Combattenti per la pace: un viaggio in Palestina (prima parte)

Testo e fotografie di Lorenzo Bernini

Uno stencil di Banksy a Betlemme
Uno stencil di Banksy a Betlemme

Dove ti trovavi l’11 settembre 2001? Io ero a New York. Alle 8.46, quando il primo aereo si è schiantato contro la torre nord del World Trade Center, stavo facendo colazione. L’impatto ha fatto tremare i muri del mio appartamento. Ho visto il crollo delle torri dalla mia finestra, come immagino tu lo abbia visto dallo schermo della tua televisione. A poca distanza da me sono morte 2.974 persone, dicono le stime ufficiali, di 90 diverse nazionalità. Più i 19 dirottatori. Sono tanti 2.993 esseri umani. Mi ci è voluto un po’ di tempo per capire la differenza tra avere assistito alla loro fine trovandomi così vicino a loro piuttosto che guardando la tv – oltre ad aver avvertito la forza d’urto, oltre alla paura. Non dimenticherò mai New York nei giorni successivi: le veglie di preghiera in riva al fiume, i primi gadgets venduti agli angoli delle strade (le magliette e i cappellini con la scritta “America under attack”, la bandiera a stelle e strisce in tutti i formati che riesci a immaginare), e anche le prime manifestazioni pacifiste in Washington square. Ma soprattutto i parenti, gli amici, i mariti le mogli gli amanti che cercavano i propri cari, la città tappezzata di manifestini fotocopiati con i volti delle vittime disperse e i loro nomi: missing John, missing Judith, missing Abdul. Sono tanti 2.993 esseri umani, e trovarmi lì vicino a loro mi ha fatto sentire (che è diverso da “capire”) che ognuno e ognuna di questi 2.993 esseri umani è scomparso portando con sé il suo nome proprio, il suo corpo, il suo volto, lasciando a chi è rimasto un immenso, incolmabile vuoto. Anche quando si muore insieme a tanti altri, si muore uno per uno. E uno per uno si viene compianti dai propri cari.

Esistono poi celebrazioni collettive, ma solo per alcuni lutti, non per tutti. Così, se le vittime degli attentati dell’11 settembre sono state ampiamente ricordate dai mass media, troppe morti vengono accolte con indifferenza dall’opinione pubblica occidentale. Per cercare di sottrarmi a questa indifferenza, negli ultimi anni ho tentato, non solo nella mia attività accademica (si vedano, ad esempio su Nazione Indiana: Maschio e femmina Dio li creò e Luoghi di confino, linee di confine) ma anche attraverso l’esperienza diretta, di occuparmi di quelle linee di confine simbolica e materiale che ancora nel presente distinguono chi è riconosciuto pienamente umano (e quindi degno di pubblico lutto), da chi è bandito dalla piena umanità (e la cui morte passa quindi sotto silenzio). Per questa ragione ho intrapreso il viaggio tra i curdi di Istanbul e le visite ai campi rom di Milano e al centro di accoglienza per migranti di Lampedusa – ora di nuovo centro di identificazione ed espulsione – di cui, grazie a Jan Reister e a Giovanni Hänninen, ho lasciato tracce anche su Nazione Indiana. E per questa ragione ho partecipato quest’anno alla missione di pace in Palestina e Israele organizzata dall’Associazione per la pace di Luisa Morgantini, fondatrice della rete internazionale delle Donne in nero contro la guerra e la violenza e vicepresidente uscente del Parlamento europeo. Quanto segue è il mio punto di vista su quello che ho visto, su quello che ho udito dalle vive voci di chi, in una situazione di conflitto e di lutto che potrebbe sembrare rendere obbligatoria la scelta della violenza, sulla pulsione della vendetta ha fatto prevalere il desiderio della giustizia.

Mediatori di pace: Luisa Morgantini e Ibrahim Faltas, parroco di Gerusalemme.
Mediatori di pace: Luisa Morgantini e Ibrahim Faltas, parroco di Gerusalemme.

Foto: Nel 2002, nel corso della seconda intifada, Betlemme fu assediata dall’esercito israeliano, e 200 palestinesi si rifugiarono nella basilica della natività. L’esercito israeliano tentò di incendiare l’edificio. Faltas si distinse per la sua capacità di mediazione, e convinse i miliziani palestinesi alla resa ottenendo che fossero consegnati a forze internazionali anziché detenuti nelle carceri israeliane. cfr http://www.reteblu.org/

Prima del consolidarsi dello stato Moderno, prima dei massacri delle guerre di religione tra cattolici e protestanti del 1600, in Europa filosofi cristiani come Tommaso d’Aquino e Francisco de Vitoria, dimentichi del pacifismo radicale del messaggio evangelico, elaborarono teorie della “guerra giusta”, tese a giustificare la guerra quando è volta alla riparazione di un torto subito. Dopo la caduta del muro di Berlino il 9 novembre 1989, e con maggiore intensità dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, alcuni intellettuali americani, a partire da John Rawls e Michael Walzer, hanno riabilitato quest’antica tradizione per legittimare interventi di “polizia internazionale” quali la prima guerra del Golfo nel 1991, la guerra contro il terrorismo in Afghanistan, iniziata nel 2001, e persino la seconda guerra del Golfo iniziata nel 2003 (com’è noto, una guerra preventiva basata su pretesti). Oggi come allora, a quanto pare, c’è chi crede nell’esistenza di un unico ordine mondiale (impersonato allora dal Papa di Roma, e oggi garantito dall’ONU) e quindi nella possibilità di determinare con certezza chi ha ragione e chi ha torto nell’arena internazionale. Tale possibilità è a dire il vero piuttosto remota in un conflitto come quello arabo-israeliano dove, data la complessità degli eventi coinvolti, è molto facile per le parti in causa fare un uso strumentale della storia. Ma anche chi credesse nell’esistenza di un punto di vista neutrale sulla storia, e anche chi volesse accordare fiducia all’ONU come garante della giustizia internazionale (vorrei ricordarti che l’ONU è espressione dell’ordine mondiale stabilitosi dopo la seconda guerra mondiale e infatti i membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’ONU, l’organismo preposto a stabilire sanzioni contro gli Stati colpevoli di aggressione, sono le potenze vincitrici della seconda guerra mondiale), dovrebbe riconoscere l’inadeguatezza della teoria della guerra giusta nello scenario contemporaneo.

Infatti – anche se, mentre scrivevano, non esistevano strumenti di distruzione di massa e le guerre tra gli Stati europei non avevano la struttura asimmetrica che caratterizza le guerre contemporanee – i teorici della guerra giusta furono molto attenti a stabilire non solo criteri di legittimità della guerra (la riparazione di un torto subito), ma anche criteri di legalità: una reazione sproporzionata rispetto ai danni subiti, e in ogni caso il massacro di civili innocenti, la distruzione ingiustificata dei campi, l’avvelenamento delle acque rendevano, secondo loro, illegale la guerra, e quindi ingiusta anche se mossa da causa legittima. Anche chi ancora credesse nella possibilità di definire “giusta” una guerra, dovrebbe quindi tener conto del fatto che la maggior parte delle guerre combattute oggi dagli USA e dalle potenze occidentali, dato l’alto numero di vittime civili, sarebbero state considerate illegali dai filosofi cristiani della prima modernità – a prescindere dai pareri dell’ONU che, tra l’altro, com’è noto, sono sovente disattesi da chi è nella posizione di poterlo fare. E lo stesso giudizio sarebbe stato applicato anche alle pratiche di guerra, di embargo, di occupazione, di apartheid e di pulizia etnica perseguite dallo Stato di Israele sul proprio territorio e nei territori occupati della West Bank (Cisgiordania) e della Striscia di Gaza: le presunte ragioni dello Stato di Israele e del suo nuovo governo di destra non sarebbero state ritenute sufficienti a giustificare il suo operato che rende invivibile l’esistenza di uomini, donne e bambini palestinesi e pressoché impossibile una soluzione pacifica del conflitto. Allo stesso modo, naturalmente, in alcun modo sarebbero stati giustificati gli attentati suicidi e il lancio dei rudimentali missili Qassam sui civili israeliani da parte di organizzazioni armate palestinesi.

La sproporzione delle forze tra una popolazione occupata e male armata e una potenza occupante con uno degli eserciti meglio equipaggiati del mondo è comunque evidente: durante la seconda intifada (dal settembre 2000 al 2004, quando Hamas ha dichiarato la cessazione degli atti terroristici) sono morti circa 5.000 palestinesi e circa 1.000 israeliani. E soprattutto durante l’operazione Piombo fuso, tra il 27 dicembre 2008 e il 18 gennaio 2009, l’esercito israeliano, infierendo su una popolazione (di circa 1.400.000 persone) già affamata da due anni di rigido embargo, ha ucciso 1.417 palestinesi della Striscia di Gaza (la maggior parte dei quali civili, tra cui più di 400 bambini), distrutto 4.000 case e 1.500 tra fabbriche e laboratori artigiani. Le vittime israeliane sono state invece 13, di cui 3 civili. 1.430 morti in 22 giorni, quindi: uccisi insieme, uno per uno.

Di fronte a questo quadro, lascio ad altri la valutazione delle giustificazioni dell’una o dell’altra parte belligerante. La scelta dell’Associazione per la pace, che sottoscrivo pienamente, è invece di dare sostegno a chi, nella società civile palestinese e in quella israeliana, alle ragioni della guerra e della violenza ha preferito quelle della pace e della resistenza non violenta. Sono queste le voci che ho ascoltato, e che adesso ti vorrei riferire.

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Manifesti commemorativo di due “shuhada” (plurale di “shahid”, testimone, martire) a Hebron. Il titolo di “shahid” è attribuito dai palestinesi a tutti gli arabi che muoiono nel conflitto con Israele: civili, guerriglieri, “suicide bombers”.

La missione dell’Associazione per la pace avrebbe inizialmente dovuto svolgersi ad aprile nella Striscia di Gaza, ma le autorità israeliane consentono l’ingresso nella zona soltanto a pochi giornalisti e diplomatici. Più di una nave organizzata da reti di ONG ha tentato di violare l’embargo e di sbarcare nella Striscia per portare aiuti umanitari, ma le imbarcazioni sono state intercettate dalla flotta israeliana e i cooperanti arrestati – e in breve tempo rilasciati. Ad aprile Morgantini, allora vicepresidente del parlamento europeo, è riuscita a organizzare una visita a Gaza di una delegazione di parlamentari. Ci ha descritto scene di devastazione, e ci ha spiegato che non a caso i famosi tunnel che collegano la striscia di Gaza all’Egitto, da cui entrano clandestinamente beni di prima necessità, motorini, armi e anche l’esplosivo necessario alla fabbricazione dei razzi Qassam sono stati risparmiati dai bombardamenti. Servono a “calmierare la disperazione”, ha commentato Paola Caridi, socia fondatrice dell’associazione di giornalisti indipendenti Lettera 22 e autrice dei libri Arabi Invisibili e Hamas. Ma la disperazione di chi non è considerato pienamente umano, per quanto possa essere tatticamente “calmierata”, a quanto pare non deve essere mostrata più di tanto all’opinione pubblica internazionale: così la missione dell’Associazione per la pace nella Striscia di Gaza progettata per aprile non è stata possibile. Il nostro viaggio ha invece avuto luogo dal 17 al 24 luglio: in quaranta (un gruppo eterogeneo per genere, età, professione) guidati dall’energica Luisa e dalla sua gentilissima assistente Barbara Antonelli, abbiamo visitato alcune significative città israeliane e la West Bank, dove ci siamo scontrati con una realtà che nessuno di noi, per quanto ben informato, poteva immaginare.

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Ali M. Jiddah, ex terrorista e ora “guida alterativa” a Gerusalemme est.

A farci da guida a Gerusalemme est è stato Ali M. Jiddah, membro della comunità “afro-palestinese” di Israele: figlio di migranti sudanesi, come gli altri africani musulmani che vivono in Israele, si considera parte del popolo palestinese in virtù delle comuni discriminazioni riservate ai musulmani dallo Stato di Israele. Negli anni sessanta Jiddah entrò nel Fronte popolare di liberazione della Palestina, gruppo di ispirazione marxista-leninista poi confluito nell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, e nel 1968 fu tra gli esecutori di un attentato a Gerusalemme che ferì 9 israeliani, per cui ha in seguito scontato 17 anni di carcere. Pur non rinnegando il suo passato, oggi ha optato per una scelta di resistenza non-violenta, di cui la sua attività di “guida alternativa” di Gerusalemme è parte integrante. “Non mi sono mai divertito a mettere bombe: è stata una reazione all’ingiustizia – ci ha spiegato – essere nero a Gerusalemme significa essere costantemente vittima dei maltrattamenti dei coloni e dei soldati. Voglio un futuro diverso per i miei figli, vorrei che facessero gli avvocati, i dottori, e non che perdessero i migliori anni delle loro vite in galera. Perché questo sia possibile è importante che il mondo sappia che cosa succede qui”.

Ad Haifa Jafar Farah, direttore di Mosawa, The Advocacy Center for Arab Citizens of Israel, ci ha illustrato la vasta gamma di discriminazioni a cui sono sottoposti i cittadini arabi israeliani (circa 1.400.000 su un totale di 7.100.000 israeliani): ai profughi palestinesi è impedito il ritorno alle loro terre, pochi palestinesi scelgono di fare il servizio militare (che è invece obbligatorio per gli israeliani, 3 anni per gli uomini e 2 per le donne) e questo li penalizza nella ricerca del lavoro, il governo non costruisce servizi e infrastrutture nelle zone abitate dai palestinesi (ti garantisco ad esempio che le bellissime spiagge di Jisr az-Zarqua, l’unico vilaggio palestinese in territorio israeliano che si affaccia sul Mediterraneo, potrebbero diventare un’ambita zona turistica se solo fossero raggiungibili con l’autostrada), i maltrattamenti da parte di fanatici ebrei ortodossi, complici le forze dell’ordine, sono all’ordine del giorno. A giugno il nuovo parlamento ha discusso, e fortunatamente non approvato, una legge che intendeva punire con tre anni di reclusione chiunque celebri la Naqba (la “catastrofe” del popolo palestinese che coincise con la fondazione dello Stato di Israele nel 1948, quando circa l’80% dei palestinesi che abitavano i territori che sarebbero poi diventati Israele furono costretti all’esodo) e proprio nei giorni della nostra permanenza, ha approvato una legge che proibisce alle istituzioni pubbliche di finanziare qualsiasi organizzazione che celebri la Naqba e inoltre di nominare la Naqba nei testi scolastici. Segno evidente che la catastrofe non è mai finita.

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Jafar Farah, direttore di Mosawa, The Advocacy Center for Arab Citizens of Israel.

Allarmante, ad esempio, è la questione abitativa: le amministarazioni giudicano abusivi tutti gli edifici palestinesi costruiti prima della formazione dello Stato di Israele, tanto sotto la dominazione ottomana quanto sotto il mandato inglese, e non autorizza i palestinesi a costruire nuove case. Con questo pretesto le famiglie palestinesi vengono costrette ad abbandonare o addirittura a demolire le proprie case, e al loro posto si insediano solitamente famiglie di ebrei integralisti armati e scortati dall’esercito (per informazioni sugli sgomberi rimando ai seguenti siti: coalitionforjerusalem.blogspot.com/; www.icahd.org/; ww.standupforjerusalem.org/). Ad esempio Silwan, un intero quartiere di Gerusalemme edificato prima della Guerra dei sei giorni del 1967 su quello che gli israeliani presumono essere il sito della tomba di David, che conta 88 case e 1.500 abitanti, è attualmente sotto minaccia di sgombero: al suo posto sorgerà un “parco biblico”. Sotto sfratto sono anche gli abitanti di Sheikh Jarrah, altro quartiere di Gerusalemme abitato da 28 famiglie (500 persone) di profughi del 1948 che si sono insediate nella zona nel 1956, su autorizzazione dell’amministrazione giordana. Nonostante queste famiglie posseggano regolari atti di proprietà, un gruppo di coloni ha iniziato a reclamare le loro abitazioni in base a documenti falsificati che i tribunali isaraeliani hanno ritenuto validi.

Una donna sfrattata il 16 luglio 2008, Um Kamel, è diventata il simbolo della protesta: da più di un anno vive in una tenda vicina alla sua casa, protetta dai volontari dell’International Solidarity Movement. Siamo andati a trovarla sotto la sua tenda, dove ci ha accolto assieme alle famiglie Hanoun e Al Ghawi, entrambe sotto sfratto. Con la dignità di una regina, senza abbandonarsi ad alcuna commiserazione, ci ha raccontato i soprusi che ha dovuto subire dai coloni israeliani quando ancora aveva una casa: l’immondizia gettata dalle finestre, i pavimenti inondati di liquame, una pistola provocatoriamente lasciata sull’uscio… Poco pù di una settimana dopo il nostro ritorno in Italia, all’alba del 2 agosto, lo sfratto è stato eseguito: le famiglie Hanoun e Al Ghawi sono state evacuate con la forza, e al loro posto si sono insediate due famiglie di coloni, protette dalle forze dell’ordine israeliane. Due palestinesi e 11 volontari internazionali sono stati arrestati, la tenda di Um Kamel è stata spianata da un bulldozer.

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Um Kamel e Nasser Al Arhawi sotto la tenda a Sheikh Jarra

Maltrattamenti come questi sono purtroppo all’ordine del giorno anche in West Bank, territorio occupato militarmente da Israele, assieme alla Striscia di Gaza, durante la guerra dei sei giorni. Come ci ha spiegato Ray Dolphin, responsabile dell’OCHA, l’ufficio dell’ONU per le questioni umanitarie nei territori occupati, in West Bank vivono 2.350.000 palestinesi e 462.000 coloni israeliani protetti da un ampio numero di militari. Recentemente, in seguito alle pressioni del presidente Americano Barack Obama, il premier israeliano Banjamin Netanyahu ha promesso che interverrà sugli insediamenti illegali in West bank, intendendo con questa espressione gli outpost di nuova formazione, costituiti da camper e roulotte o container, ma in realtà per il diritto internazionale tutti i 149 insediamenti israeliani (a cui si aggiungono 48 basi militari) in West Bank sono illegali, atti di colonizzazione operati da una potenza occupante su un territorio occupato. La maggior parte dei coloni sono religiosi integralisti che si sentono legittimati dalla Bibbia ai peggiori comportamenti nei confronti della popolazione palestinese che, a loro avviso, semplicemente non ha diritto di vivere nella terra di Israele. Il loro leit-motiv è: “Questa è l’unica terra assegnata da Dio al popolo di Israele, i palestinesi hanno 22 Stati arabi dove andare”. Ma a dire il vero fino ad ora gli Stati arabi hanno dimostrato di strumentalizzare la questione palestinese più che di preoccuparsi davvero delle condizioni in cui versa il popolo palestinese, e in ogni caso i palestinesi preferiscono continuare a vivere nelle proprie case piuttosto che in un campo profughi in uno dei “22 Stati arabi dove possono andare”.

Inizialmente i coloni costruiscono abitazioni di fortuna, solitamente sulla cima delle colline da cui possono controllare meglio le valli. Questi outpost in breve tempo vengono riforniti di elettricità, acqua e gas, e poi si espandono: ai container si sostituiscono gradualmente case a un piano, poi a due e tre piani, fino all’edificazione di ampi agglomerati abitativi. Gli accordi di Oslo del 1993, dividendo la West Bank in zone controllate dall’Autorità Nazionale Palestinese e in zone (corrispondenti agli insediamenti) controllate dal’esercito israeliano, ha aperto la strada alla realizzazione dei checkpoint interni alla West Bank. La costruzione della “barriera”, cioè del muro di separazione, iniziata nel 2002 con lo scopo uffciale di “proteggere” la popolazione israeliana dagli attentati suicidi dei palestinesi, ha peggiorato la situazione. Secondo Ray Dolphin “il problema non è tanto il muro, quanto il suo percorso, che non coincide con i confini del 1967, e che per l’86% è costruito all’interno della West Bank. A Gerusalemme il muro penetra in West Bank per 14 km, più a nord per 25 km: la barriera traccia nuovi confini che di fatto annettono il 10% della West Bank a Israele”. Naturalmente a essere annesse a Israele sono le terre più fertili e quelle dotate di risorse idriche. A essere protetta dal muro è anche la rete autostradale, dove possono correre solo le auto israeliane con la targa gialla e non quelle palestinesi con la targa verde (l’infrazione è punita con sei mesi di reclusione). Il muro e i circa 90 checkpoint in West Bank sono in realtà una barriera eretta contro la dignità umana dei palestinesi e contro la loro sopravvivenza. I checkpoint rendono infatti difficile ogni spostamento e danneggiano la già fragile economia palestinese. ll muro separa gli agricoltori dalle loro terre, gli studenti dalle scuole e dalle università, l’intera popolazione da ospedali e da servizi sanitari: in seguito alla costruzione della “barriera”, decine di donne hanno perso i loro bambini durante il parto o sono morte di parto perché il travaglio “non ha rispettato” gli orari stabiliti per il varco dei checkpoint.

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La protesta degli abitanti di Silvan.

Un caso esemplare è il distretto di Hebron. Come Gerusalemme, anche Hebron è divisa in due. Un tempo vitale centro di commercio nel sud della West Bank, ora è ridotta a una città-fantasma: alcune strade sono state interrotte da cancelli, blocchi di cemento e checkpoint (per un numero complessivo di 101 sbarramenti), in altre strade è stato proibito ogni accesso ai palestinesi. Tutto è iniziato poco dopo la guerra dei sei giorni, quando un manipolo di ebrei ortodossi si introdusse nella città fingendo di essere un gruppo di turisti. I coloni fondarono un primo insediamento a Kyriat Arba, appena fuori Hebron. Poi arrivarono i rinforzi, che con la consueta violenza occuparono cinque edifici all’interno della città. In seguito agli accordi di Oslo, la città è stata ufficialmente divisa in due zone, denominate H1 (la Hebron palestinese) e H2 (la Hebron ebraica), ma non per questo la violenza è finita.

Nel 1994 Baruch Goldstein, ebreo di origine americana, aprì il fuoco su una folla di fedeli musulmani inginocchiati in preghiera nella moschea di Ibrahim: riuscì a uccidere 29 persone e a ferirne 150 prima di essere a sua volta ucciso dalla folla superstite. La sua tomba a Kyriat Arba, su cui si legge “Il santo Baruch Goldstein, che ha dato la vita per il popolo ebraico, la Torah e la nazione di Israele” è oggi luogo di pellegrinaggi. Attualmente vivono a Hebron 220.000 palestinesi, 400 coloni ebrei e circa 1.300 militari israeliani, la cui presenza salta subito all’occhio: sui tetti delle case sono disseminate numerose postazioni di guardia. Sentendosi ben “protetti”, non di rado i coloni sfilano per la città brandendo armi e intonando canzoni antiarabe, lanciano uova contro i pullman di turisti, pietre e immondizia contro i palestinesi.

Dal 2000 al 2003 Hebron è stata uno dei centri della seconda intifada: ha subito 583 giorni di coprifuoco, e la chiusura per ordine miitare di 500 negozi. In seguito altri 1.141 negozi hanno chiuso per fallimento. Come a Gerusalemme est, i pochi esercizi commerciali rimasti si proteggono dai frequenti lanci di oggetti contundenti dai tetti delle case con reti metalliche che ricoprono i vicoli da parte a parte. In tale situazione, una delle forme che ha assunto la “resistenza non violenta” palestinese è l’Hebron Rehabilitation Committee. Si tratta di un’associazione finanziata da aiuti internazionali, fondata nel 1996 allo scopo di preservare l’identità culturale della città, a partire dal restauro della città vecchia, dei suoi mercati e della sue infrastrutture. “Resistenza non violenta” significa infatti, per i palestinesi, innanzitutto sfidare i coloni e l’esercito occupante tentando un ritorno a una vita “normale”.

Un altro significativo esempio di resistenza non violenta è rappresentato dal movimento dei pastori, delle donne e dei bambini delle colline a Sud di Hebron. Abbiamo incontrato Hafez Hurain, che ne è il portavoce, nel villaggio di At-Tuwani, un piccolo centro abitato da 300 pastori, circondato da tre insediamenti ebraici e situato in una zona che, per gli accordi di Oslo, è interamente amministrata dalle autorità israeliane. Ad At-Tuwani l’elettricità è presente tre ore al giorno, grazie a un generatore (il 30 luglio, pochi giorni dopo la nostra visita, l’esercito israeliano ha dato ordine di fermare i lavori di costruzione dei pali della luce), e le riserve d’acqua sono molto scarse, mentre i vicini insediamenti godono di ogni confort. Ma oltre al peso di questa ingiustizia, il villaggio patisce varie forme di violenza: i coloni inquinano le acque gettando polli morti nelle cisterne, avvelenano i pascoli, sgozzano il bestiame e, come se non bastasse, lanciano pietre contro i bambini dei villaggi vicini quando tentano di raggiungere la scuola di At-Tuwani, l’unica scuola della zona.

Il movimento non violento dei pastori, delle donne e dei bambini delle colline a Sud di Hebron invita le famiglie del villaggio a non abbandonare la terra, a continuare a pascolare il proprio bestiame, a continuare a mandare i bambini a scuola. Il lavoro più difficile, ci ha spiegato Hurain, è convincere i giovani della superiorità non solo etica ma anche pragmatica della scelta non violenta: “Cerco di far capire loro che di fronte ai coloni armati e alle forze dell’esercito israeliano rispondere alla violenza con la violenza è la reazione più facile, ma anche la meno utile. Se tutte le malefatte dei coloni restano impunite in nome di un pretestuoso diritto di autodifesa, per il lancio di una pietra un ragazzo palestinese rischia anni e anni di carcere, e ancor prima la propria vita”. (Parole simili ci sono state dette anche a Nablus dai volontari dell’associazione Human Supporters che tra le altre cose organizza campi-gioco estivi per bambini: “Quando i bambini tirano pietre contro l’esercito non compiono un’azione politica, ma cercano di esprimere qualcosa. Noi cerchiamo di ascoltarli e di parlare con loro: cerchiamo di far capire loro che il lancio delle pietre li porta solo alla prigione, o alla morte”).

Anziché lanciare pietre, il movimento nonviolento risponde a ogni ordine di sgombero o di demolizione con manifestazione pacifiche, con preghiere e canti. Particolarmente preziosa è stata la collaborazione con organizzazioni pacifiste israeliane che hanno fornito assistenza legale gratuita, e soprattutto con il movimento internazionale Christian Peacemaker Teams e con i volontari di Operazione Colomba, che hanno organizzato un presidio permanente nel villaggio e che ogni giorno accompagnano i bambini a scuola e i pastori ai pascoli. “Purtroppo – ci hanno spiegato – da queste parti le vite degli esseri umani non hanno lo stesso valore. Come insegna il tragico caso di Rachel Corrie, soltanto quando i coloni o l’esercito mettono in pericolo la vita di un volontario occidentale, l’opinione pubblica mondiale si mobilita, e allora persino il parlamento israeliano deve tenerne conto”. Dopo il ferimento di un volontario ad opera dei coloni, infatti, su pressioni della Corte israeliana per i diritti dell’infanzia, il parlamento ha deliberato che ogni giorno i militari israeliani scortino i bambini all’andata e al ritorno da scuola. Non per questo il lavoro dei volontari di Operazione Colomba è terminato: non solo perché i soprusi dei coloni proseguono, ma anche perché occorre vigilare sugli stessi militari, che talvolta spintonano e maltrattano i bambini.

Il muro di Betlemme
Il muro di Betlemme
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un'altra immagine del muro di Betlemme
un checkpoint di ingresso a Gerusalemme
un checkpoint di ingresso a Gerusalemme

Continua marted’ 15 settembre.

L’autore:

Le pecore e il pastore – Critica, politica, etica nel pensiero di Michel FoucaultLiguori editore
La decostruzione filosofica del binarismo sessuale. Dal Freudomarxismo alle teorie transgenderebook via Google books
Differenza e relazione L’ontologia dell’umano nel pensiero di Adriana Cavarero e Judith Butler Ombrecorte editore
Intervista: Io gay vi racconto Milano Arcigay
Intervista: riforma Gelmini dell’Università C6 TV
Conversazione #23: Romeo in Love – Il podcast sulla cultura gay, lesbica, bisessuale e transessuale (GLBT*)

om’è noto, sono sovente disattesi

7 COMMENTS

  1. Sono stato due volte in quella Terra, al centro del mondo. Anch’io ho trovato la colomba col mirino, insieme a molti altri disegni su quel muro…
    Ho incontrato Padre Ibrhaim e tanti altri che come lui ci credono.
    Una volta che si è passati là, non si può non ritornare e non si può dimenticare.
    Un saluto, Daniele.

  2. Lorenzo, questo tuo lavoro mi appassiona. Leggerti è ascoltarti: sento la rabbia, il disgusto, la dolcezza nel raccontare storie raccapricccianti e la semplicità di chi comunque non si arrende.Continuerò a seguire le tue Storie frutto di ricerche laboriose. Ti ringrazio che mi hai dato questa possibilità .

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jan reister
jan reisterhttps://www.nazioneindiana.com/author/jan-reister
Sono responsabile del progetto web di Nazione Indiana. Mi interessa parlare di: privacy, anonimato, libertà di espressione e sicurezza; open source, software e reti; diritti civili e democrazia; editoria digitale ed ebook; alpinismo e montagna. Collaboro (o collaboravo) come volontario ai progetti: Tor. anonimato in rete come traduttore per l'italiano; Winston Smith scolleghiamo il Grande Fratello; OneSwarm privacy preserving p2p data sharing - come traduttore per l'italiano; alfabeta2- rivista di interento culturale per l'edizione web ed ebook. Per contatti, la mia chiave PGP. Qui sotto trovi gli articoli (miei e altrui) che ho pubblicato su Nazione Indiana.