Autismi 2 – Mio suocero (2a parte)
Tra un lavaggio di piatti e l’altro tornavo da quello che era stato per quattro giorni mio suocero. Quel mio suocero che non avevo frequentato da vivo, e che adesso aveva pensato bene di morire. Che era morto e faceva il morto rispettabile tra quella gente preoccupata di mostrarsi rispettabile. Gruppetti di parenti e di conoscenti stavano un tempo più o meno lungo in silenzio al suo capezzale, tenendo gli occhi compostamente rivolti verso il pavimento, o anche bisbigliando qualche frase compita ai loro vicini, come si parla in presenza dei morti. Poi uscivano sospirando dalla stanza, e affrontavano l’altra faccia del lutto, quella sociale. Nei loro occhi ricompariva il compiacimento di star facendo la cosa giusta al momento giusto. E erano sostituiti al capezzale da altri contegnosi gruppetti. Era una veglia funebre che non finiva mai.
Io non ero mai stato così a lungo a contatto con un cadavere. Di solito accanto a un defunto ci si lascia andare ai ricordi, si ripercorre il passato comune, si cerca di venire a patti con il proprio dolore. Ma quel morto lì per me era uno sconosciuto, non suscitava in me del dolore. La mia era pietà, pietà per lui e per quella che adesso mia moglie, e per la madre ridotta a una fragile ombra di sofferenza, non un vero dolore. Lo guardavo, e non riuscivo a capirlo.
L’unica nota stonata era il grande amico, il quale non cercava di dare la minima compostezza al proprio dolore. Era elegante, ma il portamento era quello sgangherato di una persona nello stesso tempo avvilita e esasperata. Da come squadrava i presenti era chiaro che conosceva i suoi polli. Vedeva come ostentavano una tristezza che non provavano, che erano ben contenti che non fosse toccata a loro. Il suo non era nemmeno disprezzo, somigliava più a un divertito e macabro stupore. Non parlava, non aveva nessuno con cui parlare. Solo al suo amico avrebbe potuto comunicare i commenti che gli passavano per la testa. Ma il suo collega terrorista adesso era morto. Stando lì gli esprimeva la sua fedeltà senza condizioni. Dalle due condanne a morte erano passati molti anni, ma il legame era restato intatto. Cominciavo a apprezzarlo.
Non parlava con nessuno, ma stava lì. Le ore passavano, ed era sempre lì. Era una persona con importanti responsabilità a livello nazionale, e quotidiani appuntamenti ai massimi livelli della gerarchia dello stato, a quanto mi aveva detto mia moglie, ma stava lì a esprimere il suo disgusto per la vita che s’era mostrata così infida, a ribadire la sua amicizia. Era chiaro che non era d’accordo con quello che era successo, non era d’accordo che il suo amico fosse morto. Più che triste sembrava scornato, deluso. Come un tennista che nello shock della sconfitta si domanda come ha fatto a perdere nonostante si sia battuto così bene. Era abituato a vincere, non a perdere.
Quando ne avevo abbastanza tornavo in cucina. Ero contento che mentre sgominavo una catasta di stoviglie se ne formasse immancabilmente un’altra: così potevo ricominciare. Potevo restare nel mio nido, dove i cognati pesi massimi non mettevano piede. Vuotavo completamente la metà del lavello dove avevo messo il detersivo, e prima di ririempirla la sciacquavo per bene, perché io in fatto di lavatura di piatti sono sempre stato molto esigente. E anche l’altra parte, quella che usavo per sciacquare, la rinfrescavo per bene. Poi ricominciavo.
Proprio di fronte alla mia testa c’era una finestra: mentre mi davo da fare potevo osservare la strada che portava alla chiesa del villaggio, la chiesa stessa, bassa e quieta, e al di là di questa una scarruffata foresta di pini marittimi che si arrampicava su una rinascimentale ma pur sempre atletica collina. Dall’altra parte dell’appartamento c’era quella caricatura del lutto, e il rumore del traffico incessante della strada costiera. Lì invece non c’era traffico, non si vedeva nessun centro commerciale. La parte vecchia del paese sembrava una riserva naturale che avesse resistito all’assedio balneare e mercantile che faceva pressione dall’altra.
Finito un lavaggio mi asciugavo le mani con lo straccio, e andavo di nuovo dal mio ex-nuovo suocero, badando di non imbattermi nel mio nuovo temibile cognato. Era impossibile non fare un legame tra il nostro matrimonio e la sua morte, mi dicevo, osservandolo nel suo ruolo di morto dignitoso e rispettabile circondato da conoscenti dignitosi e rispettabili. Tra i due avvenimenti c’erano troppi pochi giorni, per poterli separare nella propria testa. Dopo il matrimonio erano tornati a casa, e lui era morto. L’ultima cosa importante che aveva fatto era venire al matrimonio della figlia minore. Il vago malessere che si sentiva nei muscoli e nelle ossa al suo rientro, che lui aveva preso per stanchezza, era in realtà la prossimità della morte. Mentre noi languivamo nell’inedia lui si era trovato a avere a che fare con la morte, senza sapere che si trattava della morte. O forse se ne era reso conto, vallo a sapere. In ogni modo prima del fine settimana era schiattato. La mattina la moglie era andato a svegliarlo, perché contrariamente al solito non si era ancora alzato. E poi lo aveva svegliato ancora, visto che non si decideva a alzarsi. In realtà era morto durante la notte.
Il collega terrorista di mio suocero continuava i suoi inquietanti avanti e indietro. Non parlava con le altre persone, le guardava anzi con malcelata avversione. Sembrava pensare che avrebbero fatto bene a morire loro, invece del suo amico di sempre. Ce l’aveva con la morte, e con le altre persone che erano lì e che non erano morte. Quelle persone che facevano mostra di un dolore e di una pietà che erano genuine solo fino a un certo punto. Le trafiggeva con il suo sguardo cinico di alto dirigente: era evidente che stentava a tenersi dentro le frasi che gli ispiravano. Era chiaro che non si sarebbe schiodato di lì prima di avere scortato il suo compagno di battaglia fino al cimitero. Era chiaro che per nulla al mondo avrebbe lasciato il suo amico solo con quella gente. Aveva una moglie, che lo seguiva tenendosi un po’ discosta, come uno zoologo che segue le tracce di una pericolosa pantera. Nemmeno lei poteva avvicinarsi più di tanto.
Anche mio padre tra poco sarebbe stato morto, mi dicevo fissando il mio ex-suocero, che ascoltava con gli occhi chiusi i bisbigli che lo circondavano. Lui era ancora vivo, ma ne aveva per poco. Aveva un cancro ad uno stadio molto avanzato. Erano nati lo stesso anno, e probabilmente sarebbero morti lo stesso anno. Appena prima della fine di quel secolo di surrealistica violenza del quale erano entrambi figli fedeli. Un’altra delle tante cosiddette coincidenze che mi univa a quella che da cinque giorni era mia moglie. Mio padre però da morto non sarebbe sembrato un uomo di stato sovietico, sarebbe sembrato un terrorista. Bastava vedere come si stava preparando al fatidico evento: già da diversi mesi si faceva la barba solo sporadicamente, e si lavava di rado. Puzzava. Si rivolgeva agli altri con malcelata insofferenza, quasi con astio, rimproverandogli tacitamente il fatto che sarebbero sopravvissuti. Aveva deciso di dare un’intonazione provocatoriamente radicale anche alla propria sparizione. Non voleva capitolare in extremis alle consuetudini sociali, intendeva mostrarsi coerente fino alla fine.
Ogni tanto al lavello della cucina trovavo adesso un’altra persona, una donna. La prima volta ci ero rimasto male: mi sentivo usurpato. Avrei voluto dirle che se ne andasse fuori dai piedi, che c’ero prima io. Che si dedicasse a qualcos’altro, invece di farmi concorrenza con i piatti. Poi invece avevo capito che quella donna con i capelli ossigenati che regolarmente mi fregava il posto non era affatto una cattiva persona. Si dava anche lei da fare come poteva, lavando i piatti. Anche lei probabilmente era a più agio con le mani nel detersivo che in quelle di un’altra persona con l’aria grave. Non ce l’aveva con me, aveva trovato anche lei la mia stessa scappatoia. E a conti fatti c’era da fare anche per due: potevo sempre farmi passare i piatti da sciacquare o passare lo strofinaccio per terra. Per fortuna c’erano sempre delle mani che portavano vassoi di stoviglie sporche. Se avessi potuto scegliere avrei preferito lavare i piatti da solo, perché in fatto di piatti ho tutte le mie piccole manie, ma in fondo mi andava bene anche così. Sempre meglio di rimanere tutto il tempo di là con la gente che fingeva di essere addolorata.
Mano a mano che il pomeriggio avanzava sempre più spesso accanto alla salma trovavo due signore anziane che parlavano a voce alta. Probabilmente c’erano anche prima, ma io non le avevo notate. Erano le sorelle di mio suocero. Non bisbigliavano, non fissavano il pavimento. Si parlavano dalle rispettive poltrone poste da una parte e dall’altra del letto come se si trattasse di un normale malato. Vociavano e gesticolavano, nonostante quel loro disordinato chiasso desse all’evidenza molto fastidio alla cognata, vale a dire mia suocera.
Anche da morto sei proprio bello, dicevano al fratello. Lo ripetevano prendendo a testimoni gli altri, come si potrebbe fare appunto per tirare su di morale un malato. E rievocavamo episodi dove lui ne aveva combinata una delle sue. Ridevano fino a piegarsi in due sulla rispettiva poltrona, mentre aggiungevano altri dettagli. Ridevano e nello stesso tempo piangevano. Piangevano di tenerezza e di dolore. Ne aveva sempre combinate di tutti i colori, fin da molto piccolo, dicevano, lanciandosi delle occhiate di connivenza, come quando si parla in presenza di una persona un po’ dura di comprendonio. Sembrava quasi che rimproverassero al loro fratello rispettivamente minore e maggiore la monelleria di essere morto.
Era impossibile non legare il nostro matrimonio con la sua morte, mi ripetevo, guardando mio suocero ora trasformato in silenzioso e enigmatico cadavere. Era venuto al matrimonio, si era messo l’animo in pace rispetto alla figlia che gli aveva sempre dato dei pensieri, e poi era morto. Aveva deciso che ne aveva abbastanza di diventare ogni giorno più vecchio, con la prospettiva di diventare più vecchio ancora, e magari malato. Ne aveva abbastanza di litigare allo strenuo con la moglie. Per tutta la sua vita era vissuto di azione, anche nei suoi aspetti più violenti e drammatici, non di trantran famigliare. E comunque adesso che anche la seconda figlia era sistemata non aveva più niente da fare. E quindi era morto. Mi aveva per così dire affidato la figlia, e s’era ritirato alla chetichella, senza dare noia a nessuno. Il matrimonio e la sua scomparsa erano intimamente legati.
La donna che lavava i piatti con me mi parlava lentamente, perché pensava che essendo straniero non capissi molto. Mio suocero era una persona molto generosa, aveva fatto tantissimo per suo marito, che era un nipote adottivo, mi disse. Riusciva a trasformare in denaro qualsiasi cosa toccasse, ma non sapeva nemmeno cosa fosse l’avidità. Aveva ricominciato tutto a quarant’anni, dopo gli avvenimenti in cui era stato coinvolto nella colonia nel frattempo resasi indipendente: partendo dal niente era riuscito a diventare benestante. Lei e suo marito avevano un ristorante, mi disse, come giustificando il fatto che era abituata a lavare i piatti. Fra i clienti avevano molti italiani, tenne a precisare, facendo gli occhi come se parlasse di qualcosa di divertente. Io però non sembravo tanto un italiano, parevo piuttosto un olandese, aggiunse dopo un momento di silenzio. Io gli risposi che doveva aver ragione, perché spesso in Italia mi parlavano in inglese, o in tedesco. Lei rise, perché pensava che fosse una battuta.
In effetti quel mio suocero doveva avere dei lati molto belli, mi dicevo, osservando come ascoltava le sue ciarliere sorelle. Certo era collerico, certo era violento, certo si era sempre negato alla bambina che ora era mia moglie, ma era indubitabile che doveva aver avuto anche molte qualità. Era generoso, era aperto, sapeva coltivare le amicizie. Perfino adesso sulle sue labbra sembrava aleggiare l’ombra di un ironico sorriso. E quindi il terrorismo non era forse un aspetto così sostanziale come mi era sempre sembrato. Il suo terrorismo apparteneva in fondo alla preistoria.
Le due anziane sorelle avevano preso possesso della salma, adesso che era scesa l’oscurità, e che l’appartamento si stava svuotando. Loro non avevano bisogno di mostrarsi tristi, visto che erano tristi davvero. Dicevano quello che avevano voglia di dire, chiamando a testimoni gli altri presenti, trasformando la veglia funebre in un allegro e toccante chiacchiericcio. Quella relativamente più giovane con un inizio di baffi era la zia omosessuale di cui mi aveva parlato mia moglie, capivo adesso. Era lei che sparava fuori le battute più irriverenti, era lei che rideva più rumorosamente. Ogni tanto si trattava di una battuta razzista: un razzismo bonaccione e truculento di un altro tempo, venato di aromi coloniali.
L’anziana donna che adesso era mia suocera avrebbe voluto che le due cognate stessero zitte, che pregassero il suo Dio bigotto. Le guardava con un astio esausto, incredulo. Era troppo debole e troppo poco lucida per reagire, ma era chiaro che non sopportava quel loro comportamento, non le poteva sopportare. Aveva combattuto contro di loro per tutta una vita, aveva strenuamente avversato quello che di loro s’annidava nel marito, e adesso quelle arpie approfittavano della sua prostrazione per prendere il sopravvento. Se avesse potuto le avrebbe sbattute a calci fuori di casa. Io invece le trovavo sempre più simpatiche.
Ripensavo di nuovo a quello che mi aveva detto mio suocero prima di montare sul taxi il giorno dopo del matrimonio. Adesso dovrai avere moltissima pazienza, aveva ribadito, fissando il marciapiede. L’avevo presa per una minaccia. Capivo adesso che parlava in primo luogo di se stesso: si rimproverava di non averla avuta, la pazienza che richiedeva la donna che aveva generato mia moglie. Non era una frase da terrorista, era anzi una frase che prendeva le distanze dal terrorismo. Non era un proclama, era un messaggio indirizzato a me, alla persona che aveva avuto modo di inquadrare durante la cena. Qualcosa in lui sapeva che quei pochi attimi strappati ai saluti mentre salivano sul taxi erano l’ultima occasione per parlarmi.
Il nostro matrimonio era all’origine della morte del padre di mia moglie, il quale evidentemente era più attaccato a lei di quanto pensasse, mi dicevo. Era a causa di quell’innegabile legame che lei aveva preso la notizia così male. Quella morte era cominciata già il giorno dopo della cerimonia, già ai primi battibecchi. I nostri litigi di quella settimana erano in realtà l’attesa del trauma della scomparsa di suo padre, del dolore che l’avrebbe accompagnato, e che sarebbe verosimilmente durato degli anni. Era quello il vero motivo per cui il viaggio di nozze ci era apparso a entrambi tanto improbabile. Non si trattava dell’agonia della nostra relazione, stavamo covando la morte di suo padre. Probabilmente il nostro rapporto non era allo stremo, era il solito travagliato rapporto con i suoi imprevedibili e scoraggianti alti e bassi, il rapporto molto forte che durava ormai da dieci anni. Probabilmente il matrimonio non era stato un errore, era stata anzi una decisione azzeccata.
Adesso non andavo quasi più nella cucina. Non sentivo più il bisogno di nascondermi lavando i piatti. Me ne stavo lì ad ascoltare le due anziane sorelle che rievocavano speziati episodi della vita di mio suocero. Osservavo la zia tozza e con un inizio di baffi, la cui l’omosessualità nessuno in famiglia aveva mai nominato. Era lei che sovvertiva provocatoriamente le abitudini consolidate del lutto, trasformandolo in qualcosa di ben più pregnante. Era lei che aveva fatto piazza pulita dei benpensanti che si erano aggirati per la casa per tutta la giornata. Era lei che dava più noia alla cognata, chiusa nel suo dolore austero e egotista. E era lei che assomigliava di più a quella che adesso era mia moglie. Osservandola capivo da dove venivano la sfrontatezza e l’insolenza di quest’ultima, da dove veniva la sua sete di libertà.
Ma anch’io ero come mio padre, mi dicevo, ascoltando con un orecchio gli scambi verbali delle due vecchie iconoclaste, una delle quali aveva avuto il coraggio di vivere la propria omosessualità in quell’ambiente retrogrado che aveva avviluppato la sua esistenza. Aveva ragione mia moglie, avevo la sindrome del latitante. Non ero un terrorista, ma vivevo come se fossi un latitante, continuavo a scappare. Quel giorno ero stato tutto il giorno a lavare i piatti, ero fuggito per l’ennesima volta. Ero anch’io come mio padre, non sapevo adattarmi alle regole sociali, senza peraltro avere il coraggio di oppormi frontalmente.
L’amico terrorista si aggirava per la penombra dell’appartamento con movimenti striscianti e piccoli scatti involontari della testa: sembrava una fiera con i nervi tesi allo spasimo. Anche lui al cambiare dei tempi si era convertito alla vita civile, anche lui s’era costruito una maschera che col tempo era diventata un modo di essere, anche lui si era dedicato a accumulare denaro. Denaro e potere. Ma quel frangente lo affondava in un vortice regressivo, lo riportava indietro agli anni del tritolo e delle attività clandestine, agli anni lontanissimi degli ideali.
Stava facendosi tardi, presto ce ne saremmo andati con la vecchia zia razzista e omosessuale, che ci avrebbe ospitati da lei a dormire. Sentivo quindi il bisogno di stare accanto a quello che era stato per quattro giorni mio suocero. Di stargli vicino davvero. Non mi appariva più l’estraneo che mi era apparso quella mattina. Stando assieme per tutta quella lunghissima giornata avevamo in fondo finito per fare conoscenza, mi sembrava. E comunque anche senza conoscerlo lo conoscevo tramite la figlia, tramite gli atomi della figlia che ritrovavo nella sorella omosessuale, tramite i geni indomiti che vorticavano in quel ramo della famiglia, e che erano sciamati anche in mia moglie. Quei barlumi di follia che amavo. Il fatto che lui fosse morto e io fossi ancora vivo non mi appariva più una differenza così fondamentale come mi era sembrata quel mattino.
Immagine: Gerhard Richter, “Gegenüberstellung 3” [Confronto 3], in Baader-Meinhof, 1988, cm 112 x 102, olio su tela, The Museum of Modern Art, New York.
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Continuo la lettura. Trovo sempre una manera rara di evocare personaggi della realtà, personnagi con il carattere temprato, che fanno fronto alla vita e alla morte. C’è sempre una manera terribile di vedere i vincoli umani, soprattutto nella narrazione del lutto. Momento dove Giacomo Sartori mostra le maschere che portano gli altri ( i vivi) per superare l’assenza di vero sentimento, eccetto la paura di morire che spia ogni essere umano. Amo la manera di svelare come l’uomo si ribelle contro la morte: “Puzzava, […] Aveva deciso di dare un’intonazione provocatoriamente sopravvissuti.” Ho ritrovato l’argomento di “Anatomia della famiglia”.
Trovo interessante il vincolo quasi amoroso del padre verso la figlia.
Si abbandona alla morta, quando la figlia trovo un marito ( il matrimonia “ironie du sort” n’a rien avoir avec l’amour et le bonheur).
Forse il padre assicurato della disgrazia della figlia puo morire in pace: la sua figlia è affidata a un uomo che non sarà mai unrivale o ha il sentimento del dovere compito.
La zia è anche un personaggio particolare, una vera figura di comedia.
trovo in sartori la tragedia umana, la capacità di adattarvisi, di trovare una via, non tanto d’uscita, quanto di adattamento, alla vita.
vi trovo la capacità di vivere la propria verità fino in fondo.
e mi pare tanto.
cristiano
trovo questo racconto di Giacomo e quello precedente, bellissimi.
Sartori non è una garanzia. E’ addirittura una cassaforte. Scrittore di alto valore.