavoratori nel mondo – che si è aperto da qualche tempo. ma, di più, l’assenza degli intellettuali italiani da molti decenni, in termini udibili e visibili, nelle dinamiche sociali e culturali in Italia e altrove. la loro indifferenza o ignoranza rispetto a un dato semplicemente reale (“il 68 non era immaginazione, era irruzione del reale”, diceva Deleuze): nella cultura come ovunque nella vita si tratta di partecipare a un conflitto, di aprirlo se c’è eventualmente un clima statico. conflitto che si esprime con le scelte dei linguaggi, anzitutto. e poi con la presenza nei punti focali dello scontro sociale, facendone non didascalicamente l’oggetto del proprio lavoro e di tante scelte pubbliche e di tante possibili iniziative. ovvio che tutto ciò arriva da un desiderio, se uno non ce l’ha non se lo può dare. se non si ha in mente una prospettiva di questo tipo, se si continua a rigirasi “tra poeti” (un gruppo di poeti, mica tutti, gli altri stanno in altri clan), gli equivoci le incomprensioni le sterilità continueranno. certo, per me che non faccio il poeta e nemmeno lo scrittore di romanzi, per me che faccio il critico, che scrivo di musica (la più astratta tra le arti, dicono alcuni, mah…) e scrivendone faccio battaglia politica, sui linguaggi, sulla collocazione politica nello scacchiere delle attività espressive di questo o quel compositore o improvvisatore, per me che faccio questo da trent’anni scrivendo sul “manifesto”, per me è più facile: io faccio battaglia politica, sono in campo, da sempre, pur agendo da giornalista e non altro (sono stato qualificato “scrittore” o “autore” perché ho pubblicato due libri). capisco che per un poeta è più difficile. e capisco che alcuni poeti abbiano voglia con iniziative “esterne” alla loro produzione letteraria di fare qualcosa contro un governo (in questo non si può dar torto a vincenzo) che è il peggiore della storia repubblicana. affiancato da un'”opposizione” (quante virgolette ci vorrebbero?) che è del tutto complementare, o addirittura alleata, di quello stesso governo. ci sarebbe il fatto che, invece, dal punto di vista delle soggettività (soggettività di singolarità) sovversive la situazione non è cattiva, anzi. per fortuna qualcuno nel presente dibattito ogni tanto se lo ricorda.
    mario

  79. “e scrivendone faccio battaglia politica, sui linguaggi, sulla collocazione politica nello scacchiere delle attività espressive di questo o quel compositore o improvvisatore,[…] io faccio battaglia politica, sono in campo, da sempre, pur agendo da giornalista e non altro ”

    ecco, appunto. mario gamba, non è affatto diverso o più difficile per un poeta. è esattamente quello che cerchiamo di fare, ci sforziamo di fare quotidianemnete, e su un duplice livello, non solo agendo sul linguaggio, ma anche scrivendo su temi, quetsioni che ci toccano profondamente (autoreferenziale che più non si può, l’ultima volta che mi è stata concessa occasione di leggere in pubblico, ho letto una poesia sulle morti bianche e una sull’eutanasia, e le assicuro che ero assolutamente fuori luogo, eppure…

    è questo il punto,

    nessuno appoggia questo governo, ognuno, a suo modo, sente tutto il peso della scrittura come intervento etc etc -(scusate la fretta ma sono in ritardo anch’io per lavoro-
    ma non concordiamo sull’efficacia di questa astensione e personalmente concordo sempre di meno con quanto scritto da ostuni, ostntando n purismo che rasenta il fanatismo, assolutamnete illusorio…come può ritenersi pulito? con la coscienza a posto solo per non partecipare a una manifestazione culturale? come dire così, vedete? io non mi sporco le mani e con questo corpo sacrificale è per voi, per tutti noi che ho scelto di immolarmi … a rigor di logica non dovrebbe pagare le tasse, nurtrisi, vestirsi, e che so io…

  80. io non mi ritengo certo con la coscienza a posto perché non partecipo a una manifestazione culturale: se vi partecipassi, non mi ci sentirei. non so se ti è chiara, valente, la distinzione fra condizione sufficiente e necessaria. buon tutto!

  81. “sono certo di volermi tenere fedele – nella mia qualità di autore: in quella di editor mi sarebbe impossibile – fino a che io riconosca in buona fede che qualcosa è cambiato.” scrive Vincenzo Ostuni.
    Dunque, in qualità di editor, eventi patrocinati da centrodestra o centrosinistra pari sono? O comunque, per motivi di lavoro altro rispetto a quello più direttamente autoriale, la protesta, in qualche modo, non vale, poiché è il proprio scrivere, e non la propria persona, che, si può dire, obbliga l’autore a non presenziare a certi eventi? per dire: se un autore presenta un altro autore, non essendo il suo scrivere oggetto diretto dell’evento, che questo venga patrocinato da una qualunque parte politica, va bene?
    forse sono domande un po’ così, queste, ma sto cercando di capire fin dove può arrivare questo sciopero, già definito a singhiozzo, quindi solo per quanto riguarda il sé autore (e non il sé editor, o altro). se i termini generali della cosa mi sono abbastanza chiari, quelli più specifici mi sfuggono, e cerco di capirli, con quelli che sono i miei limiti.
    i commenti, più si va avanti e più mi confondono. vabbé.
    grazie.

  82. andrea branco, lo sciopero è dell’autore. in quanto editor non posso IMPORRE al mio autore che non voglia di non andare a una manifestazione, non trovi? il mio dovere professionale (e il mio stipendio) implicano come condizione necessaria il rispetto nei confronti delle scelte e delle preferenze dell’autore; non solo: implica il successo del libro dell’autore. altrimenti farei discriminazione politica verso i miei autori, e non ci penso neanche.

    per quanto riguarda mie partecipazioni personali, in ogni caso, ho sempre rifiutato di intervenire personalmente come editor in dibattiti pubblici, tranne in contesti politicamente viabili.

    quindi non complichiamoci la vita: non pensare a me, la cosa è abbastanza chiara. chi economicamente può, non partecipa, o almeno non partecipa regolarmente, a eventi patrocinati da enti POLITICI nazionali e locali governati dal centrodestra. chi economicamente non può (attori, musicisti ecc.), porta altre forme di sciopero o porta anche solo una protesta nel suo lavoro: le forme sono tante e si possono immaginare. si può anche protestare contro governi locali del centrosinistra. qui non c’è un comitato centrale a giudicare.
    grazie per la passione dirimente, comunque,
    v.

  83. Condivido l’intervento di Mario Gamba, parola per parola, e in particolare quando scrive:

    «nella cultura come ovunque nella vita si tratta di partecipare a un conflitto, di aprirlo se c’è eventualmente un clima statico. Conflitto che si esprime con le scelte dei linguaggi, anzitutto. E poi con la presenza nei punti focali dello scontro sociale, facendone non didascalicamente l’oggetto del proprio lavoro e di tante scelte pubbliche e di tante possibili iniziative».

    Questa frase sintetizza alla perfezione la responsabilità di ognuno di fronte alla condizione storica, a qualsivoglia titolo la si abiti.

    ng

  84. “il mio dovere professionale (e il mio stipendio)” :-)

    (non volermene, ostuni, ma forse la parola sciopero è inadeguata e fuorviante)

  85. Io credo che queso non-sciopero sia nella sostanza sensato, ma non colga nel segno.
    Il problema della poesia e degli spazi dove esprimersi è molto più complesso di un semplice passaggio di consegne nelle pubbliche amminsitrazioni locali. Quello che posso dire, in base alla mia personale esperienza di letture pubbliche patrocinate più o meno da Veltroni, giornate mondiali della poesia, case della letteratura, globe theatre etc, è che guardavo in faccia quella gente che veniva a sentire, i buffet, i dialoghi post-lettura e provavo disagio, frustrazione, rabbia. Quanto al mondo della poesia italaina, al nostro mondo comprensivo di boschi, selve e sottoboschi intercomunicanti eppure così lontani dal parlarsi, ho quasi sempre avuto la sensazione di trovarmi all’interno di un sorta di tabernacolo, piuttosto chiuso, a tratti snob, e per me fare poesia ha una valenza fortemente politica, è sempre stato così, parlar econ gli altri, comunicare, esprimersi.
    La sostanziale identità fra chi legge e chi ascolta poesia nei comuni italici, roma in primis, mi ha messo di fornte a facce, umori (me stesso in primis) poco attenti al dialogo con la ‘diversità’ (parlo dei versi, delle scritture), cioè si stava insieme, si leggeva insieme, senza un reale scambio. E’ un mio disagio caratteriale, probabilmente, sono una persona chiusa, scorbutica, a tratti posso dare l’impressione di
    essere un presuntuoso, però ecco per non rendere la poesia un mezzo di comunicazione più scaduto di quanto già non sia, forse sarebbe opportuno in primo luogo ripensare gli spazi pubblici di lettura come luoghi di confronto, anche di scontro fa modi diversi di pecepire le parole e non come luoghi in cui, di fatto, si finisce a ‘competere’ per una pubblicazione non postuma, con la benedizione di qualche docente universitario.
    Inendo essere chiaro: io le detesto, le logiche di mercato delel gradni case editrici, ho fatto esperienza sul mondo veltroniano della cultura e sui suoi vistosi limiti e all’univesrià ci campo.
    Ritengo che ragionare da ‘comunisti’, come io mi sento, sia alora a maggior ragione incompatibile con l’attuale mondo-poesia italico, quello politicamente schierato e miitante, se siamo comunisti o di sinistra dobbiamo distinguerci innanzitutto per il modo in cui la cultura viene gestita e qui non mi riferisco solo, ma certamente anche all’area Balestrini, Pagliarani, o al figlio di Pedullà….
    Oggi, per pubblicare versi, si deve in genere pagare, o fare parte di un ‘gruppo’.
    Sto parlando a persone che probabilemnte votano il mio stesso partito e sento il dovere di denunciare che oggi, come ieri, il rischio connaturato ai modi in cui sono gestite le manifestazioni di poesia è quello di oscillare fra i soliti attestati prelimianri stima e amicizia per singole persone e schiaccianti, minoritarie, narcisistiche logiche neocorporative…cioè di non usicre fuori dal tabernacolo, di dirsela e cantrsela fra quattro gatti colti.
    Che queste logiche siano collegate a grandi case editrici o al mondo universitario, o a entrambe le cose, è cosa che mi interessa molto poco, perché alla fine si nullifica comunque il patrimonio umano che c’è dietro la genesi e la lettura di una buona poesia. Ci si incattivisce su microcarriere.
    Tutte le volte che ho letto poesia in pubblico, a Roma, mi sono guardato intorno e ho avuto la sensazione di non avere senso, tutto qua.
    Ultimo appunto: verissimo che il testo di Gaber di cui parla Andrea Cortellessa è odioso, qualunquista e quant’altro, però a maggior ragione la domanda da porsi oggi, con riferimento a romapoesia o ad altre esperienze, non è tanto quale sia il tratto distitintivo fra il patrocinio veltroni e il patrocinio alemanno, ma quale senso abbia scrivere poesie in Italia.
    Un saluto a tutti, con la solita stima e amicizia. Marco

  86. Una proposta banale, ma da qualcosa bisogna cominciare: partecipiamo con uno striscione allo sciopero del 12.

  87. @ Carlo Bordini (ma a tutti)
    Certo, Carlo, che bisogna fare qualcosa. Non raccolgo le provocazioni di chi sostiene che qualcuno, qui, vorrebbe il contrario (se non per chiedermi come alcuni di costoro non vedano contraddizione alcuna fra questo proprio intransigente radicalismo e il collaborare – fieramente rivendicandolo, sino a poco tempo fa, contro-tutte-le-ideologie – al Domenicale di Marcello Dell’Utri). Il problema è cosafare, ovviamente. Per esempio cominciando col non fare cose sbagliate, controproducenti, o che comunque (conseguenziariamente parlando) danneggino l’obiettivo che si vuole conseguire. (Sempre che un obiettivo ci sia, come ricordava Inglese qualche commento fa; altrimenti si rientra in un discorso di testimonianza individuale che ciascuno di noi può rivendicare a proprio nome, per il proprio passato come per il proprio presente. Stare bene con la coscienza, starci sempre meglio, starci fra quattro guanciali: questo atteggiamento si chiamava, una volta, da anime belle.)
    Partiamo dall’empirico. Non sono (@Giulio M) “aspetti non centrali”. Se le coscienze sono a posto, e tutti siamo d’accordo al riguardo, è proprio in termini empirici e basso-materialistici che si deve operare. E dunque quello che si fa, e dove lo si fa (nella fattispecie è questa la questione, giusto?), non è “non centrale”. E’ la cosa stessa, invece.
    Esempi concreti, dunque. Io evidentemente sbaglio (secondo Sciopero), ma non guardo alle coperture istituzionali delle cose (coperture che oltretutto, come sa chiunque abbia provato una volta a organizzarne una, sono spesso dovute a pura casualità e il più delle volte non mutano le condizioni pratiche di realizzabilità delle cose stesse). Guardo alle cose. Alla loro storia, certo; soprattutto alla loro identità presente. Prendiamo casi concreti, ripeto, se no mi pare che restiamo sui principi generali e non serve a granché (come da qualche parte si comincia giustamente a protestare).
    Di Romapoesia s’è detto (ma ci tornerò dopo). Case-study n° 2: la scorsa settimana si è tenuto nelle Marche il Premio Volponi per la poesia civile. Nella giuria presenziante e, se non sbaglio, fra i lettori di testi, c’erano anche alcuni dei firmatari dell’appello di Sciopero (dei sottoscrittori, voglio dire). Ora, due delle amministrazioni (molteplici) che sostengono la cosa (la quale, sin dal nome che s’è scelta, non mi pare evidentemente sospettabile di terzismo inciucismo o altro), sono per l’appunto di centrodestra. Non mi pare che nessun intervenuto previsto abbia incrociato le braccia (sottoscrivo quanto detto molti commenti fa da qualcuno che non ricordo: sarebbe più comunicativo se uno annunciasse di andare poi si presentasse e tacesse o detournasse, o al limite non si presentasse; se si astiene invece prima della comunicazione dei presenti la sua protesta ovviamente è inavvertita all’esterno e dunque non è una protesta inefficace: non è neppure una protesta). Ma avrebbe avuto senso che lo facesse? (La manifestazione in oggetto, come Romapoesia, ha preso le mosse sotto un’amministrazione di centrosinistra.)
    Case-study n° 3: Più libri più liberi. E’ una mostramercato alla quale vengono ammessi (fra molte discussioni, cresciute da ultimo in proporzione alla crescita della visibilità e del successo della cosa; e non è detto che non abbia ragione chi non partecipa protestando contro i criteri di selezione e giustapposizione degli editori esponenti) solo piccoli e medi editori. Per es. credo che la casa editrice di Vincenzo (correggimi se sbaglio) non vi partecipi. Anche in questo caso ovviamente la manifestazione è stata ideata ed è cominciata sotto il centrosinistra (sia pure quello discutibile di cui s’è ampiamente detto). Per inciso la mia casa editrice non vi partecipa (il che ho sempre disapprovato).
    E’ un fatto che si tratti di una manifestazione di successo (leggi: i lettori ci vanno e, incredibile dictu!, vi acquistano libri: in proporzione, molto più che a Torino), e che dunque ha sempre maggiori coperture mediatiche (dirette di Fahrenheit ecc.). Un’azione in quella sede avrebbe dunque grande eco. Ma no, non si può fare perché macchiata dalla cotutela del Comune. Squisito esempio del tafazzismo già stigmatizzato.
    Se dobbiamo operare sul piano simbolico-mediale, come già detto da Alcor, dobbiamo farlo dove i nostri simboli possano essere inquadrati dai media (da qualche media almeno). Scusate, lo dico col massimo rispetto, ma non è questa la situazione della Camera verde, per es. (Se pensate che sia colpa dei singoli operatori mediali, provate a proporre voi al direttore delle pagine culturali di un quotidiano una serie di iniziative, poi venitemi a riferire la sua risposta.) Apprezzo moltissimo il lavoro della Camera verde, ma non è un termine di paragone: né per il Palazzo dei congressi dell’Eur né, con tutti i suoi limiti, per la Casa delle Letterature. Non penso esattamente che il mezzo sia il messaggio, ma certo il mezzo è parte integrante del messaggio. Se protesti chiuso nella cabina del telefono è un discorso, se lo fai su Radio Tre Rai un altro.
    E’ per questo, mi spiace se devo dire un’ovvietà, che i microfoni, chi li ha, se li dovrebbe tenere stretti, specie adesso: in metafora e fuori. Dico fuori di metafora perché per es., tornando a Romapoesia, l’edizione dell’anno scorso, ospitata da una delle persone in tutti i sensi migliori che ci siano nella nostra città, Simone Carella, aveva dei microfoni che non erano all’altezza della natura e del livello delle performance previste. Non è fighettaggine, questo rilievo. E’ senso della forma di un’espressione: un livello che non cale ormai a quasi nessuno, fuori di qui, ma che qui penso dovrebbe. (Approfitto anche per rispondere al commento di Inglese: è vero, da undici anni Romapoesia ha lo stesso binomio al vertice; ma negli anni, accanto a loro, con un’apertura da parte loro che francamente non riscontro altrove, essi hanno chiamato di volta in volta persone diverse: da Marco Giovenale a Riviello&Davoglio, sino a me nelle ultime due edizioni. I contenuti, infatti, sono cambiati – non necessariamente in meglio com’è ovvio. Se ciò non appare, non ci posso fare niente. Sempre in inciso: a Sciopero è stato proposto di venire a Romapoesia solo per pubblicamente dire perché non vi partecipava, ma questo a Sciopero è apparso già-contaminante.)
    Veniamo a un altro livello. Concreto, praticissimo, basso-materialista.
    Mettendo – come si dice – i piedi nel piatto, Andrea Branco chiede al promotore principe di Sciopero perché in qualità di editor si senta tenuto a un’etica diversa da quella che osserva, e caldamente raccomanda di osservare, in quanto autore.
    So cosa potrebbe rispondere, Vincenzo (probabilmente l’avrà già fatto quando terminerò di scrivere questo ulteriore pistolotto). Si badi bene: io rispetto moltissimo il tengo-famiglia; lo irride solo chi non la tiene, la famiglia, o viceversa chi ne tiene una fortissima alle spalle. So bene che non è il suo caso, dunque ripeto il massimo rispetto da parte mia.
    Ma questo nodo non si può aggirare: dico quello delle scelte editoriali e della loro etica. Torno a segnalare Bibliodiversità del verri 35, 2007. Lì c’era un tentativo concreto e basso-materialista di riflettere, da autori e intellettuali, sulle questioni strutturali che imprigionano la nostra attività, ma anche i nostri eventuali scioperi (continuando a usare, per capirci, questo termine che continuo a considerare infelice). Cioè la sostanziale invisibilità mediatica di produzioni testuali e culturali che, di per se stesse, siano alternative e contestatarie nei confronti del sistema simbolico-mediale dominante (ivi comprese proteste, scioperi ecc.).
    Ribadisco: mi aspettavo che quello sforzo di elaborazione teorica (e di praticissimo lavoro volontario, il che non è affatto OT) potesse costituire una piattaforma, il punto d’attacco per una critica al sistema editoriale italiano: fra gli altri, proprio da parte di chi oggi protesta. Cioè per intervenire concretamente sulle concrete forme di esistenza di chi fa il nostro mestiere. E invece abbiamo fatto un paio di incontri in giro (uno, ricordo, molto animato fra editori in un centro sociale procuratoci da Sergio Bianchi) che non ha visto la partecipazione di nessuno fra gli oggi Scioperanti (correggettemi se sbaglio). A Palermo ne ricordo un altro (organizzato dai bravissimi di Modusvivendi), parimenti senza conseguenze. A Palermo, in particolare, venne fuori un’idea concreta: facciamo una rete di librerie indipendenti che si opponga allo strapotere distributivo delle majors, eleggiamo concordemente una serie di prodotti culturalmente alternativi, difendiamoli (attraverso sconti, promozioni, presentazioni online che ci affranchino dall’orrore desolante dei sei spettatori di media). Ma, come non riuscì un’analoga rete fra editori propugnata anni fa dal compianto Alfredo Salsano (la Fiera di Roma all’Eur, però, è nata anche in seguito a quel tipo di sensibilità; e ha avuto il successo che ognuno sa), così non è decollata quest’altra idea. Troppe rivalità fra soggetti (indipendenti, e dunque creativi, e dunque litigiosi certo: sempre secondo il teorema di Tafazzi), troppi problemi operativi e logistici. Troppo lavoro da fare, insomma. (E’ un lavoro anche superare le nostre divisioni, ovviamente: come sa chiunque abbia mai, in vita sua, lavorato in gruppo.)
    Secondo me è da un piano come questo che si potrebbe ricominciare a lavorare. E sono certo che i media, alcuni media almeno, non sarebbero affatto disinteressati a questo genere di iniziativa.
    Se operiamo, con tutte le energie a nostra disposizione, perché funzionino al meglio i microfoni, saremo noi a decidere – oltre che cosa dire, il che già decidiamo bene o benino – dove e quando dirlo.

  88. @Andrea, brevissimamente

    Io c’ero all’incontro nel centro sociale fra editor e editori, ricordi? Quanto a etica delle scelte editoriali, sento di essere fra i migliori compromessi viventi in Italia. E sento di aver fatto del mio meglio possibile sul piano dei contenuti, dimostrando in prima persona con il mio lavoro che è possibile, materialmente possibile, fare contemporaneamente editoria di qualità ed editoria politicamente impegnata, da un lato, e reggere in piedi le sorti di una casa editrice dall’altro. Altro che anima bella. Io non ho certo voglia di clausura, l’ho detto. Né come editor né come poeta. Ma un microfono scassato mi va benissimo. Citando Mantello, ho molto più “senso” con un microfono scassato a Lettere martedì prossimo che con un microfono intero sotto l’insegna comunale a RP.

    @alcor
    scusa, ma che intendi? attenta che ti querelo.

    @ng
    mario gamba è fra gli aderenti, e le righe che tu citi fanno riferimento anche allo sciopero.

    @carlo bordini
    d’accordo – che ci scriviamo?

    @marco mantello
    le cose che dici contengono ovviamente moltissimi spunti – ma dove vuoi arrivare? se non cerchiamo di limitare il discorso

  89. @tutti, tranne chi si esprime per contumelie e insinuazioni:

    e comunque in generale, mi sembra che la conclusione di andrea sia: bene, troviamo un modo di lottare insieme. ok, troviamolo. chi aderisce? cioè, chi vuole far parte, fra i presenti a questa discussione, creare un tavolo comune? però a quel punto direi che ci si vede in privato e si capisce come “comporci”.

  90. grazie vincenzo per le risposte.
    non mi torna troppo il potere economicamente o meno, perché credo che chi decida di fare uno sciopero non guardi troppo al poter economicamente sostenerlo. i giorni di sciopero non vengono pagati, a quel che so.
    comunque credo di aver capito meglio, grazie.

  91. Vincenzo

    certamente il discorso deve avere dei limiti altrimenti si finisce sui massimi sistemi, credo che quello che tu dici a proposito di leggere con un microfono scassato a lettere sia in linea con quello che penso e in parte costituisca una risposta alla tua domanda.
    Nel mio intervento non c’è, in effetti, un luogo preciso dove voglio arrivare, ci sono certamente un grande disagio e il bisogno, che sento molto forte, di aprire un dibattito sulla possibilità di trovare spazi alternativi in cui esprimersi e sopratutto di recuperare un minimo contatto con la ‘realtà’ cioè con le ‘persone’, la poesia è vero no nla legge nessuno e questa cosa influisce da sempre sul ‘come scrivo’, il problema di fondo, da lpunto di vista della comunicazione è: ‘a ch imi rivolgo quando leggo’? Chi mi viene a sentire? Ci sono modi possiibli, praticabili, di uscire da romapoesia (dove peraltro sono entrato solo una volta, nl ’98) o casa delle letterature? a me interesserebbe discutere di quello che scrivo con un pubblic odi studenti delle medie, o d iu nliceo di periferia, per esempio, lo si può fare? Visto che stiam oparlando di ‘imepgno’ a livello ‘locale’, alla fine, e per tornare sulla ‘terra’, o a un discorso ‘terra terra’ sulla nostra città…Un saluto

  92. @ ostuni (spero che l’emoticon sia incorporato nella minaccia di querela)

    Mi pare strano dover specificare, però lo faccio volentieri, lo sciopero prevede un lavoro dipendente e salariato sul quale va a incidere e che prevede una detrazione salariale, o una non detrazione se è bianco, ma sempre all’interno dell’organizzazione del lavoro.

    Non ti accusavo di doppiezza (del genere: scioperino gli altri, gli autori, che io devo badare allo stipendio) ti facevo notare la contraddizione in termini, che porta a una certa confusione.

    Pace?

  93. che i poeti e gli scrittori romani appoggiano i movimenti, gli studenti, le donne, e sono contro questo governo

  94. @ Vincenzo:
    sì, ma la frase di Gamba che ho riportato va ben oltre lo “sciopero” e riporta un concetto importante, espresso anche da me nei precedenti interventi, ovvero quello della militanza nei segni («scelte dei linguaggi» le chiama Gamba, ma è la stessa cosa), che non mi pare molto in sintonia con quanto affermato da chi, in questa sede, è intervenuto a favore dello stesso “sciopero” …

    Permettiami poi un po’ di ironia, così, facendo finta di stare davanti ad un ottimo Amarone del 1996: vedo che anche tu ti “comprometti” col sistema … Ahi, ahi, ahi, Signora Longari, m’è cascata sull’editor …

    ng

  95. “militanza nei segni”
    è meglio dello Jaegermeister!
    a parte gli scherzi, ng, ma così formulata è perfetta
    effeffe

  96. @ alcor: mi intrometto, scusa,e la butto sul sociale, ma il tipo di sciopero che tu prospetti riguarda categorie “storiche” di lavoratori, una volta si diceva garantiti, con la loro busta paga, i contributi in regola, ecc. dal cui salario il datore di lavoro può detrarre l’equivalente del tempo scioperato. Ma con le forme odierne di lavoro precario, con molti e sempre di più giovani che lavorano (in uffici, studi privati ecc.) a tempo pieno con retribuzioni a forfait (spesso anche 200-300 euri al mese…), senza contributi, previenzione sanitaria ecc., ebbene, tutti costoro non possono scioperare? A mio avviso, e passando agli scrittori, penso che sia la retribuzione (i gettoni di presenza, i cachet, i rimborsi spese, ecc.) data loro l’unico elemento concreto che consente di parlare (magari metaforicamente) di sciopero. E questo mi pare valere anche se il risultato economico del loro lavoro (intellettuale) fossero cento euri al mese (o all’anno).

  97. No, non possono scioperare, lo sciopero, che è collettivo, prevede un rapporto di lavoro dipendente, un contratto, dei doveri, dei diritti e delle tutele.
    Poi, se vuoi chiamare sciopero un’altra cosa, liberissimo, ma è un’altra cosa.

    Tutti quelli che dici tu possono astenersi da lavoro, e visto che non hanno un contratto di lavoro dipendente il loro datore di lavoro può fare quello che non può legittimamente fare il datore di lavoro tradizionale, la serrata, della porta, il giorno seguente, lasciandoli a casa.

  98. ok, me li sono riletti tutti perdendo altri decimi.
    io suggerirei quanto segue:
    – ripensamento semantico del nome dell’iniziativa (“protesta dell’autore” per es.)
    – modalità di protesta atte a reinventare il silenzio (e qui già favoleggio uno stuolo di autori vestiti di nero che si sbattono la bottiglia di minerale sullo scroto, immagine mitologicamente efficace e di grande impatto se praticata in gruppo)
    – il discorso della visibilità dell’operazione: mi viene in mente un’iniziativa un po’ modaiola che ha preso piede negli ultimi anni (non ricordo il nome, l’ho letto su Focus ma forse potrebbe tornare utile). Ci sono gruppi di persone che si danno appuntamento tramite web: si ritrovano in un punto x per fare una cosa y e poi spariscono. Tipo: convergono tutti a Roncobilaccio vestiti di arancione e cantano in coro viva la pappa col pomodoro, per es. Azione futile che potremmo risemantizzare, tipo: ci diamo appuntamento in una piazza, ognuno con un testo, li leggiamo tutti contemporaneamente dopodichè ci disperdiamo.

  99. credo che tafazi sia senza sesso. Lo scroto non è reale ma solo sede ideale dell’autorialità.
    Ora, io sono cosciente che quanto dico possa essere visto come una boutade. Ma non vuole esserlo. Credo che il silenzio come azione possa essere un inizio ma non la fine nè il fine. Qui sono stati segnalati disagi e malesseri specifici. I fraintendimenti inevitabili a me sembrano superabilissimi. E insisto a dire che vedo un pensiero comune in tutti questi commenti, una condivisione di problemi che ci stanno a cuore. Non entro troppo nella questione della parola “sciopero/dimostrazione/dissenso”: credo d’aver intuito che al di là delle definizioni qualcosa che ci accomuna c’è. E penso che si possa trovare un modo comune d’espressione. Che sia silenzio/azione o rumore/azione, io sarei per concentrarsi adesso sull’azione.
    E lo so che detto da me sembra citrullesco ma sto parlando seriamente.

  100. come nome dell’iniziativa mi piacerebbe “foglio di via” 8magari al plurale)
    e ogni autore legge nella propria città in un angolo, libreria, caffè, alla stessa ora, riprendenola con una webcam, l’omonima poesia di franco Fortini

    Foglio di via

    Dunque nulla di nuovo da questa altezza
    Dove ancora un poco senza guardare si parla
    E nei capelli il vento cala la sera.

    Dunque nessun cammino per discendere
    Se non questo del nord dove il sole non tocca
    E sono d’acqua i rami degli alberi.

    Dunque fra poco senza parole la bocca.
    E questa sera saremo in fondo alla valle
    Dove le feste han spento tutte le lampade.

    Dove una folla tace e gli amici non riconoscono.

  101. e perchè no leggerla nei consigli comunali, di destra e sinistra, sopra e sotto, o lenzuolare le nude e grandi piazze davanti ai municipi.
    effeffe

  102. mi riinserisco dopo avere continuato a leggervi. Son sempre una musicista che non canta più e che ha quindi altre modalità per resistere e protestare. E’ chiaro che intercettate anche voi il punto cruciale nel quale ci troviamo e che era sensibile ed evidente anche prima delle proteste studentesche. Non entro sulle vostre modalità, ma per piacere non dissolvetevi. Inoltre leggendo Mario Gamba e un altro commento precedente che parlava di possibili slogan credo che la lotta direttamente politica non la si debba praticare in questo modo. Voi siete potenti e irradianti e devastanti per il pensiero che si vorrebbe dominante solo essendo poeti e scrittori come io lo ero quando cantavo. Non è questione di scrivere di morti bianche ma di scrivere come per un musicista suonare “bene” e dissolvere così il “nulla mediocre” che si spaccia per arte. Qui si vuole non fare mai arrivare a nessuno qualcosa che sia consistente, che sia davvero di qualità, di quelle cose che ti cambiano la vita. Quello che dico è sicuramente marginale, ma non fate gli attori che vanno a parlare del film, voi siete potenti in quello che fate e questo è sconvolgente oggi.

  103. 1) Trovo sensatissima la proposta di Carlo Bordoni (partecipare come gruppo allo sciopero del 12, come ci si può organizzare?);

    2) Trovo che se la smettiamo di fare questioni TEORICHE (nun se po’ di’ sciopero perché lo sciopero bla bla bla, Alcor, santo Dio!) forse è meglio;

    3) Trovo patetico chi usa la contestazione di questo sciopero per far pubblicità alle proprie attività;

    4) Trovo che la poesia contemporanea debba uscire dai luoghi istituzionali finora deputati alla poesia, soprattutto se sono luoghi di centrodestra o amministrati dal centrodestra, perché negando la presenza e intanto diffondendo lo sciopero d’autore forse non riusciremo ma avremo di certo provato a scalfire lo status quo;

    5) Trovo che la poesia contemporanea spesso circoli nei circolini dove i presentatori sono sempre gli stessi e le presenze sempre le stesse e i gettoni di presenza magari invece aumentano, me lo auguro per loro e si faccia pure, ma che non si dica che quella e solo quella è la poesia contemporanea, e non si creda di fare chissà che servizio alla poesia partecipando invece che, appunto, tacendo e mancando (ma questo è un discorso ben più ampio), cercare di costruirsi una carriera come poeti è un conto, essere veramente poeti – ovvero passare alla storia, ovvero parlare alla gente – è un altro;

    5) Trovo, Vincenzo, che la tua pazienza sfiori quella di un Gandhi, perciò ho pensato che forse è il caso di imparare da te, un po’, forse, ecco la ragione per cui sono ritornata a scrivere questi quattro punti, e ho pensato che se dobbiamo proprio parlare allora parliamo, iniziamo a parlare.

  104. a proposito di poeti… dalla Stampa di Torino giunge una grande notizia

    MILANO
    Elio e le storie tese non accettano l’attestato di benemerenza che il Comune di Milano gli ha assegnato e che gli sarebbe stato consegnato durante la tradizionale cerimonia del 7 dicembre, giorno di Sant’Ambrogio, patrono della città. Elio e le storie tese lo annunciano in una lettera inviata al Comune e nella quale spiegano che la loro decisione è motivata dal disaccordo con la scelta di non assegnare l’Ambrogino d’oro a Enzo Biagi e la cittadinanza onoraria a Roberto Saviano.

    «Abbiamo ricevuto il vostro invito alla cerimonia per la consegna dell’attestato di Benemerenza civica in data 7 dicembre 2008 – scrivono Elio e le storie tese nella lettera inviata al Comune -. Desideriamo in primo luogo ringraziare chi ha proposto il nostro nome. Vi comunichiamo altresì che non intendiamo accettare la Benemerenza, poichè siamo in disaccordo con la vostra decisione di non assegnare l’Ambrogino d’Oro a Enzo Biagi e la cittadinanza onoraria a Roberto Saviano, come riportato dai principali organi di stampa».

    «Come abbiamo fatto in questi vent’anni – aggiungono -, continueremo a rappresentare al meglio Milano, la città in cui siamo nati, viviamo e lavoriamo; che amiamo profondamente e che, proprio per questo, vorremmo vedere meglio trattata e rappresentata dalla sua amministrazione comunale».

    (sic et simpliciter)

    La decisione di Elio irrita la Lega: «Come milanese e come fan di Elio – ha affermato Salvini, capogruppo del Carroccio al Comune di Milano – mi spiace per questa scelta, ma è la migliore dimostrazione che quest’anno gli Ambrogini non sono stati assegnati seguendo criteri politici. Elio invece, con questo rifiuto, si è prestato ai giochi della politica e delle contrapposizioni tra destra e sinistra». Dopo aver candidato, con intento squisitamente polemico, alla medaglia d’oro il direttore di Famiglia Cristiana don Antonio Sciortino, poi finito tra i benemeriti, Salvini ora deve fare i conti anche con il rifiuto all’attestato da parte di una band, che proprio da lui era stata sostenuta. «Continuerò ad ascoltare Elio e a considerarlo geniale per la sua musica – ha concluso Salvini – ma con questo scivolone non ha dimostrato il suo solito spirito e la sua solita sapienza».

  105. @ Vincenzo

    Scusa (scusate tutti il doppio invio), avevo dimenticato che tu c’eri eccome, all’Esc. Non è un caso, però (forse), questo mio lapsus. Perché all’epoca tu eri momentaneamente fuori gioco, editorialmente parlando, e percepivo la tua presenza come quella di chi testimoniava (il che puntualmente facesti) proprio come l’esperienza da te vissuta, di compromesso nobile, fosse saltata per insipienza padronale. Sai quanto nobile consideri il compromesso realizzato da te all’epoca, non parlo di me (se no salta fuori qualcuno a dire che lo faccio per farmi pubblicità, certo che se ne devono sentire!) ma basta pensare alle collane dirette da Chiodi e dal giovane Pedullà (anche su questo qualche commento fa ho letto una riga poco simpatica, nonché assai poco informata), ai veri successi editoriali (finanche commercialmente parlando!) che il padrone di cui sopra ha gettato bellamente alle ortiche, per sanzionare come il tuo caso sia stato a sua volta un case-study. Tanto più mi sorprende in molti (e dapprima e alla base in te, scusami) l’assoluta negazione di ogni forma, se non di compromesso, quanto meno di distinzione, di opportuna duttilità: specie in situazioni complesse e sfumate e ambigue come quelle, tutte, in cui ci troviamo ad operare. E tanto più mi sorprende che questo piano di problematiche (concrete e basso-materialistiche), e dunque di possibile azione, a mio modesto modo di vedere di gran lunga il piano più concreto nonché il più urgente, sia qui così poco discusso (ma già, che sbadato, è tutta pubblicità per me).
    Comunque a discutere, in privato (anche se sei stato tu a dire che erano pubbliche le obiezioni che ti ho fatto appunto in privato), ci sto sempre. Siamo stati a sgolarci fino all’una e mezza di notte, l’ultima volta. Chi ci vuole stare, beninteso, è bene accolto. Se dico “privato” è perché la forma blog, pubblica ma non per tutti (senza le firme di alcuni, senza le storie di altri, senza le facce di nessuno), mi pare incoraggi in molti, me per primo beninteso, deficit di limpidità (e in ogni caso rende arduo il feedback).
    Organizziamo un’assemblea (anche se da adolescente la forma moloch “assemblea” mi incuteva ancora più terrore di quella “sciopero”), dunque, e discutiamo forme concrete di azione. Mi resta però, ti confesso, la riserva mentale (o emotiva) che l’azione in corso, invece (che se non s’è dimostrata sbagliata su tutta la linea quanto meno ha ricevuto molte critiche), non sia stata parimenti discussa, prima. Vuol dire che la prossima volta andrà meglio (forse).

  106. Altro esempio del piano su cui mi piacerebbe che questa assemblea virtuale dicesse la sua (ma che soprattutto mi piacerebbe discutere in un’assemblea fisica).
    L’editore Meltemi (che a sua volta all’epoca di Bibliodiversità – attenzione! pubblicità occulta! – venne all’incontro di Esc), in assoluto fra i più meritevoli del paese in campo saggistico (collane di punta sull’antropologia, sui cultural studies, ecc.), è in grave crisi (sfido! stante la concentrazione editoriale-distributiva di questo paese ci si sorprende che qualche non major non sia in grave crisi). Qualche giorno fa mi arriva da loro una singolare lettera circolare che invita i lettori ad affrettarsi a fare acquisti, i cui oggetti al limite si potrebbero devolvere a biblioteche o simili (biblioteche? purché non in comuni di centrodestra!).
    Non faccio nemmeno in tempo a contattarli, a chiedere come si debbano fare questi acquisti, a chiedere loro di fare magari un pezzo sul giornale per denunciare la cosa (provare a fare, beninteso!), che mi arriva da altra fonte la notizia che sono già partiti i licenziamenti. Iniziativa, quella degli acquisti forzosi, in sé discutibile (se i loro libri erano buoni prima andavano acquistati pure prima, ovvio; è un po’ l’obiezione di base a Sciopero), ma che segna un punto limite di disagio. Ma soprattutto, come pare ormai evidente, presa fuori tempo massimo.
    Mi riprometto di saperne di più, ma questi piccoli grandi smottamenti di capisaldi di resistenza teorica e linguistica (secondo un motto che sono pronto, da sempre, a fare mia) sono segnali gravissimi. Forse più concretamente gravi delle braccia tese al Campidoglio. (Mi spaventano più mille punture di vespa di una sciabolata, diceva quello.)

  107. Cari interlocutori tutti,

    mi affaccio assai tardivamente su questo dibattito, quando insomma è in procinto di chiudersi. Difficile aggiungere qualcosa; né, a questo punto, lecito.
    Mi limiterò allora a esprimere un certo senso di soddisfazione: un confronto serrato intorno a un problema etico, sempre presente ma sempre sottaciuto; l’interrogarsi sulla posizione dell’intellettuale (non organico) rispetto a un potere politico pericoloso, potenzialmente autoritario – e insomma non dare per scontato nessuna collocazione, o non lasciarla più nel segreto della singola coscienza (farne problema pubblico): questo mi pare il migliore risultato possibile. Per quanto mi riguarda, il risultato sperato.
    Forse sarò, in questo, su una posizione diversa da quella degli altri firmatari. Ma ai miei occhi, più di qualsiasi fase progettuale, proprio l’affioramento di un’emergenza morale (o meglio: la necessità condivisa di verbalizzare, in pubblico confronto, tale emergenza) costituisce un esito essenziale. In questo senso, tra tutti gli interventi, particolarmente ho apprezzato quello di Carlo Bordini (del 13, ore 11.19). Il punto nodale della questione è tutto lì. Questa iniziativa non ha voluto imporre classifiche di purezza: ha voluto prima di tutto segnalare, direi con la forza della disperazione, direi per istinto di sopravvivenza intellettuale, l’urgenza di un problema morale. Ci sono dei momenti storici (Andrea, te l’ho già scritto una volta, in mail privata) che richiedono uno schematismo secco ma sano: elementare, contestabile e – giocoforza – fragile (come tutti gli schematismi): eppure sano, perché capace di richiamare l’attenzione, di colpo, su un problema. Che, in fin dei conti, è sempre lo stesso: la responsabilità dell’intellettuale di fronte al proprio tempo.
    Ovvio: davanti a questo schematismo, nato da impulso quasi più che da ragionamento, ogni obiezione ha facile gioco. È vero che contano i fatti; che conta l’opera; ed è vero che il difficile (la vera battaglia) sta nel seminare semi etici nel vivo dei rapporti con il mondo reale, fatto di pressioni, quotidiani obblighi alla scelta, continui inviti al compromesso. Insomma: la battaglia di ciascuno, nel proprio quotidiano.
    Però. Di fronte a un momento storico come questo, pericoloso per una serie di ragioni emerse nel corpo del dibattito (e su cui siamo tutti d’accordo: sistematica erosione di alcuni principi di civiltà, tutt’altro che assodati in questo paese, come l’antifascismo; pericolosa emersione di nuove forme di autoritarismo politico; ecc.), occorreva marcare uno scarto netto. O, assai meglio: occorreva simbolizzare un’esigenza di scarto; una necessità di rivolta, di alterità assoluta. Come punto limite, va bene; ma pronunciato fuori dai denti, senza mezze misure.
    Perché questa pronuncia fuori dai denti, questa posizione estrema (direi: necessariamente criticabile, perché volutamente estrema), è nata prima di tutto (parlo per me, ma non credo di fraintendere gli altri) dalla necessità di ri-edificare barriere salvifiche (contro il revisionismo in mille salse, e proprio, dunque, contro Alemanno e i suoi inneggiatori a piazza Repubblica; contro la xenofobia legiferata; contro la violenza classista eretta a strategia, ecc.), che la prassi mediatica di anni ci ha insegnato ad ignorare, o a tollerare come rumore di fondo inevitabile.
    Visualizzarle, queste barriere invisibili; ribadirne la vitale resistenza (sia pure a filo di paradosso) può servire almeno per liberare quegli anticorpi etici, che una ormai perenne fluidità di giudizi e valori (ripeto: mediatica, prima di tutto; ma è un’ipnosi cui tutti siamo sottoposti) ha sterilizzato.
    Anticorpi da reimmettere poi (e questo è il punto cruciale) nella propria opera (che è poi quel che conta), e nella propria prassi sociale. Perché a me pare che la disabitudine ormai annosa ad affermare la distinzione tra quel che è etico e quel che, irrimediabilmente, non lo è, sia da tempo scivolato, dal piano dei rapporti col potere per eccellenza, al piano dei rapporti con ogni tipo di potere, sia pur minimo. Detto diversamente: il prolasso etico (la consuetudine al compromesso, “perché tanto le cose vanno così”, ecc.) si è esteso ormai capillarmente ad ogni pratica sociale, anche a quelle che hanno a che fare con i microcosmi, in teoria nutriti di alimenti ideali, della cultura, della letteratura, dell’università, ecc. L’ossequio al micro-potere costituito; il cedimento anche solo a qualcuno dei propri principi, in vista di un risultato (professionale, o di visibilità); l’ossequio al codice dominante, sempre in vista del medesimo risultato, e senza il coraggio di imporre mai il proprio: tutto questo ha finito, anno dopo anno dopo anno, per creare un sistema culturale inerte, annodato su sé, incapace di proclamare i valori (e anche le qualità) a voce alta (penso alla pratica, per nulla innocente, della recensione positiva di un libro che intimamente non piace, per ragioni di alleanza; o insomma penso al mefitico stile scambio-di-favori, tipico della politica, dell’accademia, e poi via via).
    Tentare di reimmettere anticorpi etici, o perlomeno ricordare a ognuno di noi che li abbiamo in circolo, può voler dire oggi (esattamente nel vivo del lavoro di ciascuno) smettere di subire le regole del gioco, e restituire significato al mestiere dell’intellettuale (non organico) e alla sua parola.

    Perdonate ancora la tardività dell’intervento, e certo (a questo punto) la sua superfluità.
    Me ne ritorno donde provengo, non prima di avervi tutti salutati.

  108. Andrea Cortellessa
    cerca di essere esplicito, quanto a righe simpatiche o poco simpatiche e motiva, per cortesia, nel caso ti riferissi al sottoscritto.
    Per inciso chi ti parla è figlio di un professore universitario

  109. Sottoscrivo l’analisi di Luigi, lucidissima, dall’autorevolezza definitiva.

    Piccole risposte:

    @alcor
    pace, certo, ma rivendico la liceità dell’utilizzo del termine (@simonelli), anche in metafora.

    @marco mantello
    certo, stiamo cercando di pensare a tutto questo, mi sembra chiaro anche da altri interventi.

    @ng
    La militanza dei segni impegna tutti voi, tutti noi, al nostro meglio, n. Sia noi scioperanti sia Gamba siamo d’accordo sul fatto che ora non basta.

    @andrea c.
    Il mio “case” è saltato, appunto, per insipienza padronale, non perché non fosse praticabile. Quindi la mia testimonianza valeva non come testimonianza di un fallimento, ma di una possibilità concreta; che cerco come posso di portare avanti anche dalla nuova sede. Ma di questo altrove. E se vuoi apriamo un forum apposta. (Per quanto riguarda la partecipazione a Bibliodiversità: ti assicuro che avrei partecipato molto volentieri a tutto, se ne avessi saputo qualcosa!)
    Per quel che riguarda il piano basso-materialistico: certo che i temi materiali sono più urgenti dei morali: lo dici a un marxiano… Ma questi non sono tolti dall’esistenza o dall’urgenza di quelli, temo. E i compromessi evitabili andrebbero evitati, credo. Per questo ho sempre detto su Einaudi: è un compromesso evitabile. I progetti che può prendere Einaudi, certamente li potranno prendere altre case editrici. E io forse il mio “sciopero” nel senso che vorrebbero alcuni già l’ho fatto, rifiutando un’offerta economica vantaggiosa (credi lo avrebbero fatto in molti?). Ma anche su temi simili, meglio rimandare ad altro forum.

    Su Meltemi – caso infelicissimo e limite del disastro della cultura italiana – scrivi: “se i loro libri erano buoni prima andavano acquistati pure prima, ovvio; è un po’ l’obiezione di base a Sciopero”, che, o non capisco la frase, o è un modo di far rientrare da una parentetica finestra quello che, mi pareva insieme, si era accompagnati concordi alla porta: ovvero l’idea che a cambiamenti o peggioramenti radicali – come gli odierni – può ben corrispondere reazione “differenziale”. Come la nostra odierna, dico io, o, concedi tu, concedono mi sembra tutti gli intervenuti, qualche altra che vorremo porre in essere. Per questo mi sembra ora, con Luigi, che le critiche ricevute siano il prezzo di un certo schematismo, e che un certo schematismo sia il prezzo di un azione simbolicamente efficace. Il guadagno è, spero, quel che ne verrà, anche in termini di rinnovate collaborazioni.

    [CONSEQUENZIARI O CONSEQUENZIALISTI? Una notarella terminologica, And: fra me e te, da quanto mi dici, il conseg/quenziario dovrei essere io, non tu (chi tira conclusioni troppo rigidamente da premesse). Tu saresti, per quel che ti dico io, il conseq/guenzialista, assente dai dizionari ma diffusamente invalso nel settore, termine tecnico della filosofia morale di lingua inglese: chi ritiene che il principale criterio di valutazione morale delle azioni siano non i principi ai quali si conformano ma le conseguenze cui conducono. Per curiosità, eh.]

  110. un piccolo intervento solo per dire: non si muova, chi vuole muoversi, solo perché (o anche perché) ‘gruppo’ o insieme o rete di relazioni così vuole. mi spiego.

    esistono momenti individuali (variamente connessi ad altri) fortemente politici. e mi scuso se dico un’ovvietà (che mi auguro di motivare in interventi successivi: magari domenica mattina riesco a postare qui molte osservazioni annotate in qsti giorni senza web).

    quando si avviò la serie di letture àkusma, nel 2001, qui a Roma (che a molti link e dialoghi ha portato), non c’erano né soldi né ufficio stampa. ma qualche risultato, dopo e durante, sì. (non dico risultati di share da follia: ma risultati di produzione di testi, senso condiviso, dialogo, iniziative successive più – o meno – ampie, eccetera).

    si può essere un’entità non coesa o addirittura un insieme di iniziative ec/centriche, e allo stesso tempo co/operare. senza nemmeno convergere. (oddio, non sempre. ma può accadere).

    lo dico per (e con) bassa base pragmatica. se aspettiamo di essere tutti su tutto d’accordo, per dar corpo alla ‘pars construens’, questo thread può raggiungere i dieci milioni di commenti senza registrare grandi spostamenti.

    quello che lo Sciopero dell’autore ha voluto innescare, come rileva l’intervento di Luigi Severi, è la percezione che sia non irrecuperabile (volendo recuperarla) una dimensione etica di *ogni* operare: coeso, non coeso, o militantissimo coesissimo, o anarchico disseminato, o dissipatissimo-litigioso.

    in questa prospettiva, riuscire a segnare una linea di senso ha senso. di qua c’è un modo di vedere le cose, con quotidiani compromessi e magari anche pesanti compromessi, di là no (tendenzialmente, certo).

    con zone di passaggio. è evidente.

    ma: se le zone di passaggio diventano *tutto il contesto* sempre, forse qualcosa non funziona. (è legittimo chiederselo. come è legittimo chiedersi quanto queste zone fabbrichino e materialmente siano la prassi delle sinistre italiane degli anni recenti). (e ben vengano a queste le critiche).

    non ci si deve per forza spostare *tutti in massa* di qua o di là, come ronde che girano di festa in festa (o di funerale in funerale). ma si può osservare una possibilità. farla crescere, se si vuole. e (ripeto) è quello che molti, anche contrari allo Sciopero, qui intervenuti, hanno fatto e di certo faranno.

    su *istituzioni e cultura* o *culture all’interno di istituzioni*, ognuno ha la sua bibliografia. ok. e ne parleremo nel tempo, ok.

    un tratto utopico: se le centinaia di persone che tengono blog e le decine o più che intervengono saltuariamente o regolarmente in rete e nelle reti reali (centri culturali, librerie, bar, cs, università, scuole, ecc.) spostassero l’operare spesso solo virtuale (e faccio in questo una parziale autocritica) ancor più fortemente sul territorio, probabilmente si renderebbe più visibile quello che la pars construens dello Sciopero diceva e dice.

    è noioso e spesso criticabile fare rassegna di cosa ha fatto X e cosa Y. ma andrà pur detto in qualche luogo e in qualche modo che ci sono persone che già da tempo lavorano così, e vorrebbero semplicemente vedere (e in questo thread vedono fino a un certo punto, o pochissimo) una specie di estensione del dominio della lotta.

    che è da fare. non si estende da sé. ognuno ci deve mettere del suo, se gli va.

    va pensato. anche senza costituenti e senza assemblee. (sottolineo: *anche* senza; non dico: *primariamente* senza).

    ognuno riconosce i suoi. quando li ha riconosciuti, invece di fare *solo* (o primariamente) appello all’assessore che caccia il soldo (ma può farlo, se vuole: e lo fa, quando vuole), ha la possibilità di guardare e fabbricare un’altra cosa. la domanda è: ci state? vi va di farlo, anche domani e tra giorni o settimane (a post sommerso da decine di altri)?

    le rassegne di reading o i centri culturali o le duecento o cento o dieci piccole librerie minacciate che lavorano in tutto il paese sono totalmente sole in questo, o vogliamo rinunciare a 5 minuti di Istituzione per fare 5 anni di lavoro duro (militante) per far nascere qualche centinaio di altre iniziative simili, indipendenti? in un momento in cui le istituzioni sgovernate dai destri sono sotto critica e magari anche sotto scacco da parte di (quasi!) tutti, mi viene da domandare: se non ora, quando?

  111. @ostuni

    Certo che è lecito, non entro in guerra contro gli slittamenti semantici, e non solo perchè sarebbe persa, ma quanto più preciso è il termine di partenza, tanto più efficace la scivolata.
    Cmq quello che mi interessava è la pace con te.

  112. Vincenzo Ostuni

    Bene pensateci allora, da altri interventi si direbbe che al centro dei pensieri ci sia tutt’ altro.

  113. Sottoscrivo, in toto, l’intervento di Luigi Severi del 4 Dicembre 2008 alle 10:24.

    fm

  114. @ Gemma
    Non sarebbe difficile. La difficoltà sarebbe non essere troppo pochi. Naturalmente in troppo pochi non credo che avrebbe nessun senso. In generale credo che sia chiaro ormai che bisognerebbe mettersi d’accordo su qualcosa di concreto.

  115. notilla sulle “zone di passaggio” a cui accennavo sopra.

    da intendere: “zone di passaggio nel tempo“: fasi.

    è chiaro che ognuno ha suoi tempi e modi per maturare una scelta. (se/quando la fa).

  116. @ Vincenzo

    Grazie per la precisazione terminologica. Quanto alla finestra e alla porta sì, c’è una circolazione fra le due entrate perché le mie perplessità restano, anche se (forse) le posizioni parlandosi si sono avvicinate.
    Sempre per la serie “io ho fatto questo, io ho fatto quello”: ma c’è chi non ha atteso le braccia tese per operare concretamente (il piano più concreto l’ho indicato fino a sfinirmi; constato che nessuno mi viene dietro su questo e mi chiedo davvero perché) su una situazione, come vedi e hai visto tu per primo anche per esperienza personale, da tempo compromessa. Dopo di che, sulla discontinuità segnata dallo step di cui sopra, come detto concordo, così come sulla necessità di aggiungere altre iniziative.

    @ Luigi Severi

    E dunque concordo con te sul fatto che un esito concreto bisogna riconoscerlo, alla vostra iniziativa, quello appunto di aver riaperto una discussione che languiva (ma se languiva era perché iniziata da tempo, ed era già arrivata a un punto morto come ora, forse, rischia di fare pure questa).

    @ Marco Mantello

    Mi spiace sempre ogni forma di didascalicità, ma se proprio insisti: sì, ho trovato poco simpatico il tuo intervento di ieri alle 16.16. Non capisco davvero quale sia, in cosa si possa concretamente individuare, un'”area Balestrini Pagliarani Figlio di Pedullà”. Se avessi citato il padre del figlio di Pedullà, magari, avrei capito almeno la logica (essendo uno dei maggiori critici del secondo poeta da te citato e senz’altro uno che ha scritto diverse volte del primo), ma suo figlio che c’entra? ha mai scritto un rigo dell’uno o dell’altro? ha mai partecipato in qualche forma a Romapoesia? davvero non capisco.
    Comunque lo trovo poco simpatico, questo tuo intervento, soprattutto perché dopo aver detto che la tua attività letteraria s’è svolta per intero sotto l’ala (ora non più a te così gradita) dell’ufficialità veltroniana, vieni poi a dire che contemporaneamente ci sarebbe stata una dannosa egemonia, se capisco bene la tua approssimazione, di matrice neoavanguardista. Delle due una: se nello scorso decennio la tua poesia ha avuto spazio nelle istituzioni culturali del Comune, come può esserci stata nelle medesime un’egemonia dell’area culturale da te tanto disdegnata? Ho l’impressione che – magari senza il cinismo di altri ma con l’inerzia delle idees reçues di troppi – anche tu partecipi allo sport preferito degli intellettuali, quelli sì egemoni, del tempo aureo di Veltronia: cioè il tiro al piccione-63. In mancanza di… nuovi argomenti propri, si continua a sparare sugli argomenti di gente che li esponeva mezzo secolo fa. Cosa non nuova e che non metterebbe conto commentare: se non mi costringessi tu a farlo, appunto.
    Duole ricordare, a te e a chi condividesse le tue insofferenze, che se si è fatto un lavoro concreto sulla poesia, in questa città, dagli anni Settanta all’inizio dei Novanta, lo si è fatto nei laboratori di Elio Pagliarani (dai quali sono transitati poeti tutt’altro che epigonali nei confronti della neoavanguardia: da Marco Papa a Edoardo Albinati, da Claudio Damiani a Valerio Magrelli e Valentino Zeichen e infiniti altri). E che Romapoesia, se è nata e se ha continuato a resistere in questi anni, lo deve appunto e principalmente all’attività e ai contatti di Nanni Balestrini.
    Ma certo: loro sono i cattivoni, i carrieristi. Dovresti vedere in che case abitano e che tenore di vita conducono, a 81 e 73 anni. Stammi bene, eh.

  117. @ Carlo:

    i numeri sono importanti. ok.

    ma è visibile la differenza tra l’incidenza scarsa della letteratura in Italia e il suo peso fortissimo altrove. (ne dà conto il tuo libro recente: Non è un gioco). credo dovremo ancora per molto tempo scordarci che possano accorrere in migliaia a una lettura di poesie. a maggior ragione – forse – se connotata in qualche modo da un senso oppositivo/politico. (o forse no. non è chiaro, non è pre/visto).

  118. Un paio di elementi, per me scandalosi, che emergono da tutta la colonna:

    1) circa l’autore che viene pagato per andare da qualche parte. Secondo voi viene pagata la presenza artistica o quella politica (cioe’ il gettone e’ il compenso mascherato ad una militanza schierata, una briciola, un arrotondamento dato ad un consanguineo)? Quella artistica, ha il mercato che ha e buon per chi ce l’ha. Quella politica, che mi pare venga rivendicata qui dentro, parte dal consenso… o meglio, dal consenso dovrebbe partire, mentre qui sembra sia diventata un discorso di cooptazione o, meglio ancora, di braccio intellettuale (oddio… braccino) di un discorso politico. Motivo per cui, se io volessi putacaso sottoscrivere l’appello, non potrei farlo perche’ non sono di sinistra. Ok, pazienza. Il mio punto di partenza e’: se il poeta non genera denaro (vendendo se stesso o le pizzette o qualunque altra roba che gli generi plusvalore), stia pure a casa… ci sono emergenze piu’ gravi che le briciole da destinare al braccino intellettuale di una parte politica, specie quando questa parte politica nemmeno e’ rappresentata nelle sedi dovute (e dunque non ha il minimo consenso per essere rappresentata). Che sciopero della fame puo’ fare chi non ha nulla da mangiare?

    2) Il basso-materialismo descritto da Cortellessa. Puro e semplice scambio tra membri sodali di un apparato, chiamata alla lotta inclusa. Cosa c’entra l’arte con questo scambio? Nulla, e’ un accidente, chiunque scrivente puo’ fare numero sperando che si arrivi a massa critica (possibile, se i venti milioni di scriventi in Italia firmassero tutti l’appello). Voglio dire: in un periodo nel quale lo spessore artistico non viene minimamente considerato, ma la massima apertura e’ limitata alla sua funzionalita’ ad altri discorsi, di cosa stanno parlando tutti gli intervenuti in questo colonnino?

    Sia chiaro, non e’ polemica per gusto di polemica: leggo, apprezzo (e spesso non apprezzo) molti degli intervenuti, ma sempre e solo partendo da una idea artistica, non da una idea di apparato o di funzionalita’ ad altri discorsi, se no l’Ostuni che sciopera dove non gli tocca il portafoglio, mi farebbe ridere e basta. E mi pare che il pubblico “ingenuo”, che esiste e viene trattato ancora come minus habens o semplice numero anche da questo apparato, cerchi altro che lo schierarsi nell’agone politico senza consenso. Chi si lagna del fatto che in rete, nei blog, ci siano solo lettori-autori e non lettori-lettori, ad esempio, chiede espressamente che un cristo comune faccia da lettore-lettore (o da e-lettore elettore?) alle corbellerie in divenire di un qualsiasi scrivente, ora politicante. Cortellessa chiama tutto questo: tafazzismo. Come dargli torto?

  119. @ GiusCo

    Se non vedi alcun nesso tra la sopravvivenza della letteratura e la capacità della medesima di raggiungere i lettori (alcuni lettori almeno), davvero non so di cosa si possa parlare. Ma, rifletto poi: se non vedi alcun nesso fra le condizioni materiali della praticabilità della letteratura e la sua stessa esistenza in vita, si deve probabilmente al fatto che non hai una cultura di sinistra. Cazzo di Gaber!

  120. Cortellessa: si’, in effetti pare di leggere le pratiche di una estinzione. Come scriveva uno dei vostri poeti, “Ehi, mi sentite?, sono sotto questa crepa, / voi dove siete? …” e poi continuava “… ah, vi vedo, siete rintanati / sotto le macerie, anche voi, nei buchi / negli interstizi più impenetrabili”, e infine l’assunto: “chi è allo scoperto non sopravvive, / le strade sono fiumi di sangue”. Davvero? Beh, auguri.

  121. mi preme dirvi grazie.
    c’è bisogno di un pensiero radicale, c’è bisogno di sperare, c’è bisogno di togliere veli all’impostura che abita dentro ciascuno di noi, c’è bisogno di riconoscersi e contarsi, c’è bisogno di schierarsi, c’è bisogno di testimoniare un no propositivo e orgoglioso, c’è bisogno di non farsi confondere, c’è bisogno di delegittimare pensieri che hanno svuotato le parole del loro significato originario e innocente, c’è bisogno di sottrarsi al richiamo della vanità.
    vi bacio con profonda riconoscenza.
    evviva lo sciopero contro l’inconsapevolezza
    la funambola

  122. Appoggio incondizionatamente. Rinuncerò a collaborare con Newsweek, la ZDF e per vari quotidiani e riviste del gruppo Murdoch per un mese. L’impegno deve essere preso anche fuori dai nostri confini.

  123. @ Alcor

    Sciopero significa astensione dal lavoro. Anche una prestazione di lavoro occasionale è lavoro. Se mi astengo da un lavoro occasionale PERCHE’ decido di scioperare, posso farlo. Col placet dell’Accademia della Crusca e della lessicologia tutta. Non mi risulta, inoltre, che ci siano scrittori assunti con contratto a tempo indeterminato dalle case editrici per scrivere e che percepiscono stipendio fisso e poi pensione, né che ci siano attori assunti dalle case di produzione cinematografiche o teatrali a tempo indeterminato per recitare e che percepiscono stipendio fisso e poi pensione. E’ grasso che cola se esistono giornalisti stipendiati, e musicisti stipendiati nelle varie Scale cittadine. Sarebbe a dire – se non fosse diventato chiaro a questo punto – che raramente la categoria dell’artista esperisce una MANIERA lavorativa equivalente a quella dell’impiegato sic et simpliciter. E se mi permetti di precisare anche questo, è PER QUESTO MOTIVO che molti artisti che si mantengono collaborando di qua e di là sono restii a mollare spazi e perciò soldi finalmente trovati (i comuni, di solito, sono quelli che pagano di certo o che pagano di più, che non chiudono mai, diversamente dalle riviste presso le quali si prestano marchettoni e/o collaborazioni), e che lo sciopero dell’artista conta cento volte più di quello dell’impiegato, perché l’artista si misura con un sistema lavorativo nel quale TUTTO (ovvero ogni centesimo che guadagna) dipende da un continuo cercare e trovare contatti, occasioni, spazi, e se vi rinuncia in nome di un dissenso politico si tratta di un artista che pur consapevole del quasi-ricatto di non potersi permettere economicamente di rinunciare, invece rinuncia.

  124. Aggiungo una piccola esperienza personale.

    @ la funambola (le tue belle parole), ma non solo

    Per mantenermi faccio l’impiegata in un posto pubblico. Percepisco uno stipendio di 1250 euro al mese, e pago una rata di mutuo di 750, sempre al mese. Con 500 euro al mese residue sarei una di quelle che non dovrebbe scioperare contro la vergognosa mistificazione mediatica che il ministro Brunetta ha condotto contro i pubblici impiegati, menzognera e concertata mistificazione atta, in realtà, a creare presso l’uditorio mediatico del popolo bue che non ragiona quando ascolta una notizia, ma semplicemente se la beve, la convinzione che il pubblico impiegato sia un fannullone, e che per questa ragione e soltanto questa i settori pubblici italiani (giustizia, istruzione, sanità eccetera) non funzionino. Non perché (come invece è) non si assume nuovo personale da anni mentre quello che ne ha diritto va in pensione, non perché lo Stato, quando è governato da Berlusconi e dal centro-destra, ha tutto l’interesse ad affossare i servizi pubblici per poi poter appaltare quei servizi ai privati o semplicemente godersi i risultati di un settore pubblico come quello della giustizia, per esempio, che non ce la fa ad andare avanti, e perciò a portare a termine processi, per dire… Avete letto la dichiarazione del ministro Alfano (il ministro della Giustizia) che sostiene che ci vogliono nuove carceri? Non nuovi assunti negli uffici giudiziari, no, ma nuove carceri. Sarebbe a dire che se soldi lo Stato stanzierà per la giustizia saranno soltanto soldi per costruire nuove carceri. Bene, chi credete che costruirà quelle nuove carceri? Categorie protette, cassaintegrati, disoccupati, inoccupati? No, ditte private reclutate con appalto. Restate a guardare se vi interessa, e vedrete che sarà così. E chiedetevi perché un ministro decide di far cacciare soldi allo Stato soltanto per un intervento relativo al suo ministero, un intervento che, inoltre, non renderà più efficiente quel ministero… Per terminare, nonostante il fatto che per ogni giornata di sciopero sulla mia busta paga mi vengono trattenute 70 euro circa (il lordo di una giornata di lavoro), io ho già scioperato qualche giorno fa, e sciopererò anche domani, e sciopererò anche il 12, giornata dedicata ad uno sciopero che non riguarda soltanto il settore dei lavoratori pubblici a cui appartengo io.
    Insomma per quanto mi riguarda mi manca soltanto di cominciare a tirare molotov, cosa che non credo farò. Ma credetemi: costa, in ogni senso, dissentire nell’unica maniera possibile, ovvero scioperare. Ma va fatto. Perché una cosa è aderire così, tanto per, a parole, una parola è aderire coi fatti.

  125. Correggo il non casuale lapsus in fine del precedente commento:

    “Perché una cosa è aderire così, tanto per, a parole, una cosa è aderire coi fatti”.

    E infine: Carlo (Bordini), e Vincenzo, se si manifesterà come autori, il 12, in piazza, fatemi sapere. Ma facciamolo, a me non pare una cattiva idea.

  126. @ Gemma
    perchè non mi hanno dato premi nè offerto cittadinanza.
    elementare no?
    comunque il dodici ci sarò, se può farti piacere
    effeffe

  127. Andrea Cortellessa

    Che la mia attività letteraria o pseudotale si sia svolta sotto l’ala ora non più a me gradita veltroniana è cosa piuttosto ridicola, visto che a casa delle letterature ed eventi simili, cioè sotto l’ala veltorniana, hanno letto con me tante persone che hai pubblicato. Evita, per cortesia di buttarla sulla solita, pallosissima diarchia ‘nuovi argomenti’- ‘gruppo ’63, personalmente delle egemonie culturali a Roma me ne frega una mazza, per essere chiari, non stai parlando con un astratto ex collaboratore di nuovi argomenti che deve tenere il punto sulla sua ‘parte’ (la logica del ‘gruppo’ qui la imponi tu, non io, con la tua pacata aggressività). Prova inoltre a leggerti cosa ho pubblicato su nuovi argomenti a proposito delle logich edi gruppo (per esemlpio ‘la poesia che prese il posto di Antonio Gramsci), forse ti sarà più chiaro che tipo di persona sono e come ragiono.
    Evita infine di attribuirmi insulse accuse di carrierismo a Pagliarani, da massimo critico quale ti autodefinisci. Ecco carrierismo, appunto.. e uso indebito di una persona per screditare il mio intervento, evitando accuratamente di discuterne nel merito: guarda che qui non c’è da difendere nessuno da infamie o sgradevolezze, qui si tratta di parlare in modo chiaro delle cose.
    Venendo al merito, qui si tratta di confrontarsi sui luoghi e gli spazi deputati alla poesia a Roma e secondo me un discorso sui ‘gruppi’ va fatto, lo testimonia il modo in cui tu mi hai risposto, Andrea Cortellessa (nuovi argomenti, gruppòo ’63, che tristezza!)
    Visto che sei molto più informato di me, magari aggiornami sullo status quo…
    In realtà il discorso che tu liquidi con il ‘tiro al piccione’ è molto serio e riguarda il dato che a Roma esistono da sempre ‘aree’, ‘gruppi’, appunto, o forse se non ti piace che parlo di aree diciamo un ‘ambiente’, un piccolo, minuscolo ambiente dove i soliti quattro gatti se la dicono e se la cantano in relazione a dati ‘stili’, modi di ‘scrivere’, assiomatizzati poi in ‘eventi monolitici come Romapoesia, o iperecumenici come la giornata mondiale della poesia a casa delle letterature . Ora proprio perché ho letto poesia a Roma, perché ho fatto esperienza (minima ma m’ho fatta) a me il tabernacolo sta stretto, non mi piace, non lo amo perché penso che limiti, strutturlamente, la possibilità di dialogare sui contenuti, sulle ‘diversità’ e sopratutto condiziona il modo in cui si comunica in versi a un pubblico e le tipologia stessa del pubblico (cioè non si comunica con la gente, si è fellici e contenti nel tabernacolo elitario…).
    Quello che succede, con la poesia, è che in alternativa all’editore di massa si inseriscono spessissimo logiche neocorporative, accademiche, questo è quello che penso e non mi metto certo a discutere dei ‘premi letterari’ perché non ne ho lacompetenza, evidentemente…
    Perché non organizzi un convegno su letteratura, mercato e accademia e ci illumini?
    Guarda che qui non si tratta di vedere il ‘male’ dapperutto, io non amo vedere applicate al fare versi logiche para-accademiche, tutto qui, logich edi gruppo, appunto.
    Infine, non è chiaro cosa ci sia di male nel dire ‘figlio di Pedullà’ e accostarlo a una data area di riferimento. Per esempio c’è una rivista, il caffè illustrato, peraltro ben fatta e credo ben finanziata, che pubblica un certo tipo di poesia, cosa legittima, che in sè dimostra, però, che forse quello che dico sulle reali possibilità di conforno fra ‘stili’ e modi di andare accapo andrebbe un minimo discusso, proprio perché si collega al problema degli spazi, dei luoghi dove poter esprimersi.
    Quello che mi auguro è di ricevere in futuro da Andrea Cortellessa una mail collettiva dove si segnala una conferenza su Auden e le passeggiate notturne, con lettura di peosie dal vivo, nella scuola media Tarchetti di Tor Pignattara. Accorreremo numerosi

    p.s. Vieni a vedere comne vivo a Berlino e poi ne riparliamo con gli ‘stammi bene eh’. Scendi dal piedistallo, per cortesia e rifletti un minimo sul senso di quel post, hai proprio sbagliato bersaglio.

  128. ‘La collana del giovane Pedullà’, per esempio, fa molto accademia le parole sono importanti….

  129. Pe rocncldere dulle opoorutnità da sfruttare e sugli spazi, ultima cosa che mi viene in mente: la collna fuoriformato, un’ottima idea, in sé, antimercantilsitica, l’idea di attribuire una forma a posteriori a un libro, rispetto al suo reale contenuto, sfuggendo al formato, al ‘dover essere’ del ‘romanzo’ ,della raccolta di racconti, della silloge
    Cosa esce di fatto su fuoriformato? Che tipo di poesia pubblica Andrea Cortellessa?
    La mia impresisone è che si tratti, in tantissimi casi di genere omogeneo (a parte Arminio), ma soprattutto di un genere letterario connotato, che lo si voglia o no, dall’appartenenza a un’area, a un gruppo, a un ambiente appunto.
    Cosa penso di fuoriformato? Che si tratta di un’operazione editoriale che nasce chiusa. Che differenza c’è tra fuorifomrato e la bianca einaudi, allora?
    Se questo discorso offende qualcuno, mi spiace, ma io lo faccio perché sono una persona seria e sopratutto non me ne frega un emerito cazzo delle microcarriere

  130. L’inizio era: per concludere sulle opportunità da sfruttare e sugli spazi….mi mangio le parole

  131. @ Alcor

    Niente, hai ragione. Le obiezioni si fanno per fare gli opinionisti della domenica, dimenticavo.

    @ Forlani

    Vorrei proprio vedere se al posto di Elio avresti rifiutato… Anch’io sono stata invitata, ma non ci sarò a Più libri più liberi. Occupa anche i metri cubi che ho lasciato liberi io, mi raccomando.

  132. Ne ho viste tante, ma il voto di castità di un eunuco (pronunciato con grande solennità ed enfasi) ancora mi mancava.

  133. in effetti su un punto ho letto male, Andrea Cortellessa parlava di Pedullà padre come uno dei massimi critici di Pagliarani, non di se stesso. Forse ho bisogno di un caffè (non illustrato)….Vabbe’ spero che al di là della rabbia sia emerso un punto di vista….Saluti

  134. Gaetani, tira fuori un argomento e vedrai che ti rispondo, tanto sto qua a leggere e non mi costa niente.

    Però onestamente sono più interessata a Marco Mantello che dice a Cortellessa pubblica nella tua collana libri che interessino a un altro e non a te.

  135. @ Alcor

    Cara Alcor, non comprendo tanto tuo astio, ma in tutta sincerità me ne frego, e del tuo astio, e del comprenderlo. Lotta continua per quanto mi riguarda, ma non qui. Leggiti le parole che altri perderanno tempo a scrivere. Io smetto. Argomenti te ne ho tirati fuori, se li vuoi leggere resteranno scritti, se no, come dicono appunto a Tor Bella Monaca: “‘sti cazzi”. Statti bene, che non mi pare che ci stai.

  136. Ultima cosa e poi la smetto con questa polemica cortellessiana: io ho letto alcune tue cose (compresa l’intro a Pagliarani) e ti conosco, intellettualmente, un minimo, almeno su carta, ecco. Mel momento in cui tu mi dai dell’intellettuale di veltronia che denigra ora la presunta parte avversa ora tutto lo scibile, vuole dire che non mi conosci, che sai poco di quello che ho scritto e sai molto, molto poco del modo in cui mi sono sempre posto verso certe dinamiche. Ho preso le botte a Genova come tanti, non trovo affatto scurrile e arrogante che mi si dia del veltroniano (voto rifondazione). Lo trovo poco serio e sospetto che ci sia un bisogno di autodifesa del tutto gratuito, i miei toni possono essere duri, provocatori, ma ci sono dei contenuti da discutere, ho detto delle cose chiare e per me importanti, tutto qui….

  137. vista da fuori…
    è bella l’idea.
    Perché è paradossale.

    Perché non ci piove: è paradossale che degli autori si mettano in sciopero!
    E, come tutti i paradossi, è forza generativa e dirompente.

    Detto questo, forse manca di un pò di fantasia. Insomma viene molto da piangere a leggere questo invito allo sciopero. Si diventa tristi tristi. D’accordo che la situazione è grave (c’è un peggio rispetto al peggio che stiamo vivendo, oggi, in Italia?)ma questo lo sappiamo tutti in Italia: dai metalmeccanici a chi fa ricerca nelle università.

    ma una bella idea, paradossale, dirompente e generativa come quella che gli autori proclamano uno sciopero… bé… scusate la franchezza, ma non potete scriverla un pò meglio?
    e renderla un pò più creativa nelle sue articolazioni effettive?

    Lo sciopero è un’azione collaborativa… mettettevi insieme, create dei testi, dei video, dei poemi, dei versi, quello che volete… che raccontino il vostro sciopero e presentate quelli agli incontri. E fate girare quelli nel web. Sì il silenzio, bene, ma anche urlare.

    Per esempio uno di voi viene invitato a presentare un suo libro da una di quelle amministrazioni di destra: bene lo presenta e sul più bello si interrompe e fa vedere un video degli autori in sciopero. Questo è più coraggioso che dire: no grazie scusate, preferisco che mi invitino solo i sindaci miei amici che la pensano come me.

    Insomma siete degli autori in sciopero, mica dei bancari ;-)

    Scusate la franchezza, ma è perché l’idea mi è molto piaciuto. L’idea. E’ paradossale, è utopica, è forte.

  138. Gaetani, sei entrata con la clava, senza argomentare, ma dando del cieco sordo e paralitico a chi non era del tuo parere, a me hai dato della blateratrice (ma poi ha postato un nuovo pistolotto sullo sciopero senza che si capisse cosa volevi cavarne) poi sempre a me hai dato dell’opinionista della domenica.
    Non provo astio, ma certo neppure tutta questa attrazione nei tuoi confronti, diciamo noia, perciò se trovi un argomento, ti rispondo, se è anche buono ti rivaluto, ma come ho detto mi interessano di più le dietrologie di Mantello, che trovo tipiche di certe discussioni in rete e al tempo stesso affascinanti.

  139. E’ vero Alcor sono dietrologie tipiche delle discussioni in rete, anche troppo tipiche, uno poi si lascia prendere la mano e passa per qualunquista o moralista o qualche altro -ista, mi spiace se la discussione ha svaccato però c’è anche dell’affetto verso il proprio e l’altrui lavoro in tutto questo.

  140. Quoto Maddalena Mapelli (Ibridamenti). Invece di rinfacciarvi cose che già avete rinfacciato a qualcun altro perchè non provate a prendere in considerazione il suo commento? Che qui copio, a effetto replay:

    # DA IBRIDAMENTI (www.ibridamenti.com) Maddalena Mapelli.

    Vista da fuori…
    è bella l’idea.
    Perché è paradossale.

    Perché non ci piove: è paradossale che degli autori si mettano in sciopero!
    E, come tutti i paradossi, è forza generativa e dirompente.

    Detto questo, forse manca di un pò di fantasia. Insomma viene molto da piangere a leggere questo invito allo sciopero. Si diventa tristi tristi. D’accordo che la situazione è grave (c’è un peggio rispetto al peggio che stiamo vivendo, oggi, in Italia?)ma questo lo sappiamo tutti in Italia: dai metalmeccanici a chi fa ricerca nelle università.

    ma una bella idea, paradossale, dirompente e generativa come quella che gli autori proclamano uno sciopero… bé… scusate la franchezza, ma non potete scriverla un pò meglio?
    e renderla un pò più creativa nelle sue articolazioni effettive?

    Lo sciopero è un’azione collaborativa… mettettevi insieme, create dei testi, dei video, dei poemi, dei versi, quello che volete… che raccontino il vostro sciopero e presentate quelli agli incontri. E fate girare quelli nel web. Sì il silenzio, bene, ma anche urlare.

    Per esempio uno di voi viene invitato a presentare un suo libro da una di quelle amministrazioni di destra: bene lo presenta e sul più bello si interrompe e fa vedere un video degli autori in sciopero. Questo è più coraggioso che dire: no grazie scusate, preferisco che mi invitino solo i sindaci miei amici che la pensano come me.

    Insomma siete degli autori in sciopero, mica dei bancari ;-)

    Scusate la franchezza, ma è perché l’idea mi è molto piaciuto. L’idea. E’ paradossale, è utopica, è forte.

  141. @ Gemma
    metri quadri, volumi…
    non ho scelto il registro del conflitto qui perché francamente penso che quelle energie vadano dirette altrove. Non vado a presentare “mie cose” a Roma, ma partecipo a una tavola rotonda che ritengo oltre che interessante necessaria. Non sono sul libro paga di nessun editore nè di nessun giornale o blog letterario ( nemmeno della rivista che faccio), e da nessuno avrò un rimborso spese per la mia discesa a Roma. Non sono ricco di famiglia e francamente come altri che hanno deciso di sottrarsi al lavoro salariale me la passo piuttosto male. dare del crumiro a chi sarà presente alla fiera di Roma – tanti degli intervenuti fin qui- mi sembra francamente assurdo, oltre che gratuito. Il progetto che Marco Giovenale,Giulio Marzaioli,Vincenzo Ostuni,Luigi Severi e Michele Zaffarano stanno portando avanti, e che ringrazio di avermi incluso tra i destinatari dell’appello, credo miri anche al ritrovarsi oltre le semplici e invalicabili barriere del ” a chi si sta sul cazzo”, o peggio ancora del chi sei tu chi sono io. Introdurre all’interno di questo thread degli elementi di disprezzo, distanza estetica, distinguo, non fa altro che avvalorare le tesi di chi seppure eccellente poeta ben prima che berlusconi prendesse il potere aveva deciso di scioperare si, ma dai poeti.
    effeffe

  142. Mi rendo conto di una cosa, semplice semplice. Da un certo punto di vista, vorrei essere con gli aderenti dello sciopero. Non solo per il fatto che condivido la loro insofferenza e la loro urgenza di reagire, ma sopratutto perché firmando quell’appello riuscirei ad un unirmi ad altri scrittori, a fare gruppo. E potrei stare sicuro, almeno per un po’, che tra noi firmatari, nonostante le tante differenza, qualcosa ci unirà, qualcosa verrà prima delle polemiche e degli atteggiamenti difensivi.

    Ma appena le posizioni si divaricano, si rischia di scivolare subito in un gioco di posizioni difensive o aggressive. Ognuno parla dal suo particolare, e ognuno ha qualche buona ragione per difenderlo. E il campo letterario, anche solo quello poetico, si rivela essere frastagliato, atomizzato, difficilmente riconducibile a un’atteggiamento comune.

    E’ un vero problema. Anche perché la letteratura e la politica non sono campi perfettamente sovrapponibili. Posso sentirmi del tutto vicino, in termini politici ad una persona, e sentirlo completamente estraneo da un punto di vista artistico. E di continuo, nella discussione, questi due aspetti prendono il sopravvento, e determinano vicinanze o conflitti.

    In effetti, bisognerebbe, data la priorità politica, liberarsi da preoccupazioni di tipo artistico. Ma questo è in contrasto con l’idea dello sciopero dell’autore, che in qualche modo rivendica la dimensione artistica – o letteraria – dello sciopero. Per trovare una vera unità, bisognerebbe del tutto abbandonare ogni riferimento a posizioni culturali, opzioni letterarie, ecc., ma questo significherebbe trovare un terreno altro, neutralmente estetico, per avviare un’azione politica ben determinata.

  143. @ Marco Mantello (e Alcor)

    Mi pare che siamo un po’ OT, e mi spiace aver iniziato l’esondazione. D’altronde, come mi pare di capire dall’ultimo intervento di Inglese, è illusorio e astratto pensare che le divisioni sul piano estetico improvvisamente si ottundano e si eliminimo perché condividiamo alcuni (non tutti) parametri politici. E magari, da un certo punto di vista, OT non siamo.
    Allora rispondo a Mantello, intanto, col quale mi scuso personalmente per aver ecceduto in reattività polemica. E tuttavia, pacatamente (spero meno aggressivamente), ribadisco la mia lettura del suo primo intervento come contraddittoria. La politica culturale veltroniana è stata in primo luogo frontalmente avversa a ogni forma di sperimentazione, di quelle che per la sua ideologia (di Veltroni ma anche leggo qui – di Mantello, anche se come me non è un suo elettore) allontanano la letteratura dal grande pubblico massenziesco e, per cinquanta settimane all’anno, casadelleletteraturesco. Per inciso, Marco, io non a Torpignattara ma a Centocelle ci abito. E sono nato a Tiburtinosprofondo e cresciuto alla Bufalotta. Contento?
    Politiche culturali. Quella di Veltronia osservava un solo parametro: la vendibilità. Rileggiti l’elenco degli scrittori invitati a Massenzio dalla sua nascita a oggi. L’unico spazio per la poesia (otto autori tutti pubblicati da majors; perché otto poi se le Massenziate sono riservate a uno, massimo due autori?) è stato dato nell’ultima edizione. Per una simmetria astrale incommentabile, la prima alla quale ha presenziato un assessore non di centrosinistra (debitamente bueggiato da tutto il pubblico prima ancora di aprire bocca). Vendibilità, popppolarità, agréabilità massima. Gli stessi parametri di Veltroni scrittore (almeno je piacerebbe) e di Berlusconi editore. Sul piano estetico la saldatura fra queste due ideologie è una realtà da almeno un decennio.
    Il mio lavoro, sia come critico che (negli ultimi due anni) come editore, è stato precisamente quello di dare spazio a una, e anzi a più diverse idee di letteratura che siano incompatibili con questi parametri. Non solo Arminio, direi, esula dal campo dell’eredità più o meno latamente ascrivibile agli sperimentalismi secondonovecenteschi (da Umberto Fiori all’ultimo Tashtego, ci sono anche fieri ed espliciti avversari di quelle poetiche); ma questa valutazione direi che non sta a me farla.
    In ogni caso, questa per me è stata sin dall’inizio una forma di opposizione al pensiero dominante: sul piano che mi compete e su quello in cui mi illudo di avere una competenza, cioè quello estetico. Sono stato felice di aver avuto una sponda editoriale dove dare spazio anche concreto, materiale, ad autori e testi che oggi non hanno quello spazio da nessuna parte. Mentre per es. ai loro esordi uscivano da Feltrinelli, per dire (è il caso del libro di Ottonieri, per es., che quindici anni fa sarebbe stato attaccato e difeso da tutti i giornali, per la sua oltranza, e stavolta invece è caduto nell’assoluto silenzio mediatico; persino qui, dove spesso si dice di voler criticare le logiche macroeditoriali, il post che il caritatevole Pinto ha messo per segnalare che questo libro esiste, ha avuto 0 commenti).
    E’ questa l’egemonia che s’è affermata dagli anni Ottanta a oggi. Non certo quella che tu accusi e dalla quale ti senti escluso. Casa delle letterature (cioè l’unico luogo in cui ti ho sentito leggere, per inciso) è stata organica a questa egemonia. E infatti se n’è fregata di Romapoesia, la quale come ho ricostruito cento commenti fa è stata progressivamente strangolata dai finanziatori istituzionali che in quell’egemonia culturale ovviamente si riconoscevano (anche giustamente, dal loro punto di vista). Quest’anno, come a Massenzio, si è prodotta una minima, insufficiente e insoddisfacente differenza. Sarebbe molto interessante capire il perché, e capirlo forse riporterebbe IT (si dice così il contrario di OT?) questo segmento di discussione.
    Il Caffè illustrato, Fuoriformato, Luca Sossella Editore: sono proprio dei moloch editoriali, luoghi di potere da Spectre, chi non lo vede? Mentre la Bianca, lo Specchio col suo Almanacco, 24/7 e Stile Libero mondato di frissons situazionisti, per non parlare delle corazzate di Segrate e delle altre majors, quelli no sono pluralisti e aperti. Chi non lo vede, Marco?

  144. Caro Andrea sono felice che il dialogo sia tornato sui toni giusti e spiace anche a me avere ecceduto, il discorso che tentavo di fare va in una direzione esattamente opposta a quella dell’editoria di massa e delle ‘egemonie veltroniane’, che appunto ho sperimentato e ampiamente, ti assicuro, giudicato, in primo luogo comunicando il mio pensiero ai diretti interessati e poi prendendo spunto da quel mondo (ma non solo da quello purtroppo ne conosco altri ancora) come parti della mia esperienza, per tentare una descrizione dei rapporti umani, o meglio dei rapporti di potere nel 21 secolo in Italia, cioè scrivendoci sopra, partendo appunto dall’esperienza, ho tentato di obiettivarmi , cioè di non concedere sconti in primo luogo a me stesso, figlio di professore universitario e quindi educato, quantomeno per origine familaire, alla filosofa della praxis e al compromesso, caratteristico di una realtà, quella accademica, che purtroppo conosco bene anche io (un altro mondo appunto, su cui vale la pena di discutere…). Il problema che ponevo, riferendomi a questo ‘sciopero’ o ‘non sciopero’ è molto più terra terra: trovare il modo di uscire, con azioni concrete, con iniziative meno istituzionali, da un tipo di realtà che per quel che mi riguarda è chiusa in se stessa e con se stessa solo rischia di comunicare. Al di là del rischiamo alle ‘masse’, io penso agli studenti di una scuola media romana, ecco, ho fatto ripetizioni in passato ai ragazzini che leggono quattroruote e giocano a pallone nella Lazio, perché non si può andare a parlargli di Auden versus Di Canio a questi? Non è romanticismo, è proprio il contrario, per essere credibili, secondo me e contrapporsi a modelli culturali ‘massificati’ del tipo ‘I am PD’, occorre in primo luogo indagare i propri limiti, uscire da talune logiche di ‘gruppo’ (io la penso così), fare chiarezza sulle effettive possibilità di esprimersi, sopratutto se queste possibilità non si ricollegano all’accettazione pedissequa delle ‘regole del gioco’, quale esse siano. Ecco, fare chiarezza sugli spazi della poesia a Roma, appunto. Un saluto

    Andrea Inglese

    E’ verissimo che non sempre affinità politiche e artistiche coincidono e che da questo punto di vista, paradossalmente, i poeti si fanno isole. E’ verissimo anche che l’adesione a questo sciopero implica rientrare in una logica di ‘gruppo’.
    Beninteso, e in termini più gneerali, non credo che ragionare e organizzarsi in ‘gruppo’ sia in sé una cosa da respingere, credo che sia, come dici tu, una cosa molto difficile e impegnativa, è il problema stesso dei rapporti di potere, e qui letteratura e politica, estetica e ideologie potrebbero incontrarsi, perché dalla riflessioen sul proprio mondo, sui propri limiti, si passa poi a discutere di ‘nature umane’, e magari a screvere poesie. Un saluto

  145. Rientro IT (ti prego Alcor erudiscimi!) per commentare il commento di Ibridamenti che incoraggiava Sciopero a prodursi in termini di contestazione interna ai sistemi che contesta. Il punto è precisamente questo: Sciopero ha rifiutato la forma tradizionale di protesta (quella sul modello 68 e post-, appunto: letture di comunicati di scioperanti – scioperanti “veri” voglio dire – al posto dei propri testi, quadri rovesciati e comizi alla Biennale ecc.), considerata superata e non riproponibile, forse non del tutto a torto, perché inglobata dal sistema stesso, pre-autorizzata e fagocitata dal frullatore mediatico. Io non so come si possa concretamente ridare lustro ed efficacia a quella forma lì (che ai tempi ottenne risultati eccome, se ancora ci ricordiamo quegli episodi); appunto non sono un autore ed è dagli autori che mi aspetto in primo luogo creatività (anche se il termine è stato reso impronunciabile) e fantasia. So che la forma adottata qui non va bene, voglio stringere al massimo la mia perplessità, per tre ordini di motivi: 1) non è giusta perché il suo unico effetto immediato e concreto è lesivo unicamente nei confronti di soggetti che possono essere, e sono, solidali e a loro volta (con buona pace di Mantello) antisistemici (come, flagrantemente, Romapoesia) 2) non è giusta perché costringe gli autori a valutare caso per caso la proponibilità dell’ambienza in cui sono chiamati ad operare (dal momento che il parametro fisso, amministrazione di centrosinistra/amministrazione di centrodestra, è stato sin dall’inizio considerato impreciso e inappropriato) e incoraggia forme di ambiguità utilitaristica e doppiopesismi improponibili (radicali pasionari che collaborano ai giornali di Dell’Utri ecc.) 3) e soprattutto: non è giusta perché in temini concreti si traduce in autolesività degli autori stessi: che non possono esprimere le loro proteste in quanto ogni canale attraverso il quale potrebbero è sospettabile di essere a sua volta infetto da qualche contiguità sgradita (vedi addirittura Più libri più liberi).
    Io, ripeto, non ho soluzioni in tasca e sollecito un’assemblea in cui ci s’interroghi sulle forme concrete di azione. Però fin d’ora richiamerei a studiare i situazionisti e le loro risposte ad aporie che videro loro per primi e che erano dunque simillime a quelle in cui ci troviamo noi già all’inizio degli anni Sessanta. Il parasituazionismo paraculo anni Novanta era già discutibile, dunque non dico di riproporre acriticamente quelle forme e quelle soluzioni (peraltro a loro tempo geniali). Però è da quella logica, forse, che occorre ripartire. Sperando che non sia considerata troppo avanguardistico-impopolare.

  146. Su cosa dovrei erudirti, Andrea, su IT e OT? non sono la persona adatta, vado spesso fuori tema, anzi, amo il rivolo. E poi ti vedo perfettamente a tuo agio nel tenere le fila di una discussione che ogni tanto sbanda, ma che però mi pare sostanzialmente civile e IT, per quanto possibile in questa sede.
    Quello che mi verrebbe invece da aggiungere, ma sarebbe un commento fiume e forse troppo personale, con noiosi ricordi giovanili e analisi interminabili fatte da menti più lucide e attrezzate, mi viene dall’offerta della casa fatta da Simonelli. Sulla gratuità, cioè, che pur cambiati i tempi dovrebbe avere ancora diritto di cittadinanza, ma visto che nonostante lo spegnimento neuronale so ancora riconoscere il lavoro maldestro della nostalgia, della quale non ho la minima stima, mi taccio.

  147. Ah, che bello vivere lontano da Veltronia e da Morattiland!!! Qui da me c’è ancora spazio, se volete accomodarvi…

  148. Scusate il ritardo. (Mi sarei voluto astenere, oramai, ma i recenti rientri IT mi hanno stimolato). Sono contento che Marco Mantello e Andrea Cortellessa abbiano fatto la pace, e tuttavia mi sento, seppure troppo après coup, di spezzare una lancia o due. Innanzitutto per l’attività di organizzatore, critico e editor di Andrea, tutt’altro che ancorata a invarianti antropologiche (cricche, crocicchi, giri ecc.) e poetico-estetiche. (Semmai in cuor mio e non solo l’ho rimproverato di eccessivo eclettismo!). Poi per il “Caffè illustrato” (di cui sono appena divenuto redattore, e sono stato autore-ospite per parecchi anni), che ha sempre pubblicato poesie e prosa di appartenenze estetiche molto divaricate.

    @ Andrea Inglese

    Sollevi un problema importante: quello della non sovrapponibilità fra il piano politico e quello estetico. Storicamente i due si associano, almeno nel Novecento, lo sappiamo: in questa iniziativa (si parva licet) si dissociano. Si dissociano però momentaneamente, credo, o spero. O non in maniera definitiva. Anch’io preferirei che tutti i sodali fossero interlocutori anche sotto lo strettissimo profilo estetico; accettare l’inevitabile conseguenza che non lo siano è senz’altro uno dei caratteri di questa iniziativa. Credo potrebbe fare un buon oggetto di studio; e credo potrebbe essere un punto di debolezza ma anche – attenzione – di forza dell’iniziativa. Lo vedremo. Certo il timore che le divaricazioni estetiche possano finire per indebolire la coesione politica, è presente e sensibile.

    @ ibridamenti e Andrea Cortellessa

    Avete ragione, credo che all’elemento qualificante della “sottrazione” possano aggiungersi e, in certi casi, persino sostituirsi altri comportamenti. Quest’ultima possibilità è stata messa a tema, se non nel documento, in discussioni fra noi e anche, più marginalmente, in una serata nella libreria di Tor Millina, a Roma, di discussione fra noi firmatari e Elisa Davoglio, Lidia Riviello, Andrea Cortellessa, Luigi Cinque, Luca Sossella. Ho sempre visto la sottrazione di sé come una condizione definiente di questa cosa (le dà in effetti il titolo), ma non l’unica forma possibile: e ho sempre pensato che atti para-, post- o neosituazionisti potessero trovar spazio – anche a seconda dell’attitudine ESTETICA di ciascuno: la mia, ammetto, vi è poco incline – appunto FUORI dagli spazi con le famigerate insegne.

    Per quanto riguarda i tre punti di Andrea:

    Ribadisco il mio dispiacere per aver “danneggiato” (ma poi tanto?) il lavoro di amici e sodali. Credo purtroppo che _oggi_ Romapoesia non sia più “antisistema”, se si lascia patrocinare dal sistema. Questo in maniera completamente emergente (nell’accezione biologica del termine) rispetto: a. all’essere stata in qualsiasi misura “antisistema”; b. all’essere i suoi contenuti “antisistema”, presi a sé; c. all’essere i suoi organizzatori e partecipanti “antisistema”. La nostra posizione teorica (o se vuoi, più modestamente e adeguatamente, il nostro schematico e provocatorio postulato) è che un gradino di ANTIsistema in più si ottenga oggi con un gradino di EXTRA in più. Quindi, ripeto, mi dispiace del “danno”, ma questa cosa doveva partire la prima volta che ci fosse capitato un invito con su scritto “Comune” aut sim. E comunque avremmo fatto “male” o “danno” a qualcuno, magari anche alle stesse persone in altri ruoli, visto che (qui un punto a chi invoca una riflessione, sebbene OT, sull’esser noi troppo ubiqui pur nei minimi numeri che siamo) a fare ‘ste cose, a Milano come a Roma come a Palermo, siamo sempre più o meno gli stessi.

    Contesto molto fermamente il secondo punto. Non è vero che l’iniziativa costringe a valutare caso per caso l’”ambienza”. Le iniziative da combattere sono quelle patrocinate da enti POLITICI del centrodestra, nazionali (Consiglio dei Ministri, Ministeri) e locali (Comuni, Province, Regioni, Municipi). I centrosinistri sono un’aggiunta, per chi se la senta. Che ciascuno, in situ, possa giudicare da sé mi sembra una caratteristica di benvenuto anticentralismo e antidirigismo. Non abbiamo, come ha ricordato qualcuno, da fare un partito.
    Che poi le adesioni arrivino da persone di passati compromessi, me la potrei cavare con battute di stampo evangelico, ma più modestamente, e laicamente, anche qui con Putnam, riconosciamo il diritto e la possibilità a chiunque di cambiare idea.

    Il terzo punto è semplicemente un nonsense, perdonami. Che io abbia o meno modo di manifestare e “far passare” il mio dissenso è qualcosa che va empiricamente sperimentato. Per il momento mi sembra che il mio dissenso sia “passato” molto di più che se avessi scoreggiato (pardon) sul palco di Romapoesia, o se avessi letto un’invettiva. “Più libri più liberi” è per noi esattamente come RP: antisistema quanto ti pare nelle componenti, non nel risultato. Potremmo dire: antisistema-1 (politicamente corretto, tematicamente ottimo, con partecipanti rispettabilissimi) ma non antisistema-2 (in quanto di fatto, al di là delle intenzioni, predigerito e fagocitato e neutralizzato ecc.). (Peraltro, ho sempre visto molto più “antisistema-1” RP che PLPL, che, in tipica retorica veltronista, mi è sembrata non più che l’esaltazione di una “specificità vincente” nel “modello industriale” delle PMI del “distretto romano” dei miei stivali).

    Ciò detto, facciamo questa “assemblea” o che sia. Stiamo cercando di capire 1. se questo incontro a Lettere si farà e quando (martedì, o mercoledì, o invece la settimana successiva); 2. se abbia senso farlo coincidere con l’assemblea suddetta (io personalmente credo di no).
    Credo che a questo proposito sia il caso di sottolineare che né io né gli altri quattro primi firmatari ci sentiamo capipopolo di alcunché. Che le iniziative positive dovranno venire, se verranno, da chiunque voglia utilizzare il “cappello” dello sciopero, in maniera largamente indipendente non solo da ogni possibilità, ma da qualsiasi aspirazione (appunto, in noi inesistente) a coordinare tutti e tutto. Come ci ha scritto Marco Giovenale poco fa in una mail, che mi permetto di citare perché interpreta il nostro parere in maniera molto chiara, dovremmo imprimere allo “sciopero” “una sterzata movimentista/anarchico-disseminativa”. Dovremmo “promuovere la dissipazione del ‘geste’ Sciopero (diventato messaggio lanciato e da far proprio da parte di ciascuno) nelle prassi separate o condivise dei singoli o dei gruppi”.
    Che invita a far questo, oltre all’aspetto teorico, ce n’è francamente uno pratico. Le nostre energie – le energie di noi 5 – sono scarse; persino seguire con la cura che ha meritato questa benvenutissima messe di commenti ha richiesto in tutti noi, scioperati o no, uno sforzo notevole. Noi un passo l’abbiamo fatto, continueremo a farne impegnandoci in iniziative precise e a rifiutare partecipazioni. Abbiamo però a questo punto veramente bisogno di chiunque, favorevole o contrario allo sciopero, aderente, curioso, insospettito o apertamente dissenziente, voglia sul nostro stesso piano impegnarsi a costituire primordi di nuove prassi artistiche e intellettuali.

    A presto dunque,
    Vincenzo

  149. Terza lancia spezzata (avevo saltato qualcosa): in favore di Gabriele Pedullà, prima che fraterno amico e oltre che splendido studioso, fra i critici più curiosi ed aperti che io abbia incontrato.

  150. Della serie: indianisti, ancora uno sforzo! (per arrivare a 200 commenti), come avrebbe detto il Divin Marchese:
    @ Cortellesa:
    “Il punto è precisamente questo: Sciopero ha rifiutato la forma tradizionale di protesta (quella sul modello 68 e post-, appunto: letture di comunicati di scioperanti – scioperanti “veri” voglio dire – al posto dei propri testi, quadri rovesciati e comizi alla Biennale ecc.), considerata superata e non riproponibile, forse non del tutto a torto, perché inglobata dal sistema stesso, pre-autorizzata e fagocitata dal frullatore mediatico”.
    A forza di cercare il nuovo perché “superato e improponibile” il vecchio, si finisce con l’imbattersi non già nel vecchio, ma nel vuoto.
    Poi la chiusa, con il suggerimento a studiare la logica situazionista, forse contraddice l’incipit, ma tant’è…

  151. @ franz krauspenhaar
    ma grazie, troppo buono :-)

    @marco simonelli
    sììììì, lo sciopero dei testi !
    sai cosa immagino? un video firmato da…

    [ @effeffe ]

    … con le lettere delle parole che si tolgono a una a una, e un pò alla volta non ci resta niente né da leggere né da scrivere né da dire, nemmeno un filo di voce

    @Vincenzo Ostuni
    mi scuso se non riesco a leggere tutti i commenti (né a capire gli antefatti di molte cose che scrivete, né a leggere tra le righe gli impliciti) e perciò vengo al punto.

    Se è vero questo passaggio:

    “… Marco Giovenale poco fa in una mail, che mi permetto di citare perché interpreta il nostro parere in maniera molto chiara, dovremmo imprimere allo “sciopero” “una sterzata movimentista/anarchico-disseminativa”. Dovremmo “promuovere la dissipazione del ‘geste’ Sciopero (diventato messaggio lanciato e da far proprio da parte di ciascuno) nelle prassi separate o condivise dei singoli o dei gruppi”.

    possiamo aderire allo “sciopero dell’autore” lanciato su Nazione Indiana da “nomi riportati in grassetto nel post”” come blog collettivo Ibridamenti?

    E se sì, possiamo chiedere a Mario Galzigna (storico) e Giacomo Marramao (filosofo) che sono domenica mattina 7 dicembre per Ibridamenti a PiùLibri PiùLiberi di Roma di “inventarsi qualcosa”, nella diretta tv,o quantomeno di dare notizia dello “sciopero dell’autore”?

    Voglio dire: lo si può iniziare lo sciopero, come “dissipazione del ‘geste’ Sciopero (diventato messaggio lanciato e da far proprio da parte di ciascuno) nelle prassi separate o condivise dei singoli o dei gruppi”?

    (maddalena mapelli)

  152. Spinta da un certo amore per l’ordine ho cercato di dipanare per mio conto tutto quello che è emerso in questo lungo therad.
    Lasciando perdere le piccole rivendicazioni, i dissapori, le accuse di micro-poteri, che mortificano il discorso e lo zavorrano fornendo solo materia a una nuova commedia all’italiana – e che vorrei spazzare via dicendo a tutti che è più sano rendersi conto che le persone si aggregano per affinità di vedute, natura e progetti reali e che l’unica vera soluzione è pensare a propria volta e fare, aggregandosi nello stesso modo – vorrei tornare al commento di Inglese: “Posso sentirmi del tutto vicino, in termini politici ad una persona, e sentirlo completamente estraneo da un punto di vista artistico.”
    E’ vero che c’è questo chassé croisé non virtuoso tra politica e letteratura?
    Sì, se prende il sopravvento, come è accaduto qui, la politica come contingenza, per quanto urgente, no se si passa all’analisi della società in cui viviamo, delle sue condizioni materiali, dei cambiamenti che probabilmente porterà con sé la crisi economica e finanziaria attuale.
    E’ tenendo presente questa analisi solo accennata e data per condivisa che mi sono detta scettica verso iniziative che rischiano di marginalizzare le pratiche di presenza poetica (e perciò critica dello stato delle cose, anche se non arrivo certo a dire che la poesia è eversiva in sé, certo è ortogonale alla cultura dominante del paese.)
    Severi per esempio si è dichiarato soddisfatto di un confronto serrato sul problema etico e ha parlato di emergenza morale e della responsabilità dell’intellettuale di fronte al proprio tempo, figuriamoci se non sono d’accordo. Ma per quanto sia d’accordo, mi sembra insufficiente. E perché non vedo qui posizioni amorali da parte di nessuno, ma soprattutto perché il problema è Alemanno (uno su tutti) solo se lo si vede nato nel vuoto. Alemanno è la febbre, ma il virus, dove sta? Come e perché una società che quarant’anni fa sembrava così vitale di fermenti si è ripiegata e spenta e quali modi o nuove letture possiamo e dobbiamo darne per andare alla radice? Il nostro comune, mi par di capire, antiberlusconismo, ci spinge con le spalle al muro facendoci arroccare nella sola difesa di posizioni etiche, per quanto nobili? O abbiamo strumenti per rinnovare o mutare l’immaginario del paese perché ne abbiamo compreso la struttura e la natura? E se pensiamo di averli, su cosa li fondiamo? Su quali analisi?
    Benché Ostuni a un certo punto lo dica anche lui (“certo che i temi materiali sono più urgenti dei morali: lo dici a un marxiano…”) ho avuto l’impressione che si riferisse più alle condizioni materiali in cui versa la cultura che all’analisi economico-sociale-culturale (nell’ordine) del paese.
    Visto che qui ci sono marxisti e non, cito dalla prefazione alla Critica dell’economia politica, sperando di non dar scandalo: “Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza.”
    Questo non vuol dire spingere verso i massimi sistemi per sottrarsi all’azione quotidiana, ma, visto che è stato citato con fastidio (mi è parso) il Gruppo ’63, a me piacerebbe veder ripreso dalle generazioni più giovani, il legame così stretto tra analisi e opera che ha permesso a quelle opere, anche quando venivano rifiutate esteticamente, di operare come un elemento di grandissima novità nella cultura italiana anche da parte di chi non le condivideva, e fondate su una attenzione estrema alla realtà, anche quando si esprimevano in forme apparentemente estremistiche.
    A chi fa spallucce a sentirne parlare posso dire che anche per quelli tra noi che ne sono stati lontani per varie ragioni o ne sono stati soltanto spettatori passivi, hanno agito come lievito e stimolo, hanno infiltrato la cultura facendosi uscire dalla sonnolenza idealistica degli anni ’50 e hanno modificato le forme e le idee anche di quelli che ora le rifiutano.
    Sono d’accordo con Cortellessa quando dice che sul piano estetico la saldatura fra il veltronismo e il berlusconismo è una realtà da almeno un decennio. Meno veline e più buoni sentimenti nel primo caso, forse, ma in entrambi una massiccia dose di valium al pensiero critico. Ma trovo ancora limitato prendere Veltroni e Berlusconi come attori privilegiati della scena. C’è qualcosa di più profondo che ha permesso a entrambi di saldarsi così radicalmente nelle due parti dormienti del paese o quando non dormienti almeno spaesate e confuse e bisognose di anestetizzare il tempo. Che cosa sia, che cosa stia succedendo, questo interessa me. Non sta ai poeti analizzarlo, questo è vero, non c’è un modo soltanto, ognuno ha il suo in questo campo e non si assegnano compiti, ma fare di tutto per mantenere in vita ogni luogo, in cui le voci critiche e vive continuino a dare testimonianza di sé, tocca anche a loro. Su questo, credo, potrebbero tornare a essere marginali le contrapposizioni che ho visto qui e comune l’apertura.

  153. Vincenzo

    quello che avevo da dire l’ho detto e lo confermo in tutto e per tutto, sono discorsi complessi, fastidiosi e se li faccio, evidentemente, non è per rivendicazioni personalizzate ma è perché voglio confrontarmi su contenuti e i contenuti ci sono, secondo me. Un saluto

  154. se qualcuno tenacemente sarà ancora qui a discutere, domani vorrei lanciare una proposta, ma stasera mi lancio solo sul materasso, scusate!

  155. io sottoscrivo alcor e aggiungo:
    quando ostuni troverà un’alternativa seria che non consista unicamente nel suo urlo con boato da un microfono “scassato” neell’auletta okkupata e nostalgie di matricola… prenderò in considerazione le proposte di Sciopero; ma non mi si offra questa come UNICA alternativa possibile ad una performance da professionista, con tutte le attrezzature adeguate, sul tipo, per intenderci, di Ilaria Drago.
    Non sarò certo io a contribuire allo smantellamento di quel poco che è stato riesumato, con tanta fatica, in questi ultimissimi anni per eccesso di pruderie o ubriacatura ideologica. aggiungere sì. sottrarre mai.

  156. Alcor

    E’ vero, le contrapposizioni che hai visto qui possono essere e sono sicuramente per molti, comrpeso me, marginali, nel momento in cui citi quel bel passo di Marx, poi ripreso da Pasolini, per tornare alla poesia del passato (e del presente), quando nel ’74 evidenziava che dietro i rapporti di produzione e scambio, dietro il ‘consumo’ si annidano nuovi rapporti umani. Su questo credo che moltissimi, qui, siano tra loro d’accordo, quando parlaamo di duopolio/saldatura veltroni/berlusconi.
    Personalmente, continuo a credere però che essere credibili, contrapporsi materialmente a questo modello attraverso i versi (cioè nei limiti delle proprie possibilità emotive), implichi un ragionamento pubblico, anche duro, sull’efficacia, le possibilità comunicative, sugli spazi sopratutto quelli ‘locali’, in cui si va a leggere poesie, cioè un ragionamento a trecentosessanta gradi, che coinvolga anche i propri limiti e quelli dei propri ‘simili’, quanto alle forme di organizzazione del ‘fare poesia’ e soprattutto del ‘comunicarla’. Altrimenti, hai ragione e anche io, in preda alla foga dialettica, ho forse contribuito a deviare il discorso, poi si litiga ci si rinfaccia cose o si finisce, (secondo me, Vincenzo, era inutile, visti i toni originari del mio primo post, che non mi sembravano affatto maneschi) per sentirsi in dovere di spezzare lance in favore di amici.

    Ancora Vincenzo, parlare di ‘sciopero’ e in relazione alla protesta contro Alemanno/centro destra è giusto ma per me non è abbastanza. Non si tratta di scioperare fra ‘soldiali’, si tratta di aprire un dibattito ampio, serio e se possibile sereno, sui temi che ho cercato di segnalare.

  157. alcor fa (da manuale) una panoramica che si vuole neutrale e oggettiva ma è parziale assai, inevitabilmente. mi riferisco alla ricostruzione storica dei passatisti anni ’50 e, ancora ancora ancora ancora, della forza propulsiva potenziale rivoluzionaria del gruppo 63 e dintorni come punto di partenza, modello di riferimento per avanzare oggi proposte e stili di protesta e alternativi. altro che tiri al piccione. aggiornato con un situazionismo made in italy magari à la cordelli fine settanta, ecco confezionato il solito (sterile) agguerrito discorso di poetica. (un certo tipo di) avanguardie, fuori formato, ecc. meritorio e generosissimo lavoro critico, e di qualità, e di gruppi e/o individualità capacissime, che circola influente e corazzato nel campo letterario degli ultimi 15 anni, almeno. altro che tiri al piccione. è un po’, come sottotraccia, il rischio e il limite del duello realismo- non (solo) realismo così come è stato rappresentato qui, e altrove. soliti steccati, solite dispute corporative, solite parole d’ordine, alla fine, che si sfidano vuote e piene di cultura, pregne di citazioni e di esibizione di aggiornatissimi strumenti concettuali, ma nessun passo avanti. eppure alcor cita marx, quello dell’egemonia, quello da cui partì antonio, il convitato di pietra, qui (insieme a franco: fortini e gramsci, per dire). finchè non si dispiegherà un bisogno collettivo di ‘conoscenza storica’, non specialistica, del passato e del presente, hai voglia a parlare e straparlare di sciopero detournement gruppo ’63 per arrivare a roma-poesia: ‘antisistema’, appunto. come il gruppo 63&c. bel discorso autoreferenziale e (drammaticamente) tautologico, in fondo in fondo in fondo. il bisogno di conoscenza storica va alimentato: lo possono fare tutti, tutti quelli che fanno lavori a contatto comecchesia col ‘pubblico’, dallo scrittore all’editor, dal poeta al maestro di scuola, dal baronetto universitario al giornalista all’editore e organizzatore o consulente di eventi. purchè, per primi, queste figure riflettano anzitutto, compreso chi scrive, sul proprio ruolo e funzione all’interno dei meccanismi politici ed economici dell’esistente, nel loro quotidiano di scelte e di spostamenti di pensiero e di azione, di relazioni e di solitudine dequalificata. collettivamente. quindi un effetto, magari indiretto parziale non voluto contraddittorio paradossale ce l’ha questa discussione sullo scioperare: ed è quello ancora una volta di stanare, per così dire, quelli per cui le lettere sono l’iperuranio del mondo, e poi, ma solo in parallelo e in un secondo terzo quarto tempo viene la riflessione marxiana, per così dire, e l’azione politica, per così dire, o di politica culturale. ognuno con i suoi distinguo, le sue storie e percorsi, tutti rispettabilissmi, ci mancherebbe, per alcuni lodevolissimi. eppure come sanno tutti qui si possono ben scrivere poesie stranianti lavoratissime e persino manieriste, ma con un fondo duro di materiale allegoria sul presente, e insieme riflettere ancora sui poteri e sui linguaggi della storia, e insieme ancora vivere e magari sbagliare la politica a partire dal proprio privato quotidiano professionale o dilettantesco che sia. così per la critica ecc. finchè non si sarà capito e verificato collettivamente, finchè non passerà questo principio utopistico-empirico, i commenti arriveranno a 200 e passa anche stavolta, e buonanotte. detto questo, un modesto consiglio: saldare proteste iniziative slogan perfettibili con la ricerca di altri interlocutori di azioni e discorsi perfettibili ugualmente, ma indispensabili per non cadere nel corporativismo più estremo. sul terreno della ‘scrittura’, in fondo, si possono incontrare non solo autori e creativi, critici e (para)accademici, ma anche i lettori, i docenti, gli studenti, i giornalisti, persino qualche sindacalista illuminato, qualche acuto super- intellettuale, ecc. ecc. forse i modi dell’appello erano e sono sbagliati, di difesa-rivendicazione identitaria (‘raggelante all’interno’, ‘aggressiva all’esterno’ diceva uno) sopra tutto, e questo ha scatenato o il consueto sostanziale silenzio indifferente in giro; o le reazioni indispettite, perplesse e turbate, dei difensori, anche sotto mentite spoglie, del sacro fuoco letterario. La folie Baudelaire, per dire.

  158. “purchè, per primi, queste figure riflettano anzitutto, compreso chi scrive, sul proprio ruolo e funzione all’interno dei meccanismi politici ed economici dell’esistente, nel loro quotidiano di scelte e di spostamenti di pensiero e di azione, di relazioni e di solitudine dequalificata”

    io rifletto, non faccio altro per la verità, specie in questi giorni. E lo faccio apertamente, qui, col mio nome e cognome. E tu “Fabio”? “Compreso chi scrive”. Chi scrive?

    Lo so, Alcor, che è stucchevole e OT ripetere che è disonesta la dissimetria fra ortonimi e anonimi, in rete; epperò dal momento che mi si richiama, giustamente per carità, alla coerenza e alla responsabilità (e solo per questo, ribadisco), mi attenderei pure la reciproca

  159. Fabio

    Concordo con il tuo discorso sul corporativismo, ma non penso che tutti qui dentro siano convinti di vivere nell’iperuranio, è per questo che partecipo al dibattito, altrimenti se pensassi di avere a che fare con gente in malafede non sprecherei i soldi della connessione.
    Nel merito, quello che volevo appunto evitare, con il discorso sui ‘gruppi’, era proprio ricondurre il tutto a discussioni astratte e a categorie del tipo ‘realismo’ e ‘non realismo’, intendevo come ho detto e purtorppo ripeto, dare un contributo per provare a riportare la poesia sulla terra (con riferimento a esperienze locali, peraltro, un discosro assai concreto, gramsciano, se permetti, e teso proprio a oltrepassare certe sterili dicotomie)
    tu cosa proponi, sul piano delle iniziative concrete, al di là dei legittimi rilievi critici sui filoni della discussione in rete? Ho trovato il tuo intervento interessante, però forse specifica, ecco, quali sono le tue proposte.

  160. @ Fabio

    Dici che Fortini circola convitato di pietra. Cioè, se la metafora (un po’ consuntella, mi concederai) ha un senso, non citato non ricordato non tenuto-conto ma che se invece lo fosse farebbe ribaltare il tavolo. Io un po’ Fortini l’ho letto, benché avanguardista-bellettrista; e l’ho anche studiato benché settario-corporativista. Alcune delle critiche che fece al Gruppo 63 sono importanti, altre sono davvero corporativistiche; quelle che fece al movimento del 77 invece sono ingenerose stizzite e solo-distruttive.
    Ma non questo interessa ora. Il suo nome torna eccome, al caso nostro. Dappoiché il problema, come giustamente dice Alcor, non è Alemanno ma la cultura (in senso antropologico) che l’ha portato dove sta, il caso di Fortini collaboratore del Corriere della Sera e poi addirittura del Sole 24 ore è, per la discussione attuale, del massimo interesse. Quando Fortini scriveva sul manifesto, insegnava oltre a praticare, poteva cantarle ai suoi compagni (eccome se gliele cantava, anche a sproposito come detto); quando scriveva sui giornali della borghesia e della Confindustria era tenuto a chiarire con la massima icasticità “da dove” parlava e “a chi” (cioè da socialista e alla borghesia destrorsa). Questo ha fatto sì che sul Corriere, sul Corriere!, abbia potuto scrivere cose straordinariamente urticanti (altro che Pasolini), fino a che l’hanno buttato fuori (dopo il famoso “discorso di Grenada”). Ancor più ci interessa il fatto che non rifiutasse quelle collaborazioni. E non perché teneva famiglia. Ma perché pensava fosse politicamente significativo e valido ed efficace che contenuti e toni palesemente anti-sistema venissero a essere mediaticamente veicolati dai principali alfieri del sistema (per un’eterogenesi dei fini che in Italia ha funzionato, eccome, negli anni Settanta e primi-Ottanta, poi et pour cause molto meno). La questione della cornice è decisiva. Se si scrive solo per i compagni e ai compagni c’è solo il quadro (il che è anche molto avanguardista, a ben pensarci). Certo, se c’è solo la cornice il discorso cambia (vedi chi collabora serenamente a Libero o al Domenicale di Dell’Utri).
    Scusa Fabio se sono pieno di cultura e dunque vuoto, ormai è fatta, non posso farci niente, mi hanno disegnato così.

  161. @marco mantello
    Marco, quel che non sembra manesco in conversazioni private lo sembra, per fortuna direi, molto di più nell’arena scoperta di una discussione pubblica (almeno fra ortonimi). A me i chiarimenti di Andrea e mio paiono sacrosanti.

  162. Andrea C. non ti ho capito, a me sembri coerente e non mi sembrava di aver detto il contrario, ma adesso mi rileggerò.

    Fabio il mio commento non voleva essere per nulla polemico e tanto meno da manuale, cercavo solo di tirar le fila facendo ricorso alla memoria, tra l’altro, per quanto riguarda me, nel ’63 avevo 17 anni, e nel ’66 ho avuto il primo e anche unico incontro fisico con una parte dell’allora gruppo in questione, poi la politica ha spazzato via tutto, ma la temperie (posso?) ha influito anche chi riservava alla neo-avanguardia uno sguardo laterale.

  163. @ Alcor
    no non mi riferivo a te, mi riferivo a Fabio, che accusava me (o quelli come me, professorini editorini intellettualini) di incoerenza; il riferimento a te è sulla questione di anonimi pseudonimi ortonimi, che è di repertorio e, concordo con te, in genere stucchevole.

  164. Vincenzo

    Ok, i chiarimenti ci sono stati, apprezzo il tuo ‘fortunatamente’ anche se restiamo di opinioni diverse sul punto.
    Nel merito, che è quello che mi interessa molto di più, spero che qualcosa del discorso che facevo sia discusso pubblicamente, in un’assemblea e che in futuro si organizzi qualcosa, come sai ci sono tante persone, anche all’interno dei firmatari della vostra iniziativa, che sarebbero secondo me pienamente interessate e disponibili a leggere poesia nelle scuole o da qualche altra parte e ci sono anche i mezzi e i canali per farlo. Guarda se organizzate qualcosa di non istituzionale, con un pubblico di ‘non adepti’, prendo l’aereo da Berlino e vengo a mie spese.

  165. Andrea

    Io trovo che gli articoli dell’ultimo Pasolini sul corriere fossero molto pregnanti e profetici, sul degenerare del ‘proletariato’ in ‘piccola borghesia’ (hai presente i ‘consumatori’ di oggi, i ‘cittadini consumatori’?), certo c’era questa spirale antimoderna, c’erano le menate sull’abbandono della televisione e il ruolo di una nuova chiesa cattolica, quindi qualche cosa di molto feroce, di felicemente irrealizzabile, visto che in quel periodo le accuse di antirealismo fioccavano da tutte le parti, anche da autori come Calvino, se non ricordo male.

  166. @ Marco Mantello

    Adesso lo so che con questo commento mi attirerò una valnga di ironie e alzamenti di spalle, ma su quei pezzi di Pasolini ho scritto su Micromega tre anni una quarantina di cartelle, mi è difficile riassumerle in poche battute. Dirò in estrema sintesi quello che in quel pezzo non dicevo neppure così esplicitamente (perché in fondo l’estrema sintesi, a fronte di un caso così ambiguo e complesso, è traditrice e inappropriata), e cioè che l’antisistemità del PPP corsaro è stata l’inizio dell’uso postmoderno della derealizzazione ideologica; cioè l’equivalente, in termini giornalistici, della protesta “interna” degli artisti (alla Biennale per es.), sessantottesca, che detto per inciso non affatto equiparabile all’uso situazionista prima da qualcuno stigmatizzato come già-autorizzato ecc. La strutturale contraddittorietà, la meta-paradossalità (come ho provato a spiegare su Micromega) di quei pezzi li rendeva “spettacolari” e dunque già-autorizzati e funzionali alla logica del sistema.
    Infatti PPP è diventato l’icona maxima di Veltronia (benché se si prendessero sul serio le sue posizioni tutto il sistema culturale di Veltronia dovebbe auto-esautorarsi e andare a pelare le patate) e Fortini no. Perché Fortini non è strutturalmente contraddittorio né meta-paradossale (e in effetti non à quasi mai paradossale ma anzi, quando parla di politica, frontale e “ultimativo” e aut-autistico, cioè esattamente il contrario di PPP).
    Ciò non toglie che quei pezzi di Pasolini siano letterariamente dei capolavori e quelli di Fortini no (o molto meno). Ma questo è un altro piano del discorso.

  167. @cortellessa Caro Andrea (se posso chiamarti per nome, a me basta così), firmandomi mi sembrava già di dare corpo a questa voce afona, niente di più niente di meno. E comunque fabio moliterni, se pensi possa essere utile. Ti può sembrare strano, ma nel mio discorso di getto non un riferimento negativo o frecciata (per lo più quasi-anonima o quasi-pseudonima) ad personam, tanto meno nei tuoi confronti. Mi ci metto anch’io in mezzo, come hai evidenziato (anche se solo per nome, tant’è). Nessun vuoto nessun avanguardista nessun bellettrista. C’era en passant un riferimento a gruppi o a individualità indiscutibilmente di valore, credo io, a iniziare da te, che hanno in mente un’idea di letteratura ben precisa, e che fanno un lavoro indicutibilmente di valore – di lavoro critico, di esegesi, di riscoperte, persino (ed è straordinario, lo dico senza ironia) di promozione editoriale – su autori e opere che rispondono a quella precisa idea di letteratura. niente di più niente di meno. era sul ‘tiro a piccione’ che secondo me sei caduto sul ‘corporativo’, sulla mera (e arcinota, come m’insegni) battaglia di poetiche, ecc. ecc. tutto qui. per il resto, tu batti su un punto cruciale: poter disporre di canali mezzi media scene palcoscenici da dove discutere e fare un certo tipo di lavoro critico (e quindi anche politico, politico-culturale) è la sfida da accogliere, da affrontare. da saviano in poi. io credo che anche dietro questa visione delle cose manchi, continui a mancare cronicamente una riflessione collettiva, insisto, sui ruoli e le funzioni, le casematte del potere, come diceva quello lì, e le ramificazioni di quel potere. ancora fortini, dunque, o comunque i suoi ragionamenti. poi, come proposta molto concreta: si è provato a ‘disseminare’ appello e testi connessi e annessi, in breve, davvero a pioggia? intendo, presso per esempio tutti i dipartimenti universitari, la vituperata accademia, le scuole&c.? potrebbe essere un modo per scalfire rischi e pericoli di ‘metafisiche dell’identità’ di vario segno. saluti.

  168. @ Fabio (Moliterni)

    Mi pare che, a presentarsi esplicitamente, le posizioni per miracolo si avvicinino. (Eterogenesi dei fini, sempre.) Sono d’accordo con quanto dici ora, e dunque capisco ancor meno perché rimproverassi a me (o a quelli-come-me) un eccesso di Teoria o una mentalità da Grupp(uscol)o. Le critiche che muovo al Gruppo Sciopero sono meramente individuali, infatti, sulla base dell’esempio squisitamente privato dei miei problemi concreti, delle mie interrogazioni di coscienza ecc. Come diceva Pasolini, proprio (ricattatorio, lui): sulla base dell’esperienza personale.
    Il cenno che fai a Saviano meriterebbe di essere sviluppato, ma qui credo non sia opportuno. Quello che fai all’università pure, ma non è opportuno in generale. In entrambi i casi il dissenso deve confrontarsi con l’esigenza di autorappresentarsi, e ha scelto di farlo in certi modi e con certe alleanze che non solo Sciopero considererebbe, e considera, improponibili. Ma siamo sicuri che abbiano fatto male? Io non sono affatto sicuro. Per inciso, su questi temi non sono sicuro di nulla (come da tempo peraltro si sarà capito: a dispetto della cultura e del vuoto – che in genere, e postmodernisticamente, è esilarante, non deprimente).

  169. Alcor, non ti dispiacera’ essere la messa a terra di tutti gli scazzi elettrici in colonnino, spero… non mi scandalizzo di leggere ancora Marx. Quel che mi colpisce, e’ che siamo al conato pubblico -e fortissimamente romanocentrico- di un qualcosa che non esiste altrove: la paranza, la magniloquenza settaria, la revoluscion da salottino con telefono e bottone rosso, compresi i figli illustri in esilio ma a portata di aereo. Lo trovo grottesco e, ripeto l’osservazione “contributiva” al discorso, per nulla legato all’estetica… che se no un ottimo attacchino o un ottimo oratore sarebbero piu’ a casa, in questo campo e in questo sito, di un ottimo poeta gracilino. Per fortuna, fuori Urbe esistono altri mondi. Buon proseguimento.

  170. @ GiusCo

    Dunque gli ottimi poeti gracilini non hanno diritto di parola. Né devono chiedersi a cosa le loro belle parole graciline possano servire o a chi possano servire. E Mandel’stam rimandiamolo al Gulag.

  171. Andrea

    Tu però su Pasolini fai un mero discorso sugli ‘effetti’, e a tratti sugli usi postumi dei contenuto (non solo e non tanto letterari) quanto politici di quegli articoli, che ti ripeto mi paiono attualissimi. Non ho letto le tue quaranta cartelle su Micromega quindi mi attengo alla tua sintesi postata qua e mi rendo conto che magari il discorso diventa incompleto, però mi pare che tu rinvenga già nella intrinseca contraddittorietà di quei contributi non tanto il germe quanto la sturtturale conformità di quei contenuti politici a Veltronia. C’è un bel saggio di Borges, su altre inquisizioni, si chiama Kafka e i suoi precursori e lì si un ragionamento molto sensato sul carattere ‘kafkiano’ (creato evidentmenete ex post) di ‘achille pie’ veloce’ e la ‘tartaruga’, o di Zenone e il tempo. Ancora, è come se tu mi dicessi, ovviamente è un esempio, che nel pensiero di Marx sulla dittatura del proeltariato c’erano i germi o qualcosa di compatibile, a posteriori, con lo stalinismo o che i richiami di Nietsche alla profezia degli uomini di eccezione, riportati correttamente in un bel libro di Loewith sul nichilismo europeo, contnessero i germi del nazismo. Voglio dire, non rischi di perdere di vista i contenuti non ‘letterari’ ma ‘politici’ di quei saggi, storicamente individuati, analizzandone gli usi e consumi postumi? Ti ripeto, secondo me i cittadini comumatori di oggi sono individuati, le associazioni fra ‘beni di cosumo’ e ‘identità personali’ (tema importante, Fabio, altro che metafisiche) si trorvano esposte con grandissima chiarezza anche nel saggio pasoliniano sulle ‘colpe dei figli’ (nessuna polemica, giuro…) o nell’intervento al partito radicale e io a quello mi attengo, non credo che un testo, storicamente analizzato nel suo contesto, contenga in sè i suoi ‘post-cursori’.

  172. Gius co

    se parli di me ti assicuro che a Berlino, nella sostanza, sto benissimo,non sono un frignone, ho una compagna spelndida, due cani e non mi sento affatto in esilio, ragiona sui contenuti dei miei interventi, per cortesia
    Se non ti riferivi a me, sii più chiaro e dicci a chi ti riferivi.

  173. Gius co

    Esponi se ti va questi altri mondi esistenti fuori urbe, ognuno parfla di quello che conosce e magari dove vivi tu esistono forme di aggregazione intgeressanti…l’unica cosa che non pui fare, adesso, è andartene senza esprimere una reale opinione sui ‘contenuti’.

  174. @marco m. proprio perchè è centrale, marco, il tema dell’identità, a tutti i livelli, dalle neuroscienze (sic) alla geopolitica addirittura, e anche qui: e la ‘retorica’ dell’identità (in senso neutro e tecnico, oggettivo) può diventare ‘paralizzante’: ripeto, citando un bell’articolo di qualche giorno fa: può diventare ‘raggelante all’interno’ e ‘aggressiva all’esterno’. come ogni metafisica, rovesciata o meno in nichilismo, esilarante euforica o deprimente (o depressa). l’erranza, la ‘disseminazione’, direbbe (ha detto) qualche (para)avanguardista, possono essere antidoto e contravveleno.

  175. Gius co ultima cosa: i voli dell’Easy jet da Schoenefeld a Ciampino, se prenotati con due mesi di anticipo, costano cifre abbordabili, tipo 77 euro. Se vuoi ti aggiorno sul mio stipendio attuale, non ho problemi di sorta…

  176. @mantello

    Quando dici “Personalmente, continuo a credere però che essere credibili, contrapporsi materialmente a questo modello attraverso i versi (cioè nei limiti delle proprie possibilità emotive), implichi un ragionamento pubblico, anche duro, sull’efficacia, le possibilità comunicative,” io non sono per nulla contraria, anzi, cerco solo, nei limiti di un commento, di allargare. Del resto anche questo che facciamo qui è un ragionamento pubblico.

    @Giusco
    non mi dispiace niente, ma fatico a capirti quando dici:
    “Quel che mi colpisce, e’ che siamo al conato pubblico -e fortissimamente romanocentrico- di un qualcosa che non esiste altrove: la paranza, la magniloquenza settaria, la revoluscion da salottino con telefono e bottone rosso”
    Io non sono romana, e ho vissuto in due o tre altre città oltre a quella in cui vivo ora, ma a parte questo, la paranza, la magniloquenza settaria ecc. le ho viste sotto ogni latitudine, dipendono dalla qualità o meno delle persone che le praticano.
    Poi tutti gli accenni che fai al poeta gracilino ecc, io non li capisco perchè non ho i riferimenti. Di chi parli? A chi parli?
    Se la paranza è riferita a me, non ho niente da mostrare, difendere, pubblicare, non ho inviti nè a destra né a manca, né patrocinati né non patrocinati, sono anche troppo vecchia ormai per avere qualche prurito in tal senso, e per di più sono estremamante pigra.
    Sono invece, e molto mi soddisfa, un’osservatrice partecipe di un dibattito che investe una generazionie più giovane di me.
    Tra le posizioni che ho visto espresse qui mi sono sono schierata, se possiamo dire così, al fianco di quelle che mi parevano più articolate e condivisibili, QUI, non altrove, e senza telefoni col bottone rosso (bottone rosso?)

    Tu sei, ai miei occhi, terribilmente criptico.

  177. Cortellessa: io vedo solo gracili poeti. Tu vedi altrettanto gracili poeti ma, per utilita’ di lotta, li fai diventare ottimi poeti. Nel mio mondo, i gracili poeti vanno a lavorare e i poeti gracili muoiono di fame; ma nel tuo, diventano attacchini con la patente e, quando non piu’ utili alla causa, finiranno nel gulag di un qualsiasi dimenticatoio.

    Tu sei perfettamente consapevole -per via del lavoro che fai- del fatto che esiste un *quid* particolare del letterario, il talento (o il genio) che esteticamente nanifica chi non ce l’ha, talento che e’ prima di tutto fiducia nella vita e nel suo flusso. Genio allevato con dedizione puramente letteraria, perche’ quella e’ un’altra forma di vita, una forma propria e a-politica. Forma che esercita sul popolo bue -per via di fascinazione- quello stesso influsso che tu -di forza, perche’ in un esercito di senza genio- pretendi di modellare per via di attivismo simil politico. Fascinazione che, al fondo, riesce addirittura a trasmettere il messaggio.

    Ma che te lo dico a fare… qui non si tratta nemmeno di cultura, quanto proprio di seme coscienziale e creaturale, di fiducia nelle proprie capacita’ specifiche e nel lavoro di crescerle, fiducia nel potere positivo che il merito liberamente espresso e fine a se stesso puo’ avere su chi ti sta vicino, stimolandolo a dare il meglio di se’ e quindi a migliorare la propria condizione anche pratica. Forse stare sotto la crepa -delle illusioni e delle delusioni- e’ in un certo senso piu’ facile, rende un senso minore ma piu’ accessibile che il vedere la luce della semplicita’ positivista e compassionevole, la quale impedisce -a priori- di pensare a qualunque cosa come ad una “lotta”, perche’ farlo ruba energie utili alla vita e alle numerose possibilita’ *positive* che offre ogni giorno.

  178. un’osservazione sugli ultimi botta e risposta molto serrati tra andrea cortellessa marco mantello alcor fabio m. e altri: ok, tutto interessante, dico davvero, ma possiamo evitare di trasformare questa riflessione in un convegno su Fortini Pasolini il gruppo 63? Non dico che non sia interessante confrontare le nostre letture su questi autori, non dico che non sia importante rileggerli per capire il presente, per impostare meglio la discussione attuale. Ma possiamo per un attimo seppellire i morti e guardarci in faccia tra noi, vivi? Possiamo tentare di fare un passo avanti. Qualche passo mi sembra lo abbiamo fatto con questa discussione.

    Ecco la mia proposta semplice. Che è un modo possibile (da valutare se efficace o meno) di rispondere alle perplessità suscitate dalla proposta dello Sciopero d’autore. Ieri sera mi sono trovato con tre amici poeti: Cepollaro, Broggi e Dome Bulfaro. Quest’ultimo mi ha esposto tutto un percorsi che ha realizzato in questi anni sul territorio (oggi in Brianza) con diverse istituzioni e privati sulla poesia. Non vi riassumo adesso la ricchezza di questo percorso. Ma mi sono detto: cazzo, perché non cominciare da noi vivi, a:
    1) comunicare quello che facciamo (i nostri progetti dentro e fuori le istituzioni)
    2) esplicitare quale politica culturale guida questi progetti
    3) avere il coraggio di presentarne i punti deboli, riflettere sui fallimenti, i limiti, gli ostacoli, le contraddizioni
    4) tentare di riflettere come certe politiche culturali possano incidere sulla cultura politica dell’italia attuale.

    Io sarei disposto a mettere a disposizione NI, per avviare questa sorta di “censimento critico”, da distinguere bene da un censimento autopromozionale e apologetico.

    Vantaggio di questo censimento critico:
    1) ritornare ogni tanto tra i vivi (anche se il dialogo coi morti, lo so bene, è fondamentale: ma ogni tanto va interrotto)
    2) conoscere ciò che facciamo in luoghi lontani e in modi diversi, al di là delle partizioni di poetica e appartenenza
    3) valutare su ciò che facciamo, chi siamo, e quanto riusciamo o non riusciamo ad incidere sul territorio
    4) uscire dal ruolo del puro autore che scrive poesie o un saggio critico, per entrare nel ruolo di chi si confronta con un pubblico più ampio e variegato di quello degli adetti ai lavori.
    Insomma, proporrei un semplice lavoro fenomenologico, di descrizione di cio’ che esiste.

    Forse, ne potrebbe uscire una cosa pallosissima, non so. C’è da rifletterci.

  179. Adesso è chiaro il mondo dove vive Gius.co: dentro l’Attimo fuggente, cioè dentro un film generazionale dove il collega smaliziato del protagonista (quello di Mork e Mindy) gli dice a un certo punto che sta illudendo i suoi studenti.
    Per quel che mi riguarda, ultimamente ho messo qualche kilo e ho una personalità, se Gius. co si degnasse di rispondere alle mie richieste di chiarimento farebbe cosa buona e giusta, altrimenti risulta inutile alla discussione e piuttosto cinematografico, appunto.
    Come mi firmo per questo intervento, visto che tu ti firmi Gius.Co.? Mar.Ma. della Setta dei poeti estinti?

  180. @andrea

    Ci sto, mi sembra comunque una buona cosa. (Anche se 1, 2, 3 e 4 lo facciamo da sempre tutti, in vari gradi, o no?) Ma interamente non sostitutiva né alternativa a iniziative sul campo, questo è chiaro. Pensiamo un po’ meglio alle articolazioni?

  181. @ Andrea I.

    Non lo so, non mi convince. E non solo perché, come dice Vincenzo, ognuno di noi lo fa tutti i giorni, questo “censimento critico” … Forse, se proprio si vuole trovare una proposta di sintesi, meglio sarebbe organizzare uno spazio comune (sito, blog, non so) dove fare confluire analisi, impressioni, giudizi sugli aspetti che rendono l’Italia quella che è. Una sorta di “assemblea permanente” sui problemi della cultura in Italia, da cui potrebbe anche nascere un testo collettivo su cui invitare altri a discutere. In questo modo si darebbe una prima risposta operativa alle preoccupazioni che stanno alla base di chi ha indetto lo sciopero, con l’aggiunta del diretto coinvolgimento di chi, pur non giudicandolo efficace, non vuole starsene fermo.

    ng

  182. ng, veramente non dicevo che facciamo tutti i giorni il censimento critico, bensì:

    1) comunicare quello che facciamo (i nostri progetti dentro e fuori le istituzioni)
    2) esplicitare quale politica culturale guida questi progetti
    3) avere il coraggio di presentarne i punti deboli, riflettere sui fallimenti, i limiti, gli ostacoli, le contraddizioni
    4) tentare di riflettere come certe politiche culturali possano incidere sulla cultura politica dell’italia attuale.

    Il censimento critico invece, sono d’accordo con a., non lo facciamo granché. E credo che sostanzialmente si pensasse a un’assemblea permanente. (Ma un’assemblea permanente non dovrebbe essere sostanzialmente un sito o un blog? Che cosa avrebbe di diverso da absolute o nazione indiana o…? Forse che stavolta questo frastagliatissimo noi che in qualche modo emerge da queste conversazioni sarebbe _riunito tutto lì_? Questo sì, sarebbe un bene, non ho dubbi).

  183. guarda Vincenzo che è Andrea che chiama i punti da 1 a 4 “censimento critico”, non io, e sei tu che affermi, alle 16:06, che 1-2-3-4 lo facciamo da sempre tutti …

  184. a’ ng, e su… tutti noi comunichiamo ecc., esplicitiamo ecc., abbiamo il coraggio ecc., tentiamo di riflettere ecc. (1-4), ma è chiaro che con “censimento critico” andrea pensa a una sede unitaria, il che mi pare appunto – se ve n’è uno – l’elemento di novità.

  185. allora, provo a spiegarmi meglio, ma ripeto non si tratta di un’ideona, ma di qualcosa che forse non abbiamo ancora fatto e che (forse) può farci avanzare.

    posto che ognuno di noi (magari la maggior parte di noi, per non essere troppo ottimisti):
    1) comunica quello che facciamo (i nostri progetti dentro e fuori le istituzioni)
    2) esplicita quale politica culturale guida questi progetti
    3) ha il coraggio di presentarne i punti deboli, riflettere sui fallimenti, i limiti, gli ostacoli, le contraddizioni
    4) tenta di riflettere come certe politiche culturali possano incidere sulla cultura politica dell’italia attuale.
    nei suoi immediati dintorni,

    non credo che tutti siano al corrente di tutto; non credo che tutti facciano la stessa politica culturale; credo che ci siano sia differenze da confrontare sia dati da comunicare. Il censimento critico, come ha ben visto Vincenzo, sarebbe un luogo unitario dove far confluire il resoconto di queste diverse esperienze.
    Ora io ho vissuto 4 anni fuori d’Italia, non sono un assiduo partecipatore di ogni evento poetico in giro per l’Italia quindi ho una visione estremamente lacunosa sulle tante realtà che esistono e che fanno qualcosa con la poesia, o per la poesia. Se però questa idea del censimento critico sembra inutile, perché non ce n’è bisogno, lo si dica subito, che passiamo ad altro. E lo dico senza ironia.

    a nevio:
    “uno spazio comune (sito, blog, non so) dove fare confluire analisi, impressioni, giudizi sugli aspetti che rendono l’Italia quella che è. Una sorta di “assemblea permanente” sui problemi della cultura in Italia,”

    Diciamo che il censimento critico s’inserisce perfettamente in questa proposta, solo che: è un lavoro più circoscritto e con un obiettivo più preciso. Partire da quello che si fa in prima persona, e valutarlo a confronto. L’assemblea permanente di analisi, teorizzazioni, opinioni, impressioni, è invece a me che non convince, per un semplice problema: lascia aperto un tale ventaglio d’interventi che poi il rischio è il dibattito “eterno”, e quando appare chiaro che il dibattito è eterno, l’assemblea cessa poi velocemente di diventare permanente, perché la gente taglia la corda.
    Ma ancora una volta tutto sta nell’articolare in termini più concreti e precisi la proposta.

  186. mi piace quest’iniziativa. ho sempre sostenuto l’esistenza della dittatura elettrica. quando avevo i blog era tutto un parlar male della dittatura. anche se io scioperassi non se ne accorgerebbe nessuno, non essendo né uno scrittore né uno script né un noologo (l’ideologo della noosfera)
    comunque condivido in pieno la lotta al dittatore elettrico.
    :)

  187. @ Gemma

    Nell’arco del presente dibattito, la mia proposta ha suscitato l’interesse soltanto di tre persone. Mi sembra che il dibattito abbia preso altre direzioni

    @ Tutti

    Sembriamo il governo Prodi. comincio ad avere l’impressione che ce lo meritiamo, il regime che ci sta cascando addosso. Sembriamo i polli di Renzo che si becchettavano tra di loro. Comincio a pensare che il vecchio Alessandro Manzoni avesse capito tutto, di questo paese.

  188. @bordini

    il tuo giudizio mi sembra un po’ troppo duro, e relativo a un sottoinsieme – il meno interessante – dei nostri interventi.

  189. riprendo, per vanitosa pigrizia, dal post di tanti giorni anni fa:

    “Allora meglio partire dai piccoli gesti, dai piccoli segni giusti.
    E avvicinare e collegare queste iniziative semi oscure, private, provate dalla fatica di provarci.
    Utilizzare la rete per mettere in rete – lo fanno anche in russia pensate (che è vasticella e le genti non sempre possono andare a mosca o pietroburgo per conoscere i poeti contemporanei) – in un luogo collettivo iniziative, produzioni, autoproduzioni, contributi, idee (senza esagerare).”

    mi pare che l’idea di inglese sia piuttosto simile.
    più per discutere che per procedere. o meglio per procedere nel confronto.
    ma prima o poi si procederà verso lo scontro?
    e per scontro si intende una struttura/rete in grado di provare a produrre nuove forme di. (distribuzione di. produzione di. ecc di.)
    pare che, parcellizzati, alcuni già lo facciano.
    l’unione non sempre fa la forza, ma cambiare la prospettiva che ci fa agire ciascuno per conto nostro, o con qualche amico sodale amante, per attaccarci all’ultimo residuo d’illusione postgiovanile che ci resta…
    non lo so.
    La nostra proposta di tanti giorni fa resta la stessa:
    creare una rete tra alcune (chi vorrà) delle esperienze locali per costituire una struttura alternativa e permanente di distribuzione e di scambio.
    Con una certa attenzione ad evitare gli inflitrati.

  190. Questi ultimi messaggi mi sembrano finalmente indicare una prospettiva più positiva di intervento.

    Forse sarebbe davvero il momento di tentare una descrizione il più possibile completa delle esperienze attuali per poter fare il punto.

    Solo cosi si potrebbe poi cominciare a ragionare ad una struttura modulare di autogestione capace di creare nuovi spazi e sostenere nuove iniziative profittando delle possibilità che oggi sono disponibili agli autori e che erano un semplice sogno solo qualche anno fa.

    Il discorso è emerso già svariate volte sulle pagine di Nazione Indiana cosi come in tante discussioni esterne, tra cui alcune discussioni avute qui a Parigi con Andrea (Inglese).

    Purtroppo finora alle discussioni non è mai seguita nessuna iniziativa concreta, e credo il momento cominci ad essere propizio per effettuare questo nuovo salto di qualità.

    * Conoscere le esperienze altrui.
    * Costruire un luogo in cui mettere in comune pensieri, produzioni e contributi.
    * Identificare le migliori modalità per costruire una rete alternativa modulare capace di ri-dinamizzare e aggiungere qualità al sistema culturale invece di sottrarvi le rare voci alternative.

  191. sparajuri
    “La nostra proposta di tanti giorni fa resta la stessa:
    creare una rete tra alcune (chi vorrà) delle esperienze locali per costituire una struttura alternativa e permanente di distribuzione e di scambio.”

    Questo sarebbe ovviamente un grosso obiettivo. Un proposta simile, e abbastanza ben articolata, l’aveva lanciata Piero Cademartori della casa editrice Zona intorno al 2001 2002. In quesgli stessi anni, prima dei blog letterari, venne fuori l’esperienza di Akusma, ossia l’idea di una rete di poeti, riviste, piccole case editrici.

    Della proposta di Cademartori non si fece niente, mentre il futuro di Akusma furono i blog poetici e letterari, con connessi vizi e virtù.

    Ora, secondo me la proposta di una struttura alternativa di distribuzione e scambio, merita una riflession ampia e preliminare. Mi spiego: distribuzione e scambio tra chi? Tra noi? Tra sempre gli stessi? Oppure una rete di distribuzione che raggiunga altre realtà, innanzitutto sul territorio. Ma quali e come? (Scuole, biblioteche, gallerie d’arte?) E questa distribuzione deve fare a meno di ogni sponda istituzionale?

    E poi: “Con una certa attenzione ad evitare gli inflitrati.” Piccola clausola, dalle grandi conseguenze. Chi decide chi sono gli infiltrati? Lo si decide a partire dal carattere individuale? Cosa vuol dire infiltrati?

    Il problema insomma non mi sembra solo unire le forze, cioè sommarle. Anche se ciò è importante. (Nel mio banchetto, ora oltre che ai libri della mia casa editrice alternativa metto anche quelli tuoi, ecc.)

    Bisognerebbe capire che cos’è una modalità alternativa di fare cultura, di portare in pubblico la poesia. E alternativo non è detto che significhi per forza “indipendente” dalle istituzioni. E’ per questo che posto l’obbiettivo sacrosanto di Sparajuri, a me sembra opportuno riflettere prima sulle specificità di ogni percorso, sulle divergenze di metodo e obiettivi. E sul capire anche altre cosa, di cui già si è accennato: quanto contano le differenze di poetica? Quanto ci allontanano o separano, nel momento in cui ci poniamo in un’ottica più politica e collettiva?

  192. Ok, ho finito di scrivere, e vedo che l’amico Simone Morgagni, in venti righe meno delle mie, dice meglio e dice bene.

    Partiamo davvero da lì: commento di SIMONE MORGAGNI delle 15:27. Anche perché tale proposta mi sembra davvero possa interessari i sostenitori dello Sciopero dell’autore come coloro che qui hanno espresso l’esigenza di modalità d’azione diverse.

  193. condivido la sintesi “programmatica” di morgagni.

    @ inglese
    uno scambio di certo non tra noi. quello già è presente, in numerosi casi l’unico disperato possibile.
    si spera che costituendo una struttura che raggiunga diversi punti del territtorio si possa, e presto, fare a meno di noi. che a scrutarci bene, nessuno è così bello/a da meritare l’incanto o produrre incantesimi.
    ovviamente come farla e quali punti e questioni affrontare è meglio averli ben presente, come tu hai sottolineato.

    @ inglese
    ovviamente in passato tentativi sono stati fatti. chi li ha studiati o conosciuti da vicino può provare a migliorarli dove ha verificato lacune. e magari i tempi sono ancora più cupi quindi un po’ più maturi? chissà.

    @ inglese
    chi ha esperienze di movimento, di “antagonismo” a qualunque livello, sa bene che la questione infiltrati non è una paranoia. inoltre – quasi in tema – essere aperti è fondamentale, ecumenici molto meno.

    ma sarebbe forse il caso (se già si è stabilito mi è sfuggito nell’oceano di commenti), di immaginare un luogo e una data possibile in cui incontrarci e verificare se esistano delle condizioni di partenza, oltre delle idee concrete, che dovrebbero comunque venire fuori anche da un confronto.

  194. Dice bene Marco Giovenale: poe.mi, un tentativo apprezzabile.

    Le iniziative, le produzioni esistono, credo solo che, ad un certo punto, prevalgano le rese dei conti, avvenga una interruzione nella “filiera”.
    Intendo: si perpetuano le cooptazioni per schieramenti, non c’è un reale interessamento della critica, dei facitori e gestori di spazi per esperienze altre.
    Me ne dà conferma lo sparatore Jurij qui sotto:

    “chi ha esperienze di movimento, di “antagonismo” a qualunque livello, sa bene che la questione infiltrati non è una paranoia. inoltre – quasi in tema – essere aperti è fondamentale, ecumenici molto meno.”

    E chi non ha esperienze di movimento, né di antagonismo e non sa? E ti chiedo: per dove passa l’agonismo, invece, l’agonismo non strumentalizzabile né tirato per la giacchetta?

    Devo credere che molta parte dei movimentisti si periti ben di sorvegliare la propria starnazzante aia e tema di essere ramazzata via, e che fa? Si conta fra antagonisti dell’ultima ora, i rivoluzionari della domenica.

  195. scusa arendo ma non hai capito un arendo.
    ti spiego meglio con un esempio.
    nelle fiere dedicate alla piccola editoria, molti editori grandi partecipano presentandosi attraverso sigle minori, improvvisate per l’occasione.
    evitare che all’interno di un progetto che si spera forte, ma libero e indipendente (da cosa e chi poi bisognerà discuterlo), si inseriscano quelli che hanno costruito e mantengono in piedi un sistema a cui ci si oppone mi pare necessario.
    se anche questo non ti convince o non lo intendi è lo stesso.
    noi spara tori della domenica della rivoluzione dell’antagonismo della confusione proviamo un senso di vittoria quando restiamo da soli, come tu saprai sicuramente.
    buona domenica anche a te.

  196. Bene, dopo che vi sarete accordati sulle premesse, per favore pensate ad un prodotto, uno solo, comune, chiaramente identificabile, spendibile, fruibile al pubblico non specialistico e da voi tutti smerciabile nei vostri territori e nelle vostre attivita’, magari come questo:

    http://www.bloodaxebooks.com/titlepage.asp?isbn=1852248009
    http://www.bloodaxebooks.com/articles.asp?id=36

    selezione antologica in libro dei 30 anni della casa editrice Bloodaxe (nord Inghilterra), comprensiva di 30 mini reading su 2 DVD professionalmente realizzati e della durata complessiva di 6 ore, il tutto venduto a 12 sterline o 8.40 se lo prendete in Amazon.co.uk in questi giorni.

    Certo, in UK c’e’ l’Arts Council che sponsorizza senza guardare al colore politico, ma per uno e un solo colpo non dovrebbe esservi difficile trovare i fondi anche nella derelitta Italia, visti i ritorni di prospettiva: un eccellente prodotto riutilizzabile per anni avra’ una coda lunga e costante. In bocca al lupo.

  197. Nel mio piccolo, aderisco e come posso (attraverso il mio blog, la posta elettronica) cerco di diffondere l’appello.
    In uno sciopero, di solito, ci si ferma; si fa di meno. Qui siamo costretti a muoverci, a fare di più. Ci si richiede uno scatto di fantasia: cercare nuovi spazi, nuovi modi.
    E’ già da un po’ che cerco di usare lo spazio dove lavoro per organizzarmi delle iniziative senza dover sottostare alla violenza dei piccoli poteri locali.
    La questione non è sottrarsi dove ci siano Borghezio e Alemanno, ma esserci in maniera più indipendente e, semmai, rifiutarsi di fare la loro foglia di fico.

  198. fabio moliterni

    Ok parlavi allora di identità ‘collettive’, rileggendo l’ultima parte del tuo intervento adesso mi è più chiaro e credo che ragioniamo in modo simile, un saluto. Marco

  199. Sparatore, grazie per il chiarimento.

    Tuttavia credo che già a monte il discorso scivoli. I vostri idoli (Nove, Scarpa, ecc.) sono all’interno di “majors”, fate opera di propaganda, mi pare, da soli non siete.

    Dunque viene l’ecumenismo: uno sparatore, Ade Zeno, ad es., scrive su “Liberazione” e “La poesia e lo spirito”. Più ecumenici di così!

    A parte il lazzo, poco sopra, il discorso era centrato su agonismo versus antagonismo.

    Saluti.

  200. arendo,
    il discorso sugli idoli o o su presunti altri giovanlismi, è del tutto fuoriluogo.
    uguaglianza adezeno=ecumenismo? sei proprio un poveraccio.
    del resto il tono (sparatore ecc.) è arrogante e stupido.
    ma se credi di conoscerci così bene, perché sai scrivere sparajurij su google, vieni pure a trovarci quando vuoi.
    il resto della discussione la facciamo davanti a uno specchio.

  201. Se mi permettete di tirare le fila, almeno fino a questo duecento e qualcosa commento:

    1) la proposta dello sciopero, indipendentemente dalle adesioni o meno che ha suscitato, ha posto un problema di ripensamento dell’essere autori nell’Italia di oggi, cercando vie di contestazione e protesta

    2) nella discussione su NI mi pare siano sopratutto intervenuti autori critici lettori vicino al mondo della poesia

    3) si è parlato dell’esigenza di un incontro, di un’assemblea, di un forum; ma non mi pare vi siano indicazioni chiare a proposito

    4) sparajuri ha rilanciato l’idea di una rete di distribuzione e produzione indipendente; andrea cortellessa aveva già ricordato nei suoi commenti tentativi e proposte del genere (bibliodiversità, sul Verri, ecc.)

    5) io faccio questa proposta: sono disposto ad aprire un dossier tematico su NI, per un “censimento critico”, ma che sia davvero critico; innanzitutto nel non dare nulla per scontato (tipo cosa sia “l’antagonismo” in materia di politica culturale); in qualche modo rileggendomi i vari interventi già si è iniziato in modo frastagliato a fare in parte questo cenismento critico;

    fornisco anche un’ulteriore esempio: Broggi e Bortolotti che hanno organizzato un progetto molto bello (di censimento) di blog in poe.mi a Milano si sono trovati di fronte all’ostruzionismo o disinteresse del luogo “antagonista” che doveva ospitarli, alias “punto rosso”. Ora questa sarebbe un’esperienza sui cui riflettere e confrontarsi, e come questa tante altre simili.

    E che dire dell’editoria di poesia a pagamento? Fin dove accettarla? O rifiutarla integralmente? E il rappotro tra blog e territorio? ecc. ecc.

  202. Chi fosse dunque interessato al CENSIMENTO CRITICO, di tutti gli autori-operatori culturali-editori indipendenti-organizzatori di eventi-di aterlier-ecc. che lavorano sul TERRITORIO, dentro o fuori le istituzioni, può scrivermi a:

    andrea.inglese@yahoo.it

  203. Dovreste scioperare perché vi danno il 7 per cento sulle vostre opere. questo è un buon motivo per scioperare, perché siete taglieggiati da case editrici e distributori. scioperare per il diritto di veder riconosciuto il vostro lavoro, invece di leggittimare la mafia che c’è dietro. questo innescherebbe anche un ragionamento sulla riorganizzazione della filiera, vi obbligherebbe a creare reti alternative e indipendenti come le desiderate, per la stampa e la distribuzione. perchè sareste costretti. finchè ci siete tutti dentro stai fresco a urlare al lupo al lupo. lo scioperò così come l’avete impostato lo trovo abbastanza effimero. scioperate da voi stessi, cominciando a chiedere quello che vi spetta, e non ad adattarvi al sistema che avete trovato bello e pronto. scioperare dagli eventi creati dalla destra è un’idiozia, uno perché non c’è differenza fra destra e sinistra, due perché sono comunque briciole che vi ripigliate indietro per tutti quelli che vi rubano su ogni libro che pubblicate. quando si riesce ad organizzare un evento in ogni caso si è dei robin hood, sia che chiamiate dei vostri amici che autori che stimate. e se fregate i comuni di destra è anche meglio. il contenitore poi lo decidete voi.

  204. non volendo affollare di tag (e km di cartiglio) la discussione qui, posto su slowforward.wordpress.com tra qualche ora alcune mie riflessioni e risposte.

    (sapendo inoltre di non poter seguire in settimana il dialogo in rete, rinvio repliche a repliche ai giorni che seguono).

  205. ho aderito allo sciopero anche io. a tutti quelli che non la pensano così, una volta dedicai questo:

    giovedì, 25 settembre 2008

    nausea V

    quello che vuole la destra fascista e modaiola. questo gli state donando. quello che chiede il sistema neodittatoriale. questo state rispondendo. nella chiarezza senza equivoci e senza complessità alcuna. scritture collaborative in rete stanno invischiando i vostri figli nel più tetro dei totalitarismi: quello che si impossessa delle vostre menti, mentre connesse credono di respirare libertà.
    siete complici di questo subliminale massacro etico e culturale. vi stanno
    abituando a pensare che andrà tutto bene e intanto è tutto vuoto. la vostra sicurezza democratica è solo un ologramma.

    grazie!

  206. cioè, fammi capire Gianluca, tutti quelli che si sono espressi qui non condividendo lo sciopero sono “complici”? che bel modo di aggregare e di stare sulla discussione! credo che, a fronte di una chiusura così netta, non parteciperò mai a questo sciopero virtuale …

  207. La mia coscienza intellettuale mi induce a fuoriuscire dall’iniziativa dello “Sciopero dell’autore”.
    Non c’è alcun intento polemico con gli altri firmatari dell’iniziativa. I quali conoscono, già da molti giorni, il mio pensiero. Questa iniziativa, per come l’ho intesa io, voleva avere il valore di uno strappo, di una scossa elettrica. Una provocazione, dal valore coscientemente paradossale, nata da un istinto morale, e dunque necessariamente sprovvista di ragionamento. Questa caratteristica, che su un raggio breve di tempo ne può essere la virtù, da un certo punto in poi ne costituisce il limite. Marcata la possibilità, oggi, di una dissidenza anche radicale, persino settaria (e insomma la possibilità estrema di non fare mediazioni sempre, come invece ogni prassi sociale ci insegna), finisce il ruolo dell’iniziativa così come è nata. La formula dello “sciopero”, volutamente schematica come è (perché, ribadisco, nata da un irriflesso e condiviso istinto etico), è a mio giudizio troppo angusta per contenere dibattiti, o altre iniziative congeneri, e persino per dare sostanza a una disseminazione del gesto così inteso. A me premeva più gridare un principio, una necessità di dissidenza. Un punto-limite etico, finalmente. Tutta la disseminazione che poteva avvenire, intorno a un concetto sanamente estremo, e dunque dal respiro teorico (volutamente!) breve, è, a mio giudizio, già avvenuta. Da questo punto in poi deve accadere altro: un’analisi, una riflessione di ampio respiro, un ragionamento, meglio se a più voci. Ma insomma: altro, che la formula dello “sciopero” non basta a contenere.
    Ribadisco che non c’è alcuna polemica con gli altri firmatari. C’è un punto di vista diverso; e non più. A conferma che la nostra iniziativa è tutt’altro che dogmatica, nata com’è, semplicemente, dalla sintonia istintiva su un principio. A loro auguro buon lavoro; io, per conto mio, mi ritiro in buon ordine.

  208. quello che ho scritto è del 25 settembre. come può essere dedicata a quelli presenti qui? uno è libero di non scioperare, ci mancherebbe, come è libero di suicidarsi e farsi una pera. ma non può limitare la libertà altrui. a chi limita l’altrui libertà è dedicato il mio commento :)

  209. il gesto di luigi severi mi ha fatto sentire in colpa. come se la mia presenza e il mio commento avessero rotto qualcosa. non so. mi è sembrato di rivivere una scena, quando avevo sette anni: io ero tranquillo a fare i miei compitini, mio padre entra in camera e mi urla: se muore la mamma, è colpa tua. spero che il gesto di luigi severi non sia stato causato dal mio commento.

  210. La scuola media ‘Zappa’ di Bologna ha aderito all’iniziativa di non fare gite scolastiche quest’anno, come forma di protesta contro i tagli del governo alla scuola e alla cultura in genere. Per noi insegnanti è stata una scelta difficile e sofferta (dal fuori pare che a rimetterci saranno solo gli studenti, ma noi crediamo non sia così. Bloccando le gite speriamo di dare anche un piccolo colpo al settore dell’economia che se occupa, e ottenere così un minimo di visibilità.) Noi insegnanti non siamo ‘autori’ però vorrei rendere pubblica questa iniziativa, e se c’è qualche insegnante che legge e è interessato, è ancora in tempo a parlare di questa forma di protesta nei prossimi consigli di classe o nei collegi docenti.

  211. da
    qui:

    Intervengo con alcune annotazioni che vogliono disordinatamente (come mi è possibile) replicare a vari commenti comparsi negli scorsi giorni a proposito dello Sciopero dell’autore. I commenti a cui di volta in volta rispondo sono dati in corsivo grassetto piccolo, con link di riferimento a lato).

    *

    (1)

    Esordisco con una ulteriore notilla (dopo questa) sul tacere. E sul fare.

    Da diversi anni organizzo, da solo o con altri, molte serie di letture e iniziative e più in generale prassi decisamente opposte a qualsiasi idea debole di silenzio. (“Da anni si va in questa direzione”, dicevo nel primo intervento Sul tacere).

    Bon. Ci sono state e ci saranno sedi in cui non trovo sintonia, e altre da cui la distanza politica deve essere (per quanto mi riguarda) marcata. Questo non significa tacere, è semmai il contrario. Perché, ovviamente, le stesse cose che uno faceva in X e Z poi le sposta in Y e Z.

    E pace.

    Se a contare è la qualità dei testi o delle cose pensate e promosse, la situazione — è un augurio — migliora, selezionando.

    Se non migliora, si condanna da sé. Se viene ignorata perché gli amici o sodali che si avevano in X spariscono col trasferimento in Y, verrà ignorata dai frequentatori nel luogo X, non da quelli nel luogo Y.

    Se l’eco che aveva X è maggiore dell’eco che avrà Y (cosa da dimostrare), ciò potrà essere più o meno puerilmente chiamato: “prezzo da pagare”. Très bien.

    *

    (2)

    Quando leggo (o sento) che “la destra è cattiva ma anche la sinistra eh, perbacco” (ecc.) rispondo che è giusto e che io arrivo colpevolmente in ritardo con le critiche. Ma una critica a sx, una critica a dx, e/o una critica a sx e a dx insieme, penso non possano convivere con accondiscendenze e concessioni agli oggetti delle critiche medesime. Se critico tizio, do una conseguenza alla parola anche fuori dalla parola.

    *

    (3)

    non tirarsi mai indietro, non auto-ghettizzarsi nei centri sociali e nelle case della poesia, dove quasi sempre si finisce col farsi le seghe a vicenda (link)

    Invece nei dibattiti televisivi, nei maxieventi col maxischermo, alla radio e sulle belle tribune, non ci si fa mai le seghe a vicenda. È cosa nota. Claro.

    *

    (4)

    che differenza vuole che faccia per il pubblico dei fedeli andare a palazzina liberty, museo Nitsch, casa delle lett, mediateca san lazzaro, centro sociale, aula occupata, ex orso pippo…? / ma per gli autori sì: il gravio spese viaggio vitto alloggio, non moltiplicherà certo le presenze. (link )

    È proprio per rendere sensata/sensibile questa differenza che uno pensa di non solo “scioperare”, ma semmai cambiare una prassi propria. Agire diversamente dal passato, dove e come (e quando) si può. Operare secondo un segno diverso.

    Rientrando in ciò un versante economico, si spiegheranno (umanamente) i limiti che ne derivano, se e quando ne derivano. (Come si loderanno i superamenti autogestiti di quei limiti, quando si riuscirà a metterli in atto).

    *

    (5)

    Al totalitarismo non mi pare si possa rispondere scioperando bensì, semmai, prendendo il primo aereo per Parigi senza tornare indietro (link)

    Ci possono essere azioni frontali da mettere in pratica “prima” di “dover” prendere l’aereo. (E per scongiurare, appunto, la necessità del volo).
    *

    (6)

    Luigi Cinque direttore artistico di Romapoesia vi ha elencato con ordine la quantità di inesattezze, relative alla manifestazione ora in corso e che non gode della vostra partecipazione (link )

    Alla mail collettiva ho risposto con mail collettiva (26 novembre). Non ho niente in contrario nel renderla pubblica, quando e se i co-destinatari tutti mi danno l’ok scritto. Mi sembra chiarissima. Replica punto per punto.

    *

    (7)

    possibilità concrete di una cultura d’alternativa in questo disgraziato paese. Faccio sommessamente notare che l’iniziativa in tal senso della rivista il verri che dedicò esattamente un anno fa il suo numero 35 alla questione della Bibliodiversità cadde in un tonante silenzio mediatico (con l’eccezione del quotidiano della Confindustria, che prevedibilmente ci tacciò di “ideologia”). Aggiungo francamente che, al contrario, mi sarei atteso un qualche appoggio, dalla parte ora fieramente protestataria. (link )

    Quante presentazioni (2, mi si dice: ma:) quanta pubblicità e segnalazioni e mail circolari sono state fatte da parte dei redattori autori collaboratori a questo numero della rivista? Io non ne ho ricevute. Ho però ricevuto il numero della rivista, che ho ovviamente segnalato qui (segnalare, quando non si può intervenire, è il minimo; ma non è nulla).

    Sulle “possibilità concrete di una cultura d’alternativa” sono appunto circa 20 anni che mi spendo. La dépense citabile stranota. Non aspettandomi rientri (eppure avendone), non vedo cosa aggiungere. Se non continuare per altri tot anni, in rete (e senza rete). Chi vuole vedere e leggere, vede e legge. Gli altri no. Così va.

    *

    (8)

    valutare, secondo la propria coscienza politica e civile, quando è il caso di partecipare ad un evento e quando invece non lo è, è una cosa che ho sempre fatto. se romapoesia la apre un comizio di borghezio, non ci vado in nessun caso, se l’assessore di an mette i soldi (pochi, cosiccome quello del pd), non fa comizi, e lascia piena autonomia agli organizzatori, io ci vado, perchè la ritengo comunque una cosa importante, poi la casistica potrebbe continuare, insomma si sceglie secondo coscienza, l’ho sempre fatto (link)
    L’iniziativa dello Sciopero vuole precisamente dire che — stante la “scelta secondo coscienza” (da rispettare) — c’è modo di aggiungere (significativamente) alle opzioni di opposizione anche un rifiuto del segno o contesto che (indipendentemente da chi vi agisce) riconnota o può riconnotare il testo e i suoi attori per il semplice fatto di ospitarli.

    *

    (9)

    … l’iniziativa contro Romapoesia … (link )

    Quella dello Sciopero non è stata un’iniziativa “contro” RomaPoesia. È nata dal contesto di un rifiuto individuale (di persone separate che nemmeno si erano consultate in questo) e si è — in un tempo lungo — articolata come lettera di più ampio e differente respiro. (Offresi cronologia a richiesta). (E a pagamento, visto che comporterebbe ore di lavoro al pc per districarsi tra mail e sms).

    Volendo tenere insieme persone diverse e con atteggiamenti diversi e legami diversi, ha assunto una prima forma o bozza collettiva (questa), che poi è stata meglio precisata con il comunicato ora pubblicato.
    *

    (10)

    non diminuite il mondo, aumentatelo. (link )
    Ri-cito il lavoro di questi anni? Per poi sentirmi dire che non sta bene dire “ho fatto questo ho fatto quello”? Se ho fatto, sbaglio a dirlo. Se non lo dico, sbaglio perché “evidentemente” non ho fatto nulla. (Eh, non dice = non ha agito). Eccetera.

    *

    (11)

    è uno sciopero di un gruppo di persone, di poeti, che amano “stare tra di loro”. (link)

    No comment.

    *

    (12)

    Stare bene con la coscienza, starci sempre meglio, starci fra quattro guanciali: questo atteggiamento si chiamava, una volta, da anime belle (link)

    Ergo, l’alternativa sarebbe: O stare male con la propria coscienza (fare porcate? quante?) O starci bene però così chiudendosi nei guanciali? Curiosa histoire d’O.

    E interessante aut-autismo (link).

    Come dire che esistono solo due entità: il coerente che si tarpa e s’imbottiglia le palle, O lo zozzo infingardo che esce vittorioso dal guanciale. (Amatriciana modificata? Ai posteri).

    *

    (13)

    Se dobbiamo operare sul piano simbolico-mediale […] dobbiamo farlo dove i nostri simboli possano essere inquadrati dai media (da qualche media almeno). (link)
    Ognuno sceglie quali.

    *

    (14)

    Apprezzo moltissimo il lavoro della Camera verde, ma non è un termine di paragone: né per il Palazzo dei congressi dell’Eur né, con tutti i suoi limiti, per la Casa delle Letterature. Non penso esattamente che il mezzo sia il messaggio, ma certo il mezzo è parte integrante del messaggio. Se protesti chiuso nella cabina del telefono è un discorso, se lo fai su Radio Tre Rai un altro. (link )

    Giusto: «non è un termine di paragone». Ci sono state letture in Camera verde con masse e genti fuori della porta e letture alla CdL con 4 gatti. Ma: decisamente: i luoghi nominati sono grandezze (matematiche) incomparabili.

    *

    (15)

    (Per quanto riguarda la partecipazione a Bibliodiversità: ti assicuro che avrei partecipato molto volentieri a tutto, se ne avessi saputo qualcosa!) (link)

    Idem io.

    *

    (16)

    Sì il silenzio, bene, ma anche urlare (link)

    Leggo questo come 150° commento del thread. Si parla ancora di silenzio. Ancora. Incredibile. Osservo un minuto di silenzio. Merita.

    *

    (17)

    fare gruppo (link)

    Invito / invece: sgruppiamoci. Ognuno prenda l’idea dello Sciopero e pensi — con questo microfiltro — di osservare le cose a cui andrà incontro in futuro. A ognuno le sue scelte.

    *

    (18)

    Però fin d’ora richiamerei a studiare i situazionisti (link)

    Concordo.

    *

    (19)

    solitudine dequalificata (link)

    Imminente. Me la sento già. Come si sente la febbre. (Parlo della mia attività lavorativa). (OT, dunque chiudo).

    (Nota di teatro:)

    (Il lavoro, l’identità, la “persona che parla” sono sempre OT. Si dice IT solo la posizione sulla carta, la geometria del profilo pubblico comunicato, proiezione del non-osceno, ossia del non strutturale, sullo schermo condiviso, che è di volta in volta bianco. E che ridiventa bianco all’uscita degli avatar dei dialoganti dalla scena).

    *

    (20)

    vedi chi collabora serenamente a Libero o al Domenicale di Dell’Utri (Permalink)

    Questo mi incuriosisce molto. Vivo veramente fuori dal mondo, mi rendo conto, a volte. Chi collabora “serenamente” a queste due lodevoli tribune di libertà?

  212. dal commento precedente è saltato il grassetto (che –sbagliando– inserivo in una forma di tag di wordpress non accolta dai form di commento) ma rimane comunque il corsivo.

    il corsivo indica i passi a cui rispondo. in tondo, appunto, le mie risposte.

  213. MITICO prof. Severi!!!!!!!!!!
    sono orgogliosa di essere stata sua alunna e di aver avuto il piacere di assistere alle sue magnifiche lezioni che mi hanno trasmesso l’amore per la letteratura italiana.
    Che bel mondo aveva ideato Platone…ora certo non avremmo di questi problemi…

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ha pubblicato uno studio di teoria del romanzo L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo (2003) e la raccolta di saggi La confusione è ancella della menzogna per l’editore digitale Quintadicopertina (2012). Ha scritto saggi di teoria e critica letteraria, due libri di prose per La Camera Verde (Prati / Pelouses, 2007 e Quando Kubrick inventò la fantascienza, 2011) e sette libri di poesia, l’ultimo dei quali, Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, è apparso in edizione italiana (Italic Pequod, 2013), francese (NOUS, 2013) e inglese (Patrician Press, 2017). Nel 2016, ha pubblicato per Ponte alle Grazie il suo primo romanzo, Parigi è un desiderio (Premio Bridge 2017). Nella collana “Autoriale”, curata da Biagio Cepollaro, è uscita Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016 (Dot.Com Press, 2017). Ha curato l’antologia del poeta francese Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008 (Metauro, 2009). È uno dei membri fondatori del blog letterario Nazione Indiana. È nel comitato di redazione di alfabeta2. È il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.