Viaggiare per non arrivare mai
di Mauro Daltin
Racconta lo scrittore Claudio Magris: “Da ragazzino, andavo a giocare sul Carso. E spesso arrivavo alla Cortina di ferro. Oltre, c’era un mondo misterioso, inquietante. Il mondo di Tito e di Stalin. Qualcosa di conosciuto e sconosciuto, familiare e impressionante. Un Paese chiuso dalla frontiera, che non conosceva frontiera. E che mi portava a interrogarmi sulla mia identità: quando cessiamo d’interrogarci sull’identità, andiamo verso la fossilizzazione”. La provocazione sta tutta in questa ultima frase dell’intellettuale triestino che, in sostanza, sostiene che il confine sia giusto, ma vada superato, che non ne possiamo fare a meno, che, forse, il concetto di frontiera è proprio dell’essere umano fin dalla sua nascita, è la molla che lo fa andare avanti. Crearsi i confini per poi abbatterli e proseguire. Non tutti i confini, ovvio, non quelli creati ad hoc per dividere, per provocare disuguaglianze, ma quelli che segnano differenze, quelli che ci mettono di fronte non solo all’altro ma a noi stessi.
In questa sorta di geografia del confine, partiamo con le parole di Claudio Magris e da una delle città più contraddittorie della nostra storia, quella Trieste slava e austriaca, italiana a volte, mitteleuropea e provinciale allo stesso tempo. Da qui nascono spesso risentimenti, rigurgiti di una destra aggressiva, qui il mare inghiotte una lingua, un’intera invisibile minoranza, quella slovena, che non ha mai trovato rappresentanza vera. Nemmeno oggi, anche se le cose sono molto migliorate. Non è un caso che sia da qui che si sia levata la voce dello scrittore italiano di minoranza e di lingua slovena Boris Pahor, narratore sublime degli orrori del nazismo in Necropoli, ma anche testimone lucidissimo di quello che voleva dire essere sloveno a Trieste in certi anni. Così racconta in un’intervista pubblicata sulla rivista Pagina Zero – Letterature di frontiera: “Hanno preferito che non si raccontasse mai la verità su quello che i fascisti hanno fatto qui a Trieste, in Slovenia, in Croazia. E non parlo della guerra, ma del periodo tra le due guerre mondiali. Ci hanno annientati. Ci hanno trattato peggio degli schiavi neri. Quelli, almeno, parlavano la loro lingua, mantenevano le loro tradizioni. A noi hanno negato tutto: la lingua, la cultura, l’identità. Se parlavi in sloveno per strada a Trieste in quegli anni rischiavi che qualcuno ti allungasse uno schiaffo!”. Da quegli anni, il confine è mutato, si è saldato, ha diviso fino a sfaldarsi in mille pezzi. Ancora negli anni Ottanta e Novanta, per la maggior parte della gente Lubiana sembrava una città lontanissima, appartenente a un mondo altro, e quando si oltrepassava il valico di Fernetti e si andava di là, c’era una sorta di timore di qualcosa che non si sapeva bene cosa fosse. Adesso Lubiana è lì, a un tiro di schioppo da Trieste, città giovane e piena di energie, capitale di una Repubblica vivace da cui potremmo imparare molto. Ora il rischio si chiama occidentalizzazione, perdita della differenza “slovena”, paura di una uniformazione delle città, costruzione di non-luoghi. Una sorta di continuità fra “noi” e “loro” che poi non distingua più nulla, che faccia galleggiare tutto sulla superficie. Ma è anche una sfida, senz’altro.
Il 27 dicembre 2007 la Slovenia è entrata nell’area Schengen dopo che nel 2004 aveva fatto ingresso nell’UE. L’abbattimento delle frontiere è avvenuto prima per le merci che potevano circolare liberamente e solo dopo per gli esseri umani che quelle merci consumano. Per un certo periodo si dovevano mostrare carte d’identità senza senso, provare quella ingenua adrenalina per una stecca di sigaretta di troppo nascosta goffamente sotto il sedile e sentire quel “dichiara?” che suonava fuori tempo e fuori luogo. Così è successo, mentre ora è un continuum quando si passa da uno stato all’altro, come se quel confine non rappresentasse più nulla, quando invece, fino all’altro ieri, aveva rappresentato tutto. E ci accorgiamo di come il mondo si possa ribaltare da un momento all’altro e se fino a qualche anno fa erano sloveni e croati a riempire i nostri MercatoniZeta e gli iper centri commerciali di bassa qualità, ora siamo noi che sconfiniamo alla ricerca disperata di cure di ogni genere e di dentisti a bassissimo costo.
Ma per andare di là, si deve sempre attraversare una regione, il Friuli Venezia Giulia che è terra strana, fatta essa stessa di confini al suo interno, presenti già nel suo stesso nome: quel Friuli a volte diviso da un trattino da tutto il resto, dalla Venezia e dalla Giulia. Frontiere naturali, storiche, linguistiche, politiche, culturali. Terra eterogenea e proprio per questo ricca, come tutte le zone al limite, sul bordo di qualcosa che sia altro. Ma anche contraddittoria, chiusa, insoddisfatta nell’essere di colpo diventata da servitù militare di una nazione, dove si concentrava la metà di tutto l’esercito, a ponte verso l’Oriente, fulcro della MacroRegione, della Piattaforma dell’area Alpe Adria, tutti termini che sembrano provenire da altri mondi e che il Friuli non sente propri. Terra di contraddizione, dicevo, dove il maggior quotidiano della regione si chiama Messaggero Veneto, come a rimarcare anche oggi la presenza della Serenissima e quella Venezia nel nome che strizza l’occhio alla provincia pordenonese, molto più veneta che friulana. Simbolo di questo melting pot nostrano è Gorizia, seconda tappa di questo immaginario viaggio fra confini veri o immaginari. Provincia dove si parla un dialetto simile al triestino nel capoluogo, il “bisiaco” nella Sinistra Isonzo, il gradese nell’isola di Grado, lo sloveno vista la forte presenza della minoranza e il friulano nella parte più occidentale. Gorizia, città unica e doppia, Gorizia/Nova Gorica, due anime nello stesso luogo. Sembra passato un secolo dalle parole di David Maria Turoldo scritte nel suo Il mio vecchio Friuli nel 1980: “Povere strade del Friuli, percorse solo dai militari! Mio dimenticato Friuli, porta sull’Italia e sull’occidente mediterraneo per le masse del Danubio e dell’Asia. Ora la martoriata Gorizia è attraversata da una rete, il misero confine che ti passa in mezzo al cuore, conficcato dentro come una lama! E al di là di quella rete non c’è che l’oriente, il grande mare che arriva fino al Giappone…”
Si sale lungo la frontiera passando le Valli del Natisone e la Val Resia, mondi quasi a parte, dove miti e leggende rimangono vivi chissà come, e dove, finalmente, ti rendi conto che Caporetto non si chiama così, ma Kobarid, città a tutti gli effetti slovena, ma che noi italiani abbiamo mentalmente fatto nostra. E ti puoi specchiare nell’acqua verdissima dell’Isonzo / Soča, fiume che cambia nome al di là e al di qua della frontiera come a sottolineare che gli unici veri confini sono quelli fatti da fiumi, acque, montagne.
E puoi continuare fino ad arrivare lassù in alto, sul Monte Forno / Dreilandereck / Pec, cima che riunisce i confini di tre stati, l’Italia, l’Austria e la Slovenia e dove ogni anno italiani, sloveni e austriaci si ritrovano per festeggiare insieme.
Probabilmente il modo migliore di osservare un confine è viverlo, attraversarlo, fermarcisi sopra, come sulla vetta di una montagna, come su un filo. Non rimanere né di qua né di là, ma sul. È un po’ come un muro, una rete, un ponte. Obbligano a optare, preferire, decidere. A volte sarebbe bello semplicemente poter camminare su un cornicione, su un filo, senza cadere né a destra né a sinistra, vivere le zone neutre, il colore grigio che può diventare bianco o nero, ma può anche rimanere per sempre grigio. E paradossalmente la frontiera non divide noi da qualcun altro, ma da noi stessi. Se non ci confrontiamo, se non desideriamo mai andare di là, superare il confine per vedere cosa si nasconde oltre, il rischio, come diceva all’inizio Claudio Magris, è quello di non interrogarci più sulla nostra identità, sul nostro essere.
Non serve che i confini cadano politicamente, che dall’alto decidano con il righello di quanti chilometri si sposti a est o a nord. In fondo, se chiediamo a 100 persone sparse per l’Italia chi è il presidente della Slovenia o della Croazia, forse uno saprà rispondere correttamente. Se poi chiedo a 100 lettori forti italiani di indicarmi uno scrittore croato o sloveno, penso che pochissimi mi saprebbero indicare qualcuno. Questi sono i veri confini che nascondono le paure, anche le presunzioni di essere “migliori”, che siano gli altri che debbano sempre e comunque adeguarsi. Ma la ruota gira e tutto torna. E torniamo sempre a leggere una citazione di Claudio Magris: “Oltrepassare le frontiere; anche amarle – in quanto definiscono una realtà, un’individualità, le danno forma, salvandola dall’indistinto – ma senza idolatrarle, senza farne idoli che esigono sacrifici di sangue. Saperle flessibili, provvisorie e periture, come un corpo umano, e perciò degne di essere amate; mortali, nel senso di essere soggette alla morte, come i viaggiatori, non occasione e causa di morte, come lo sono state e lo sono tante volte. Viaggiare non per arrivare ma per viaggiare, per arrivare il più tardi possibile, per non arrivare possibilmente mai”.
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Bellissimo sul confine.
Il vero confine, non è la geografia, è l’uso della lingua.
Amare il confine, per sentire il passaggio della lingua attraverso il corpo.
La commozione entra, nel oltrepassare.
Un fenomeno strano che vorrei riferire, che fa del confine della lingua una realtà. Quando prendo il treno per l’Italia ( non accade nell’areo, perché il viaggio è meno lungo e non ispira la conversazione), dopo la frontiera, mi sembra che le voci francesi sbiadiscono; e che le voci italiane si fanno più vive, forti.
E lo stesso fenomeno al ritorno, quasi verso Parigi, le voci italaine si fanno zitti. O allora la sola manera di valicare la frontiera è il silenzio.
Credo che cambiare la lingua sia l’aspetto più importante per me, al punto che tornando da Italia, non riusco a sentire il francese come lingua,
sento il brusio dell’italiano, come un fenomeno di allucinazione transitorio.
della stessa manera, di fronte a una conversazione in italiano, ho l’impressione di nuotare a stento, perdo il filo, affero disperamente una parola, non voglio annegarmi, e propio sono annegata.
Mi chiedo come una personan che vive durante anni in paese straniero fa.
Non si perde mai la lingua materna, ma puo rimanere allo stato latente, come stretta all’incoscio.