sette quattordici ventotto
di Chiara Valerio
Non ho niente in mano. Fossi un illusionista sarebbero cinque parole sorprendenti, di più, sarebbero un sipario, avrei addosso gli occhi di tutti, lucidi e pronti a stupirsi per la comparsa di un coniglio o di un mazzo di fiori, magari di una colomba. Io preferirei i fiori. Rossi gialli e bianchi, grandi e callosi, niente rose, niente verde. Le rose si sciupano e il verde imbrunisce. Nei mazzi degli illusionisti le rose non ci sono mai, neanche in quelli dei maghi da fiera. Perché si sciupano. Gli innamorati regalano rose perché l’amore si sciupa. Lo sanno, mentono e sempiterni regalano rose.
Non vorrei mai ricevere un fiore così. Che è un monito. E poi sussurrare che profumo che profumo e sorridere, emozionarmi un poco dimenticando che le rose appassiscono e l’amore e le scarpe nuove e altro ancora e che esistono i fiori di plastica e di stoffa che comunque non rappresentano una soluzione. Specie per gli allergici alla polvere. Io dico non ho niente in mano e mi guardo i palmi asciutti perché in questo niente che stringo non riesco a tenere nemmeno un segreto. Tutte le volte che mi sono coperta la bocca con una mano non sono stata in grado di tacere. Tutte le volte che da bambina giocavo a Indovina dove tengo la caramella, destra o sinistra, sinistra o destra, qui o qui, ho sempre ceduto lo zucchero. Perdere è amaro. Non ho niente in mano e non so mantenere un segreto. Il mese scorso, era di mercoledì, ho incontrato un uomo e siamo finiti a letto dopo una birra e quattro chiacchiere sconclusionate. Io ho pagato la prima, lui la seconda che però era la stessa. Una chiara doppio malto in un bicchiere che pareva e forse era una piccola boule per pesci rossi. I pesci rossi spesso sembrano ubriachi, girano in tondo fino a stordirsi e alle volte saltano fuori e finiscono sul pavimento. Capita poi che qualcuno arrivi trafelato e non se ne accorga. Del pesce sul pavimento. E ci scivoli sopra e cada e muoia. Capita che qualcuno sbatta la testa. Non si avveda dell’assenza del rosso nella trasparenza opaca d’acqua e mangime. Sul pavimento di casa calpestato mille volte. E i vicini sussurrino Doveva essere ubriaco. Invece era il pesce, ma non può dirlo a nessuno, acqua in bocca, lingua in gola. Le boule se la intendono con l’ubriachezza molesta e i segreti dovrebbero dirsi solo ai morti che però non hanno niente in mano. Forse una moneta. O sotto la lingua?
Siamo finiti a letto insieme, e non mi era mai successo, una birra e un uomo sotto le lenzuola, tutto nella stessa sera. Di mercoledì a casa mia e alle undici meno dieci era tutto finito perché mia madre ha chiamato per dirmi Buonanotte tesoro, e io Anche a te mamma e lui Tua madre ti chiama sempre a quest’ora e mia madre Chi c’è lì con te? E io Nessuno mamma è la televisione. Lui ha sorriso abbottonandosi lentamente, come uno si immagina faccia uno spogliarellista redento, illuminato di compiacenza e misericordia come se per una donna di trent’anni fosse umiliante confessare alla madre di tenere la televisione accesa con un film credibilmente anni cinquanta. Quanti uomini domandano Tua madre ti chiama sempre a quest’ora. Quest’ora quale? Tutte le ore sono delle madri. Essere madre è come avere tutto il tempo. Poi se n’è andato e non l’ho nemmeno accompagnato alla porta nel timore che pensasse a una replica. O forse sono le donne a pensare che agli uomini interessino le repliche, che siano esseri sessuali più che salottieri. Le reprises del sesso sicuro e senza esiti. Se è sicuro è senza esiti. Se nelle pubblicità o sulle scatole scrivessero senza esiti, nessuno comprerebbe più alcun tipo di contraccettivo. Senza esito è così esiziale. Senza esito è esiziale.
Ho rassettato, messo in ordine, elencato gli oggetti accarezzandoli con gli occhi uno a uno e spento la luce per riposare. E ho dormito. Da un mese dormo come mai. Non ho niente in mano non so tenere un segreto e di solito non dormo. Ci siamo rivisti in bar gli ho offerto una birra lui è andato via dicendo Buona serata davanti alla tv. Non conosco bene gli uomini ma mi stupisce che si comportino come donzellette piccate. O forse è lui, e per questo l’ho invitato a casa, forse amo le donzellette piccate, di qualsiasi sesso. Amo le donzellette piccate, coperte di trine anche quando i merletti sono baffi curati e basette intarsiate e le molle degli slip carioca e due orecchini e i capelli tagliati freschi. Che odorano di campi e di falce. Ho spento la luce. Le madri hanno anche il tempo del sonno. Controllano il sonno dei bambini, vegliano perché dormano tranquilli e sognino miele e foreste incantate e non si bagnino la testa se piove e non cadano nei burroni e non si grattino le bollicine che poi è peggio.
Una buona madre non comprerebbe un pesce rosso per il salotto con il pavimento di marmo. Una buona madre non andrebbe mai a vivere con un infante in una casa col pavimento di marmo. Un pavimento duro per una testa vellutata e una creatura malleabile. Pensavo che non avrei mai avuto bambini. Non che sia contraria, ma non credevo che sarebbe successo così, improvvisamente e senza pensieri, un mercoledì sera con uno sconosciuto riottoso a qualsiasi contatto dopo una birra chiara doppio malto. Devo essere incinta perché le mie mestruazioni sono più precise delle passeggiate di Kant e se quella dei ponti di Koninsberg è una leggenda questa non lo è. Ho le mestruazioni ogni ventotto giorni da quando avevo quattordici anni. Che se uno pensa che quattordici è la metà di ventotto non può che ritenere di portarsi dietro una precisione cronometrica da fare impallidire qualsiasi tabella oraria delle ferrovie tedesche o delle poste inglesi. Qualsiasi Holter. E ho un ritardo di sette giorni che è la metà di quattordici e la quarta parte di ventotto.
Ho smesso di bere birra e mi sono ricordata di saper lavorare all’uncinetto. Ho comprato un filo di cotone prezioso e composto un paio di scarpette assai complicate. Sono andata in merceria e so bene che sarebbe stato più semplice intrecciare una copertina o un centrino. Ma volevo le scarpe. Un paio di scarpette per mio figlio. Se non posso fare la madre posso almeno lavorare all’uncinetto. Scarpette rosse. Non importa che la strada sia folle o rivoltosa e vorticosa. Nemmeno che sia un’ossessione, è sufficiente che venga tracciata. Le scarpette rosse tracciano la strada del mio bambino che si annuncia con un ritardo di sette giorni e un dolore al seno e ai reni e un gonfiore come di bere eccessivo e con le tappe in bagno. La gravidanza se la intende con l’ubriachezza molesta e l’impossibilità di buttar fuori l’aria. Vorrei avvicinarmi alla donzelletta piccata con la barba rada per dire che aspettiamo un bambino, che i suoi contraccettivi rosa di fragola o cocomero o rosa di rosa ci hanno regalato un ritardo che non è di treno o di una coincidenza qualsiasi o di un cameriere al tavolo. Un ritardo di carne rosa. Ma non lo conosco e non so cosa dirgli.
Avere un bambino con una persona di sesso diverso è un fatto che può capitare. Fossi un cuoco queste quindici parole sarebbero la mia grande hors d’oeuvre, invece immagino di sedere sul divano di fronte a mio padre e mia madre che di bambini se ne intendono. Ma non gli sono capitati. Si sono sposati giovani e tutto il resto, con il mezzo pollo al matrimonio di fine anni settanta e la torta mimosa a due piani e quattro damigelle e le buste con i soldi e la culla in prestito, lei il cappello e la borsa a sacchetto lui i pantaloni quasi a campana sulle caviglie e il borsello e gli occhiali tredici pollici con le lenti variant. Potrei chiedere mamma che fine ha fatto la mia culla, a che punto del giro dei prestiti si è fermata. A quale grado di parentela.
Così con tono skakesperiano e con postura barda, declamare Deh madre dov’è chiusa la mia culla? Serra forse infanti tra le barre di contenzione? Fate atto di contenzione, madre, vostro e della culla e ditemi dov’è, confessate adesso che poi sarà tardi e l’avrò di già comprata! Mia madre riderebbe o potrei sorridere io e semplicemente, una domenica a tavola, perché i pranzi domenicali sono il crogiolo di tutte le ansie e le aspettative e le cattive sorprese mascherate da novità. Mamma papà aspetto un bambino, che bello. Bellezza senz’altre parole, bellezza senz’altro e una culla nuova ché ricordo narcotica la mia verniciata a olio. Crema e cioccolata a pittura tossica. Invece ancora qui in silenzio con un ritardo di una settimana che è metà di quattordici e quarta parte di ventotto.
Ho impiegato una notte a confezionare le scarpette. Sono venute piene di nodi, mi giustifico Nodi maya, per tenere conto dei primi passi del bambino con le manine tra le mie, un passetto alla volta e lui che pretende di rimanere in piedi, punta i piedi perché alzato può guardare più lontano. Fino alla boule col pesce rosso che ritenendo sia troppo piccolo per scivolare e per evitare il salotto ho esiliato sul mobile in ingresso. E invece mio figlio sa che rosso è distrazione, d’altronde ha rosse le scarpe, e allunga le mani al pomello e il pomello è sufficiente per barcollare la boule e capitolare il pesce. Indurre ubriachezza coi marosi nei decimetri cubi di trasparenza torbida. È sempre il mangime che intorbida. Prima solo in superficie, poi per gravità dovunque e fino in fondo. Eppure è necessario. I primi passi, il pesce per terra boccheggiante mio figlio che si abbassa per afferrarlo e modula con le labbra minute prima una piccola o di meraviglia e poi una grande O di fame e conoscenza. Mio figlio si china per mangiare il pesce rosso. Mio figlio affoga col pesce che gli scodinzola le gengive nude mentre io fisso i salvavita alle prese di corrente del bagno e del salone tranquilla perché in ingresso non ci sono prese. Non ci sono prese urlo mentre mio figlio sta gelido sul marmo. Sette giorni in ritardo anche qui, lo facessi oggi, invece di aspettare che nasca e si strozzi, lo avessi fatto ieri notte invece delle scarpette che tanto non gli impediranno di morire, sarei una buona madre. Invece non è ancora nato e sono già inadempiente. Fosse femmina recriminerebbe già.
Le madri hanno tutto il tempo per crocifiggersi. Se fossi una cattolica fervente potrei dire che questo è, che così ha da essere, perché per una che ha dovuto vedere il proprio figlio crocifisso, milioni per solidarietà si devono crocifiggere. In modo da bilanciare quello lì col tempo e il sangue versato o buttato. Quel sangue. Buttare il sangue significa arrabbiarsi, innervosirsi o affaticarsi, sforzarsi per rendere le cose migliori. Le madri buttano il sangue. E anch’io adesso di notte con la luce da tavolo accesa a pensare che ho un ritardo di sette giorni e non so nemmeno come si chiama basette di Fiandra. Mi piacerebbe Alfredo, o Alberto o Alessandro o Andrea, un nome con la A. Non so perché, ma mi piacerebbe, e visto che non andrò mai a chiederlo e lui non verrà mai a dirmelo posso immaginare quello che voglio e cominciare ad allenarmi con i nomi. Di mio figlio so che domani mi farà buttare sangue ma oggi non ho le mestruazioni. Non ho le mestruazioni da sette giorni. Consulto siti, faccio test, compro giornali femminili, in Italia è impossibile sbagliarsi perché non esiste il neutro e ho smesso la carne cruda. Viva o morta. Non ho niente in mano non so tenere un segreto e non mangio carne cruda.
Ho detto questo a mia madre che ha chiamato per darmi la buonanotte e risposto Sono incinta e lei Hai fatto il test? Mia madre non mi ha chiesto di chi è e perché sto a casa anche se non ho la febbre. Non se ho mangiato. Mi ha chiesto Hai fatto il test? Dovrò ricordarmi con mio figlio di porre sempre domande che lui trovi inopportune. Con una buona madre si è sempre fuori luogo. No mamma, non ho fatto il test, E come fai a saperlo allora, Mamma ho un ritardo di sette giorni, Allora io avrei dovuto essere incinta almeno trenta volte nella mia vita, Buonanotte mamma, fai il test. È notte fonda e devo trovare una farmacia aperta, nella speranza che non sia solo uno spaccio per medicinali di primo soccorso e metadone, che in uno scaffale dimenticato abbia un test di gravidanza. È una cosa da film, solo che dalla pellicola anni cinquanta sono passata a una scena tipo Sundance o TriBeCa, oppure, già archivio, la sposa in tuta gialla che prima della linea fatidica, della striscia reagente della vita, è un killer spietato e poi solo paura, tanta paura con la sicaria orientale che le punta una bocca da fuoco in mezzo agli occhi. Odio quando mia madre mi chiede se ho fatto i compiti a casa. Stessa cosa. Me lo chiede prima che io corra in giardino a rubare la papera al vicino o la rete da pallavolo ai ragazzi del quartiere, odio mia madre che mi chiede se ho fatto il test prima di festeggiare e domandare chi è il padre e come l’ho fatto e se non come almeno quando.
È notte fonda, non ho niente in mano non so tenere un segreto e non ho fatto il test di gravidanza, forse se avessi aspettato altre tre settimane, se io e le mestruazioni avessimo atteso quattro settimane per presentarci in carne e assenza a mia madre lei non avrebbe potuto opporci Hai fatto il test, invece adesso ha ragione. È notte fonda e mia madre è nel giusto. Esco con la macchina e particolare cautela, perché una donna nelle mie condizioni non può che pretendere un attendente al passo. Ma non ce l’ho. Non ho niente in mano non so tenere un segreto e non ho un attendente al passo. La croce verde della farmacia si accende e si spegne si accende e si spegne e mi ipnotizza. Vorrei leccarla come un ghiacciolo alla menta in una giornata estiva o un bombolone pistacchio variegato cioccolato sempre.
Entro. Suono per entrare e trovarmi di fronte a un vetro blindato e oltre il vetro un ragazzo che somiglia molto a basette intarsiate ma dice Sono Giacomo come posso aiutarla. Mi dica che sono incinta Giacomo, mi guardi e mi dica che aspetto un bambino. Ma taccio e mi preoccupo, batto i denti, ho le borse sotto gli occhi e il viso pallido che se non vivi in un film di indiani non dice nulla sulla tua identità ma molto sul tuo stile di vita, dice eccessivo, forse Giacomo pensa che mi droghi, che voglia fracassarmi la testa sul vetro blindato e stravolgergli il sonno per sempre. Ingiusto fece me contra me come?. Sul vetro blindato, ingiustissima. Io son colui. Sono Giacomo come posso aiutarla, Vorrei un test di gravidanza. Giacomo sorride come fosse il padre, io ansimo perché ho un ritardo di sette giorni che è la metà improbabile di quattordici anni e la quarta parte altrettanto di ventotto giorni.
Giacomo dice Sono undici euro. Ed è allegro perché il test è la vita, è come le vitamine. Prodotto da banco stipato di speranza. Penso che undici non è nemmeno pari. Quanto costa un bambino. Madre tirchia e tiranna. E ancora non è nato! Un bambino costa più di un chilo di carne macinata e non ne pesa che un grumo. Costa Più della frutta fresca anche immaturo com’è. Non dico niente a Giacomo, non dico mai niente a nessuno e per questo è superfluo che non sappia tenere i segreti e stringa tra le dita della mano destra le chiavi della macchina e nella sinistra un test di gravidanza. Un parallelepipedo leggero e colorato in modo affidabile. Vorrei fare il test in macchina ma non posso, dovrei aspettare di arrivare nel bagno di casa. Che è lontana. Sono curiosa, ho l’ansia da gravidanza che mi impedirà di continuare la mia vita, anche se vorrei che qualcosa la impedisse, perché non ho niente in mano. Il cellulare suona, mia madre vorrà sapere, finalmente savia, con chi ho fatto questo bambino, ma non rispondo perché devo trovare un bagno.
Non ho niente in mano tranne il volante, non so tenere un segreto tranne l’evidenza che mi sono portata un uomo a letto e che non conosco questa zona. Ma c’è la corrente elettrica e le luci al neon sono migliori dei segnali stradali. Freno, inchiodo, mio figlio punterà i piedi fino a quando non avrà un’auto tutta sua. Con l’unica pecca che anche questa insegna si spegne e si accende si spegne e si accende ma il senso è intermittente e mi sento stupida a intendere a tratti. Entro nel bar del quale non sono stata in grado di leggere il nome. Suono per entrare, dietro al bancone c’è una donna con un bicchiere tronco conico. Non quello da Martini, più stretto, dentro c’è un liquido lattiginoso che forse è latte di cocco forse vaccino, forse altro, chiedo un bagno, mi strizza l’occhio mi guarda le mani e indica la porta in fondo. Col mento. Che stupida il bagno è in fondo. Apro la scatola, leggo le istruzioni eseguo e aspetto. Il bagno è lindo e maiolicato, mi sorrido nello specchio illuminato. Sembro sott’acqua. Questa è la luce. Mi guardo nello specchio e nuoto. Manca solo una boule col pesce rosso. Fossi a casa basterebbe andare in ingresso per trovarla. E vuotarla. Fossi a casa il pesce boccheggerebbe sul pavimento ma rimarrei ferma.
Non ho niente in mano non so tenere un segreto non aspetto un bambino e qui non c’è il pesce rosso. Ritardo è un ritardo è un ritardo è un ritardo.
C’è una certezza che adesso stringi
E non è l’Angelo
Non è un miracolo
Non è la mano del Signore
Sei tu
Cuore di Tenebra, Baustelle
[Questo racconto è stato scritto per ScrittureGiovani del Festivaletteratura di Mantova 2007]
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Così intimo. Così tanto intimo. E bello. Bello è la parola. Bello è bello è bello è bello è bello è bello è bello…
Non solo è bello: è bello perchè è “lindo”.
Per questo è un po’ sconcertante per me: perchè l’argomento proprio lindo non è.
Sono le parole “maiolicate”.
Così noi ci possiamo rispecchiare alla “luce” del racconto.
Bello: complimenti!
Blackjack.
Questo racconto mi parla. Come il ritardo copre il futuro con illusione. Il desiderio del figlio spunta dietro la certezza di essere incinta. Un ritardo crea angoscia e anche speranza. Chiaria Valerio sfiora i due lati.
L’ultima parola ha il sapore del vuoto; in mano la perla di pioggia ha una vita breve, come le rose intraviste, o la forma di un embrione.
Le cose scappano.
Bellissima tristezza, l’ho sentita cosi.
“Avere un bambino con una persona di sesso diverso è un fatto che può capitare. Fossi un cuoco queste quindici parole sarebbero la mia grande hors d’oeuvre”
me la segno questa. bravissima Chi.
Ho un desiderio di maternità. Gulp!
“Siete pregati di rimanere in dolce attesa.” Alberto Arbasino, “La vita bassa”
Buffo, le madri di chi scrive sono sempre dannatamente concrete..e accidenti..hanno *sempre* ragione…V.
Semplicemente meraviglioso….
Chiara Valerio è il miglior scrittore italiano di racconti che ci sia in circolazione. Ossimori di reticenza ed eloquenza, eleganza, stile, talento costruttivo e puntigliosa introspezione.
E il Dio delle Lettere sa quale mistero avvolga il talento sopraffino di racchiudere in un batter d’inchiostro inquietudine e visioni.
Il filo dell’orizzonte tra prosa e poesia, in fondo.
Illusionista e prestigiatore. Guardatemi. Non ho niente in mano.
io direi invece che Chiara Valerio è la migliore scrittrice di racconti ecc. Questo è proprio delicato e luminoso. Grazie chi.
beh… io sono così felice che questo racconto vi abbia fato eco da qualche parte! grazie davvero. chi
Una scrittura matura per un’immatura ed immeritata solitudine.
Bello è bello è bello è bello…
Per leggerezza di tono, fluidità di immagini, inavvertita profondità di indagine, Chiara Valerio è una scrittrice compiuta, accattivante ma per nulla banale. Trasmette un’idea del raccontare come dono e del racconto come atto naturale, fa venire voglia di leggere, fa venire voglia di scrivere. Il parallelo con Amelie Nothomb si suggerisce da sé, ma Chiara ha un’identità sua e tratti narrativi personalissimi, specialmente sintattici. Tutto molto piacevole.
Ecco, è qui che ho conosciuto Chiara Valerio, in questo racconto bellissimo, per me. Ciao!
Non mi azzardo in analisi letterarie, chi. Ti dico solo che mi ha emozionato. Mi ha fatto molto pensare a te. Un bambino costa più di un chilo di carne e non è che un grumo. Non ti regalerò mai rose rosse.
è notte fonda, non ho niente in mano e vorrei scrivere come te.
Buona notte!