Varianti e altri realismi
[Si pubblica l’intervento di S. Gallerani alla tavola rotonda tenutasi alla Casa delle Letterature. Partita dalle punte di questi articoli di Cortellessa, la discussione è proseguita nei contributi di Donnarumma, Policastro, Inglese, Milani, Rizzante, Morelli, Casadei e Giovenale. dp]
di Stefano Gallerani
Cari tutti,
sono davvero spiacente di non poter partecipare con voi all’incontro odierno perché “confinato” in quel di Bassano del Grappa (dal che spero almeno di trarre un poco di spirito). Di conseguenza, nella mia posizione – e non amando stendere programmi – mi è difficile affrontare il tema della tavola rotonda senza il conforto del contraddittorio – indispensabile perché in simili occasioni si tenti almeno di quadrare la tavola se non il problema. Un rapido sguardo alla composizione della nostra squadra (virtualmente siamo in undici, credo) e un po’ di attenzione per la recente cronaca letteraria dovrebbero indurmi a mettere su carta alcune riflessioni sulla questione che si dibatte (o su come è stata preceduta e si è sviluppata da “Allegoria” a “Nazione Indiana” passando per lo speciale dello “Specchio+” curato da Andrea Cortellessa). A questo proposito, convinto come sono che la naturale (cioè umana) evoluzione della specie abbia portato dalla scimmia eretta a quella psicanalitica, non posso che rallegrarmi della radicata presenza, oggi, già nel ricorso a una precisa terminologia, del pensiero di Jacques Lacan (che si meriterebbe questa considerazione, o piuttosto questa centralità, anche senza la pur utile mediazione del critico d’arte Hal Foster; basta leggere il seminario sul Transfert pubblicato recentemente da Einaudi per non avere dubbi in tal senso). Mi sembra, infatti, che quello del Ritorno del Reale (come recita l’intestazione del libro di Foster che reca nel sottotitolo il termine avanguardia: ovvero il convitato di pietra di questo incontro), sia uno degli snodi migliori per scongiurare che il problema che ci siamo sottoposti non si traduca altro che in una tappa obbligata del discorso letterario, ora come allora (simile a certe malattie che si debbono per forza fare, insomma). In questa direzione porta anche l’invito celatiano all’Impensato, contemporanea declinazione dell’Impossibile di Bataille, senza il quale resterebbe pressoché oscuro il Reale lacaniano. Quanto alla genealogia della frizione tra due sinonimi, Scrittura e Realtà, i precedenti più o meno illustri in argomento non si contano. Ognuno si faccia il po’ di storia che è in grado; per quanto mi riguarda, va benissimo pure che si rimandi al secondo capitolo di Realismo e Avanguardia (1975), di Walter Siti (un autore spesso citato in proposito, ma mai riprendendo, per smontarle o sostenerle, le sue tesi di allora). Altri snodi cruciali e più urgenti, connessi e, in certo modo, convergenti – sebbene più ambigui nella formulazione – riguardano l’appello alla responsabilità dello Stile e il rapporto che con il Reale intrattiene l’esperienza – che del primo è la perfetta negazione e il suo riflesso sensibile. In proposito, l’asserita, da Antonio Scurati, fine dell’esperienza può essere confutata, certo, ma non con argomentazioni superficialmente logiche che trascurano – o fingono di trascurare – la convenzione di senso dell’espressione da lui usata; né credo che i precipitati formali dello scontro tra Coscienza Individuale e, appunto, Esperienza del Mondo, possano essere interdetti da motti vieti sugli “orticelli letterari” alla cui coltivazione attenderebbero taluni critici o sull’ombelico che talaltri scrittori non farebbero che guardarsi (se non mancassero i tinelli puzzolenti il catalogo degli orrori sarebbe completo). La questione può non interessare, ma se si decide di affrontarla merita toni più appropriati. Potrebbero essere questi, di Giacomo Debenedetti: «quando si dice “fare il romanzo” c’è una parola che risponde subito, come si toccasse un tasto elettrico, ed è la parola esperienza. Su quale esperienza si farà il romanzo? Nei prodotti di una vera vocazione narrativa, nelle epoche e nelle civiltà intimamente chiamate al “genere” romanzo, si ha sempre l’impressione che l’esperienza sia stata suggerita dal di fuori: dalla società, dagli uomini che la formano, dalle vicende che logicamente ne nascono. Invece, l’impegno astratto di fare il romanzo, il penso dello scrittore, si accusano subito nel timbro soggettivo, privato, personale dell’esperienza presa come base. Su questa l’autore costruisce a pezzo a pezzo un mondo esterno, che prima d’allora per lui non esisteva. Nei casi migliori, fatti e figure si organizzano come trascrizioni, cifre, simboli, allegorie di quell’esperienza». In termini attuali, il Reale non è un tema se non nella misura esatta in cui ha lo statuto di un resto – dice più o meno Bataille -, anche in senso matematico; e l’esperienza è questo resto in relazione al quale si definisce la possibilità romanzesca. Soprattutto, mi auguro che finalmente si affronterà il problema posto da Cortellessa: cosa accade allorché «uno scrittore torna, e ci proietta l’horror movie del suo safari nel Reale. Ci lascia indifferenti, ci trasforma in voyeur, ci fa invidia? È moralistico? È pornografico? È le due cose insieme? Oppure è davvero conoscitivo?» A queste domande mi piacerebbe rispondere con Novalis: «per il linguaggio è come per le matematiche: esse non esprimono nulla se non la loro meravigliosa natura, e perciò esse esprimono così bene gli strani rapporti fra le cose». In più, mi sento di ribattere offrendovi due parole strettamente connesse con la Realtà, due parole che la connotano, ossia Tempo e Memoria: i numi tutelari attraverso cui la Realtà entra in quel meccanismo complesso che, volenti o nolenti (vi spero tutti disarmati), si chiama Cultura. Ebbene, io ritengo che l’attuale ritorno al reale (e non del reale) sia connotato dalla parziale indifferenza di cui godono questi due termini, il che porta poi al fraintendimento delle cosiddette scritture private o introspettive e al loro sacrificio rispetto a quelle contingenti; quelle, si dice, di “ampio respiro”, che non rinunciano a misurarsi con il mondo che le circonda (come se noi stessi non comprendessimo anche quel mondo o ne fossimo solo un residuo inconsistente). Il romanzo naturalista, che di questi tempi si veste ora da reportage ora con i costumi di forme espressive ibride che fanno esplicito riferimento alla persona dell’autore come testimone, sostituisce all’ostensione del Reale il falso sembiante della Realtà. Ed invece, se di Ritorno del Reale si deve parlare, mi sembrano imprescindibili (basti pensare che tutta la psicoanalisi ruota intorno a loro) le contorsioni conoscitive che scaturiscono dalle tensioni tra Tempo e Memoria. Insomma, se il romanzo dimentica che il Reale è l’Impossibile o, per Celati, l’impensato, subentra la piega “mimetica”, supponendo che esista uno stato obiettivo del mondo (una realtà) che sarà sufficiente riportare (sebbene interpretandola, filtrandola o deformandola) mentre il Reale è esattamente ciò che la rappresentazione, il linguaggio, la finzione non accostano che per svelare la linea di una mancanza, l’assenza di quanto li suscita ma di cui non possono rendere conto. È la contraddizione dell’arte, l’oggetto del patto letterario, ma è ormai chiaro che l’indefinibile non è quanto induce al silenzio quanto, piuttosto, ciò che ci costringe al lavoro incessante, infaticabile del pensiero. A questo punto, cercherò davvero di essere breve – come pretestuosamente annuncia qualsiasi oratore, dal momento che solo un certo Pipino ha accettato l’aggettivo come nome – congedandomi con un’espressione mutuata da alcune pagine di Jouhandeau alle quali Lacan avrebbe fatto sicuramente seguire un interminabile seminario. Per le ovvie differenze io non potrò altrettanto e spero mi perdoniate quel po’ di retorica che nasce da questa mia frustrazione bassanese. Comunque sia le espressioni, in verità due, sono queste: l’esperienza è il nostro tentativo di negoziare tra il primitivo desiderio e la realtà; questa l’acrobazia più temeraria: risalire il corso dell’apparenza – cioè della realtà – per volgersi al reale.
Ma esiste un ritorno al reale, al di là delle ipotesi e delle possibilità di lettura, nella narrativa italiana contemporanea? Se il reale è il vero (o meglio, in letteratura, il verosimile), la realtà non è forse la sua verità? L’impressione che ho avuto leggendo l’intervento, e rafforzata dai righi finali, è che la realtà sia un ente inattingibile (l’Impossibile), o ancor meglio apparente, e che lo scrittore debba andare al di là (attraversarlo) per incontrare il reale. Ma, come osserva suo modo Debenedetti, si tratta del reale “esterno”, del luogo dove lo scrittore esperisce la propria quotidianeità. Invece il reale “interno” sarebbe la sensibilità, il sentire, il “penso” dello scrittore. La distinzione non mi convince, forse perché non vedo distinzione, ma processualità chimica, con diverse sostanze che entrano in contatto e reagiscono con precipitati, sospensioni e soluzioni: la scrittura, il suo detto (che ha sempre un resto, ossia un non detto, ossia l’inesauribilità del reale a cui un’altra scrittura attingerà). Poi, tanto per finire di mettere carne al fuoco, mi sembra che la grande assente – a livello esplicitato – sia la storia, fatta entrare nel discorso non dalla porta principale, ma da quella secondaria del “tempo” e della “memoria” (dello scrittore, mi pare, non del “socius”)
Io non ho alcuna capacità, né preparazione per affrontare in modo sistematico un tema così sconfinato come la “realtà”.
D’altra parte, se anche mi fosse possibile, sarei piuttosto convinto di aver affrontato un problema accademico e non certo di aver affrontato una qualche “realtà”. Come è chiaro che avviene o che è avvenuto in tutte queste discussioni.
La mia convinzione è infatti questa: tutti coloro – ma proprio tutti, sin dall’inizio dei tempi – che hanno preteso di aver detto qualcosa sulla “realtà” o della “realtà”, sono dei fanfaroni che sono riusciti a convincere altri solo perchè, su questo tema, hanno saputo legare i propri pensieri e le proprie parole in modo coerente e sistematico. Coprendo, con questo,
il carattere sempre letterario di ogni cosa detta. Quello che è sempre un racconto di “verità” non garantito da nulla.
La “realtà” di un sistema scientifico, la “realtà” di un sistema filosofico, la “realtà” di un romanzo è sempre la stessa “impossibilità”.
E l’accettazione o meno del discorso scientifico, filosofico o letterario dipende essenzialmente dallo “stile”.
Dagli “stili” che imperano nei singoli campi.
Non penso che la “forma di vita” che in Wittgenstein è strettamente legata al linguaggio, sia poi così lontana da questa nozione di “stile”.
Come poi avvenga “il gioco” è un tema affascinante, se nessuno ha
la pretesa di ridurlo ad uno solo. I giochi sono innumerevoli e tutti in qualche modo si assomigliano.
Una delle conduttrici di questo dibattito, mal riuscendo a contenere la discussione nei termini da lei immaginati, mi accusò di andare a parare in Kant. Bene, dico che non solo a Kant bisogna risalire, ma addirittura alla teologia.
In questo senso.
In questa discussione: ci sono monoteisti fondamentalisti e ci sono politeisti relativisti e ci sono atei anarchici. Ognuno di loro ha un’idea di letteratura, ha un’idea di realtà e qualcuno, poi, non ha, perché sa che non se può avere, idea né dell’una né dell’altra: perciò ci gioca.
Quindi non posso fare altro che condividere pienamente ciò che dice Stefano Gallerani:
“È la contraddizione dell’arte, l’oggetto del patto letterario, ma è ormai chiaro che l’indefinibile non è quanto induce al silenzio quanto, piuttosto, ciò che ci costringe al lavoro incessante, infaticabile del pensiero.”
Finalmente leggo qualcosa che abbia un senso. E me ne rallegro. Grazie.
Mi riferivo a Stefano Gallerani. Soldato Blu lo salto a priori.