La cerva cornuta [Eracle #3]
Eracle fu perciò un semidio: nessun tedio umano lo risparmiò.
Quelle di Perseo, di Teseo, furono imprese.
Le sue, fatiche.
di Ginevra Bompiani
È probabile che prima di mettersi a correre non l’avesse neppure vista. Gliela avevano descritta, naturalmente, come qualcosa di bello. Ha le corna. Al sole si vedono splendere. Ma poiché la sua caratteristica era la corsa veloce, è difficile che qualcuno l’abbia guardata da vicino. Di lei si sapeva che razziava nei campi. Ma chi non razziava nei campi? E che appetito poteva mai avere una cerva da rappresentare un flagello? Ma era quel baluginare delle corna, in una femmina, quel rutilio nella penombra del bosco a farne una preda degna di lui. Volevano che la prendesse per non essere tentati di inseguirla.
La loro vita era chiusa in quei campi dove lei appariva quand’erano deserti, e i contadini serrati in casa spiavano dalle porte, e quando lei se ne andava, si illanguidivano dalla voglia di andarle dietro. La cerva non rappresentava altro pericolo che quello del desiderio. Il desiderio di andarsene. Anche per sempre.
Quello era il desiderio che lui doveva spegnere, accollandoselo; una vertigine, lo spasimo di buttarsi nel vuoto precipizio; bisognava che lui scendesse vertiginosamente, rischiando di ruzzolare fino in fondo, sollevando sterpi sassi e radici sotto ogni passo, perché la loro saggezza si risolvesse un’altra volta a star ferma, ad accontentarsi, a non desiderare più.
Quindi appena si avvicinò, e lei prese a correre, la inseguì subito a rotta di collo spiando le sue tracce nell’erba senza nemmeno alzare gli occhi. E mentre correva, col pensiero ragionava sulla strada fatta, e sapeva bene dove lo stava portando.
Eracle fu perciò un semidio: nessun tedio umano lo risparmiò. Quelle di Perseo, di Teseo, furono imprese. Le sue, fatiche. Ogni volta ci entrava a capofitto. E la sua consapevolezza gli serviva tanto poco quanto al centauro frenetico che rincorre la femmina è inutile quel cervello sospeso sulle zampe. Rincorreva un desiderio non suo e lo faceva suo.
Ma la corsa della cerva aveva qualcosa di speciale: la focosità del cavallo che torna alla stalla; infatti correva verso l’entrata del mondo sotterraneo; quel mondo che era casa per lei, divina, e per i morti. E dietro a lei, ancora una volta, verso quella stessa meta, si affannava Eracle, come un aspirante suicida, non come un eroe guerriero. Non doveva combattere la morte quanto catturare il desiderio di morte: e per ben mostrare la sua vittoria, riportare la sua preda viva.
Ci sono varie versioni per la cattura: o che avvenisse già nell’aldilà; o sulla soglia, mentre l’animale attraversava a nuoto il fiume di confine. Eracle l’afferrò, le legò le zampe e se le caricò sulle spalle. Poi intraprese il viaggio di ritorno. Dall’Istria a Micene. Tutto si era svolto come un inseguimento amoroso; simile a quelle galoppate di Zeus, sotto forma di toro o di altro animale, per acciuffare una vergine scontrosa; inseguimenti così furibondi e accesi da far tremate chi avesse a cuore l’incolumità della vergine come se fosse in palio la sua vita.
Fu così che, arrivato in Arcadia, l’inseguitore si trovò di fronte all’improvviso le due divinità fraterne, Apollo e Artemide, che gli rinfacciavano l’uccisione della sacra preda: Apollo già gliela voleva strappare, ché i morti sono cosa sua, e Artemide punirlo del misfatto, se Eracle non li disingannava, come bambini che han malinteso il senso della caccia: Ma è viva!, e gli mostrava il suo bottino indenne; e proseguiva, carico del suo trofeo, ormai privo di fascino perché strappato per sempre alla sua vocazione mortifera.
Ma era veramente un desiderio di morte quello che la cerva suscitava? O non piuttosto il desiderio puro, assoluto, che appare tremendo a chi vi si affaccia per la prima volta, perché trascina in una regione sconosciuta, nel proprio altrove, là dove non si sarà più se stessi, come nell’ebrietà, nel sogno, nell’ira; quel desiderio che Dioniso avrebbe chiamato divino, ma che per i devoti di Apollo significava soltanto rottura dell’equilibrio vitale? Di nuovo, di nuovo, Eracle, tornando vivo con la sua preda viva, aveva chiuso gli occhi affacciati sugli dei.
[Questo è il terzo di tredici racconti sulle dodici fatiche di Eracle e resto. E per dare altri numeri La cerva cornuta è incluso in una raccolta intitolata Le specie del sonno uscita nel millenovecentosettantacinque per i tipi di Franco Maria Ricci e riedita da Quodlibet nel millenovecentonovantotto. Nella prefazione Italo Calvino ha scritto Per i miti una prima volta non c’è mai stata; o ogni geroglifico si sovrappone la storia delle sue decifrazioni; è così che nel nostro confronto col mito, sia la sua immagine che la nostra immagine si moltiplicano come in una stanza foderata di specchi. E specchio sia, anche NI. La prima fatica di Eracle è qui, la seconda qui, l’opera in apice è di Damien Hirst.]
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la vita può essere bella: ti svegli di domenica mattina, spilucchi qualcosa e davanti al caffè leggi questo
“Ma era veramente un desiderio di morte quello che la cerva suscitava?.” o non era piuttosto quel ritrovarsi oltre la paura affannata in quel punto in cui ogni rumore e movimento scompare e si percepisce lo sguardo limpido il silenzio che precede un altro suono che poi non ti abbandona più e che senza quel silenzio non si può sentire. “I am here/ Or there, or elswhere. In my beginning.” T.S. Eliot è che dopo non sei più il vivente di prima e sai sempre un po’ di morte
Leggo questo: “La loro vita era chiusa in quei campi dove lei appariva quand’erano deserti, e i contadini serrati in casa spiavano dalle porte, e quando lei se ne andava, si illanguidivano dalla voglia di andarle dietro. La cerva non rappresentava altro pericolo che quello del desiderio. Il desiderio di andarsene. Anche per sempre.” e penso: Chi di noi può dire di non aver visto mai, nemmeno una volta, questa cerva fatale? Bisognerebbe non aver mai desiderato (né vissuto) per poter dichiarare un simile privilegio. Sarebbe una menzogna. Io stessa mentirei se non ammettessi d’essermi trovata spesso dietro quella porta a spiare e a desiderare. Storie come questa, che hanno il pregio di svelarti ciò che sei hanno la stessa bellezza fatale della cerva cornuta, e non si può – in nessun modo – smettere di guardare.
oggi, mentre aprivo nazioneindiana per farmi dare la direttiva politica della giornata [tant’è che ci ho (ri)trovato il pezzo di saviano], mi sono riletta la cerva cornuta e mi sono ricordata di Chi non ha il suo minotauro di yourcenar quando a un certo punto dice c’è qualcosa che preferirei a uccidere il minotauro, essere il monotauro. che è un po’ “tornare vivi con la preda viva” ed essere quindi preda e cacciatore insieme.
alla quarta fatica si mangia ;-)
…allora attendo la quarta fatica :-)
in qualcher modo anche la novella orientale della Yourcenar Nostra Signora delle rondini ha significati comuni