Gianfranco Ciabatti

di Roberto Bugliani

A quindici anni dalla sua scomparsa (febbraio 1994), questo medaglione artigianale su Gianfranco Ciabatti valga, con tutti i suoi limiti intrinseci, come affettuoso ricordo dell’uomo e memoria di un poeta che ha fatto della coerenza etica e della prassi politica la sua ragione di vita, anche artistica.

“Nato a Ponsacco (Pisa), nel 1936, Gianfranco Ciabatti si è laureato in giurisprudenza nel 1959. Ha collaborato da prima con Danilo Dolci e successivamente è stato operaio in cantieri edili e insegnante nelle scuole medie. Dal 1969 è redattore presso una casa editrice fiorentina”. Così recitava la breve nota bio-bibliografica su di lui dell’antologia einaudiana Nuovi poeti italiani (1980), in cui figurava una scelta di suoi testi poetici, dal 1960 al 1977.

Se in quella antologia Ciabatti veniva presentato al grosso pubblico en poète, a quella data egli aveva però già alle spalle una rigorosa attività di militante politico e di teorico marxista che lo portò nel 1965 a fondare, assieme a Romano Luperini e Franco Petroni, la rivista pisana “Nuovo Impegno”, divenuta in seguito l’organo teorico della Lega dei comunisti, e a intervenire puntualmente con scritti saggistici nel dibattito politico-culturale degli anni Sessanta e Settanta (quelli sul movimento sindacale italiano vennero accolti nel 1981 nella miscellanea feltrinelliana Lavoro scienza potere). Tappa successiva del suo impegno teorico-politico fu la fondazione, assieme a un gruppo di intellettuali e ricercatori marxisti tra cui Gianfranco Pala, del bimestrale “la contraddizione”, il cui primo numero uscì nel giugno-luglio 1987.

Nel 1985 l’editore Manni pubblicò la sua prima raccolta di poesie, Preavvisi al reo, in cui la poetica di Ciabatti veniva definita da Luperini, autore della prefazione, estranea “sia al filone della tradizione simbolista e postsimbolista, sia a quello dello sperimentalismo avanguardistico”, ma appartenente al “solco europeo di Brecht, Jòzsef, Auden”. Quattro anni dopo, uscirà da Sansoni il suo libro di poesie Niente di personale, con prefazione di Franco Fortini, mentre l’anno prima, il 1988, Ciabatti aveva dato alle stampe per le edizioni di contraddizione le sue “non-poesie civili o refutabili 1959-1988”, inizialmente facenti parte del libro sansoniamo, ma poi estrapolate da Ciabatti e raccolte autonomamente col titolo Prima persona plurale. Nel 1997, a cura di Sebastiano Timpanaro, è uscito postumo il suo libro di versi Abicì d’anteguerra (La Città del Sole), poesie scritte appositamente per l’omonima rubrica che Ciabatti teneva nel periodico “la contraddizione”, e nel 1998 Marsilio ha pubblicato la sua raccolta di poesie In corpore viri, in cui “la vile cosa che è il corpo”, ha scritto Giovanni Commare, diviene per Ciabatti “l’unico bene certo”.

Se un filo rosso tiene insieme tutta la poesia di Ciabatti, “la poesia di un isolato che tesse solo il filo della propria coerenza”, e per questo “poesia controcorrente e fuori moda” (Luperini), a me pare che uno dei suoi risultati formali più importanti e maturi sia Niente di personale, libro che fin dal titolo (aggressivo e difensivo insieme, come ebbe a dire Fortini) esibisce quella contraddizione che è l’ossatura del suo discorso poetico, in quanto proietta l’io lirico del poeta oltre i propri confini soggettivi, e lo istituisce come essere plurale, collettivo, per il quale è la tensione corale all’universalità ciò che veramente conta nel racconto in versi della singola esperienza umana.

Non saprei dire quanto di impulso istintivo, di carattere maturato nella prassi, di meditata scelta intellettuale consentisse a Ciabatti di coniugare attività politica e lavoro teorico, impegno sociale e militanza poetica nelle forme, com’egli dice, della “prima persona plurale”, del “tu” collettivo e di classe, del “noi” della storia universale, ma so che dal rifiuto della persona quale il diritto borghese l’ha delineata (e che Ciabatti conosceva bene, tanto da fare del diritto l’argomento di molti suoi saggi) e dalla critica del soggetto separato, tanto in ambito sociologico quanto psicoanalitico, muove il suo fare poetico, che rappresenta il soggetto sempre in situazione, in relazione (conflittuale, di lotta, o teorico-pratica, di conoscenza) con la realtà sociale. E, di concerto a ciò, è in lui radicale la critica al concetto di alterità del poeta, di eccentricità del suo io.

Ma la tensione corale all’universalità espressa dalla poesia di Ciabatti è sempre mediata dalla coscienza dei limiti che ogni “genere”, che ogni scrittura ha impliciti, limiti ai quali la sua parola poetica risponde con un lirismo rovesciato o negativo, ossia denunciando nella propria contraddizione il processo aperto dell’agire poetico, dove la sintesi non costituisce alcun punto di arrivo, ma un semplice mezzo, un aspetto particolare della dialettica in atto.

Così che il tono stilisticamente “alto”, la lingua volutamente aulica, gli arcaismi e i preziosimi di questa poesia trovato adeguato e, per dir così, naturale ambito di esercizio nei suoi temi “bassi” e “ignobili” (in corpore vili, da un lato, e dall’altro, come osserva Fortini, l'”ignobile” bretchtiano “dell’economia politica e dei saperi tecnici”), nell’antisublime di argomenti, sentimenti e situazioni sempre percepibili, sempre dicibili. Nel qui-e-ora dell’esistenza, della rabbia (anche per lui, come per Giovenale, facit indignatio versus), della lotta, della poesia.

Propongo qui di seguito un piccolissimo regesto di poesie di Ciabatti, sapendo che difficile, se non impossibile, è dar conto con pochi exempla dell’opera poetica di un autore. Segnalo inoltre che il n. 34-35 della rivista Allegoria (gennaio-agosto 2000) ha dedicato una sua sezione alla poesia di Ciabatti, con interventi di Timpanaro, Luperini, Fortini, Cataldi, Commare, e un ottimo ritratto biografico a cura di Valentina Tinacci.

***

Gianfranco Ciabatti

Dal di dentro

Poiché dobbiamo viverci,
teniamo pulita la nostra prigione,
apriamo i vetri all’aria del mattino
zufolando immemori

che un giorno il sole ci accecherà
e la strada sarà troppo grande, per noi,
tremanti passi di convalescente
deboli sotto la madida pelle.

Noi dovremo allora richiamare
gesti antichi alla mente, ricusare
la pace che consente con la legge del silenzio,
tollerare la dura libertà
(aprile 1962)

Consiglio a un compagno

Quando ti accori dell’offesa ingiusta
e cedendo a languori consolanti ti compiangi
per cercare sollievo,
sbrìgati a tornare al tuo costume
di tranquilla freddezza,
perché le offese fatte a chi si batte
sono le giuste offese del nemico.
(1977)

Alla sua compagna

Il rischio non è che tu rompa con me.
C’è il caso che tu te ne vada
Guardando la mia schiena diminuire lenta,
e indietro tu ritorni per ripassare il limite
che varcò il nostro amore.
Più difficile è prendere con te

gioia più ardente o più fredda coscienza
e così provveduta lasciarti alle spalle
quel limite che è il nostro amore,
e me con lui.

La morte dei poeti

Non la serena facies
riflesso di sapienza rinunziata senza pena,
conclusione in arguzia estenuata dall’assenso,
ironia che rimette la sua resa ai vincitori,
ma sguardo che rotea dall’uno all’altro astante

stupori irriducibili di aliene volontà,
attese mantenute oltre la delusione,
astro di calore collassante dentro il petto,
la testa che crolla sulla spalla di chi amò,
una ciànosi e un rivolo di sangue,
mentre intorno i presenti che intesero capire
non capiscono più niente.

Cronaca

Diffondono gli sguardi dei morenti.
Un velo di bambini liquefatti si dilata
sui piani del mio cuore senza sponde,
e mentre mi succede di dissolvermi con loro
domesticato dalla bontà,
domando contro l’urto permanente delle lacrime
la costanza dell’odio,
la verità.

A un privilegiato

Tu vedi un minor numero di cose,
ma il vederne di meno, è codesto
che consente l’azione.
L’onniscienza impietrisce.

I mondi sono quello che sanno,
il nulla immobile riposa occhiuto
nella sua totalità.
Gli uomini ignorano quello che fanno.

Di se stessa sgomenta, e veggente,
ristà
la disperazione, nutrendo
il grido, non il gesto, di rivolta.

Rettifica

Nostra specie non si occupa
del primo dato
ma di quanto ne segue
o giace a latere.
Blando il dio nostro
(o geloso, se vuoi) – ci ispira un dire
elusivo,
ci risparmia (o ci vieta)
un dire conclusivo.

Il materialismo incompiuto di Giacomo Leopardi

L’anima umana, disse,
desidera il piacere, unicamente.
E come il desiderio è infinito, infinito è il piacere
desiderato,
e quello solo estingue con la morte infinita
non questo con sorsi finiti di vita
la natura matrigna.

Benigna, allora, da misericordia
verso di noi fatta,
ci donò la virtù d’immaginare l’infinito
e infinito il piacere e illusioni a saziare
lui sitibondo.
E misericordioso questo vano
sorridere del mondo ai fanciulli, pertanto,
illuminava l’anima e, più che ai conoscenti,
agl’ignoranti.

E proprio così disse: “l’uomo”, “l’anima”.
E non vide, il poeta, il plurale indistinto
dei corpi dominati, non vide il piacere, disceso
da cieli impenetrabili,
fermarsi a questa soglia, disperare di raggiungere una qualche
soglia d’anima, oltre la piaga torpida
del bisogno assordante,
un qualche uomo che fosse
meno che creatura.

11 COMMENTS

  1. Gianfranco Ciabatti è stato poeta, ma prima di tutto un militante. Difficilmente, nel leggere la sua opera, ci si può esulare dal metterla in relazione con la sua capacità di stare dentro le cose per modificarle. Ciabatti, intanto, a differenza di tanti autori che pure mirano a politicizzate il segno, aveva ben presente la differenza (e la contraddizione) tra la prassi poetica e quella politico-ideologica; ben sapeva che l’azione nella parola, quand’anche condotta in opposizione, è ben poca cosa rispetto a quella nel reale, unica veramente capace di trasformare una situazione. La parola è mistificazione; serve a velare l’essenza del reale. Anche quando riesce a destabilizzare i sensi comuni, aprendo squarci di nuova visione, sconta i limiti che le sono propri: solo i comportamenti, sembra dirci Ciabatti, possono far «tacere» la parola, spianando la strada alla «responsabilità nella storia». Non a caso la scrittura poetica di Ciabatti è non-sentimentale, anti-psicologica, materica, corporale. Il «disvelamento del reale» è sempre propedeutico alla messa in azione del corpo; la coscienza, messa in azione dai versi, sia nel processo compositivo che in quello percettivo attivato, mira a farsi «guerra contro la non esistenza», mira a farsi «prassi che rovescia». Il compito principale, sembra dirci Ciabatti, non è nella poesia, ma là fuori, in quello «spazio inanimato di gelo e di morte»: è là che bisogna «mutare la nascita in creazione». Tutto il resto è letteratura.

    L’opera di Gianfranco Ciabatti Abicì d’anteguerra (prefazione di Sebastiano Timpanaro) può essere scaricata qui.

    Rimando anche al Catalogo della danza, secondo me una delle poesie più belle mai scritte in Italy.

    Grazie a Domenico Pinto e a Bugliani (Roberto, un salutone!) per questo ricordo.

    Nevio Gàmbula

  2. Non si parlava di poesia, quando conobbi Gianfranco Ciabatti.

    All’interno del movimento – lui di dieci anni più grande di noi – rappresentava non solo un punto di riferimento politico, ma anche un esempio di come dovesse essere la giusta condotta di vita di un militante.

    Molto più tardi lo scoprii poeta. Anche questa volta molto più maturo di me.
    Ma non ebbi alcun timore a consegnarli quei primi fogli, con i frutti di una pratica poetica rimasta latente per tutti gli anni dell’impegno politico

    *

    Se dovessi tracciare un ritratto di Gianfranco, utilizzando pochi versi tra quelli scelti da Roberto – che ringrazio, assieme a Domenico, per questo ricordo – indicherei questi :

    “domando contro l’urto permanente delle lacrime
    la costanza dell’odio,
    la verità.”

    rischiando certamente di proporne un’immagine distorta a chi non l’ha mai conosciuto.

    Soltanto chi l’ha conosciuto, infatti, potrà leggere nel modo giusto quella parola: “odio”, che indica non un sentimento – né il generico odio di classe – ma il permanente e irrinunciabile impegno di un’intera vita, tesa, attraverso la conoscenza, a cambiare il mondo – lottando – a favore degli oppressi.

  3. ringrazio (se ha senso in questi casi dire grazie) tutti , autori e commentatori, per avermi guidato fin lì.
    effeffe

  4. Anch’io aggiungo il mio ringraziamento a chi ha fatto “funzionare” questo ricordo di Ciabatti (a Domenico, in primis), e a chi lo ha integrato con le sue testimonianze e osservazioni, colmandone le insufficienze.
    @ Nevio,
    un caro saluto (ne è passata, d’acqua sotto i ponti…)

  5. anch’io ringrazio tutti e vorrei aggiungere questa, tra le mie preferite:

    Da questa condizione
    mi sorprendo a non perdere
    il genio neturale della sintesi.
    Nulla da rilevare del sordido dolore
    che circola zelante nei colli delle storte, nelle cannule
    dei clisteri, nelle anime degli aghi ipodermici,
    nei cateteri miocardici.

    Come queando ero immune, anche qui
    solo un lamento appena percepibile
    dell’indicibile dolore astratto
    che s’incarna nel corpo non mistico
    degli offesi, o fugace un barlume
    di amore eventuale o di riscatto,
    mi hanno in loro potere.
    (da In corpore viri)

  6. @ maria v,
    la poesia che segnali, anch’essa molto bella, mi pare una ulteriore testimonianza sul “niente di personale” che ha segnato, come un leit-motiv, la vita sociale di Ciabatti. La poesia fa riferimento al ricovero ospedaliero di Ciabatti (la rarisima amiloidosi che pose fine alla sua vita), ma anche da quella “condizione” estrema, Ciabatti ha la forza di mettere il suo io tra parentesi (“nulla da rilevare”), per continuare a scrivere, en poète, “dell’indicibile dolore astratto
    che s’incarna nel corpo non mistico
    degli offesi”.
    Del resto, è nell’emistichio “come quando ero immune” racchiusa la continuità del suo “discorso” in versi tra il “prima” e l'”adesso” (“mi hanno in loro potere”), e “niente di personale” ne viene a inquinare la cristallina veemenza politica.

  7. @ roberto bugliani
    condivido la sua lettura e posso solo, nuovamente, ringraziarla.

    @enzo
    hai provato anche su ibs? io me lo procurai così non tantissimo tempo fa

  8. “Tu vedi un minor numero di cose,
    ma il vederne di meno, è codesto
    che consente l’azione.”

    magnifiche, veramente, e io, ahimé, non le conoscevo.
    grazie per questa proposta (oserei aggiungere: *necessaria* nel mezzo di tanto delirio di cose e visioni)

    un saluto,
    r

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domenico pintohttps://www.nazioneindiana.com/
Domenico Pinto (1976). È traduttore. Collabora alle pagine di «Alias» e «L'Indice». Si occupa di letteratura tedesca contemporanea. Cura questa collana.