Limbo mobile

di Ugo Coppari


L’amore tre puttane e la bigiotteria sotto la sabbia

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Quando l’amore si fa vivo non puoi farci niente. L’unico amore che può servirti è quello morto e opacizzato, che non sogna i cavalli bianchi.

Alfonso non sa andare a cavallo, ma si è innamorato di Stefania. Me l’ha confidato l’altro giorno al mare, mentre Bino cercava le cose sotto la sabbia col metal detector. Siccome aveva le cuffie alle orecchie non ascoltava i nostri discorsi. Eravamo io, Bino e Alfonso. Camminavamo dove la sabbia è più asciutta, dove le persone si perdono gli oggetti prima che il mare se li porti via. E allora Alfonso comincia a dire che Stefania è la sua unica ragione di vita, l’unico motivo per andare avanti. E che senza di lei la vita non avrebbe più significato. Ho chiesto ad Alfonso di andare a prendermi una birra, ché nel frattempo avrei fatto un giro col suo metal detector.

Così Bino accompagna Alfonso al bar sulla litoranea. Il cielo era luminoso, il sole pieno e bello, delle nuvole non mi sono neanche accorto. Ricordo soltanto che la sabbia coceva, che era bianca e che alle mie spalle la montagna frastagliata mi ossigenava con le sue piante verdi appiccicate in faccia. E poi non c’era nessun altro. Io tenevo le cuffie alle orecchie, in attesa che segnalassero acusticamente la presenza di qualche oggetto sotto la sabbia. Scrutavo l’orizzonte, sensazione già vista e rivista. Ma ora che adoperavo un metal detector avevo una sorta di senso ulteriore, venivo cioè avvisato di qualcosa che non potevo vedere, né ascoltare, né toccare, né odorare, né assaggiare. M’indicava la presenza e la posizione di quanto era nascosto nel mondo. E allora mi sono chiesto quante cose riposino sotto il mare e quante ne potremmo ancora scoprire. Ma lì sotto il metal detector non ci arriva, né ti può aiutare. Per vedere cosa c’è sotto il mare ti ci devi immergere e dopo un po’ respiri a fatica.

Quando Alfonso ritorna in spiaggia gli dico che secondo me stava per affogare e che avrebbe dovuto tornarsene a riva. Mi chiede cosa significhi e allora gli lancio uno schiaffo, per spiegargli cosa significhi essere un metal detector. Ché se mi avesse inteso non ci sarebbe stato bisogno dello schiaffo, né di Stefania.

Così andiamo a cena da Mario, ché stasera cucina linguine ai frutti di mare. Bino Alfonso Mario e io seduti allo stesso tavolo, con una tovaglia squallida a scacchi rossi, ché tanto i clienti non ci sono. E’ lunedì sera e si sbiascica noia, la bocca s’impasta. Prendiamo il giornale e chiamiamo tre puttane, che poi sono Lorenza, Monica e Luisa. Loro sono molto gentili con noi, perché ci fanno ballare fino al termine della notte. E prima di andare via gli regaliamo tutta la bigiotteria che abbiamo trovato sotto la sabbia.

Ci sono le cose emerse e le cose che vivono nel buio. Tutto dipende da come respiri, non puoi farci niente.

Carlotta e la ruspa lungo il fiume bianco

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A volte piove. Ad esempio oggi ha piovuto e non sapendo cosa fare ho deciso di andare al fiume con Carlotta. Carlotta ha un problema alle mani. Ha il terrore che possano restarle asciutte, quindi le inumidisce incessantemente. Se le passi qualcosa teme che non possa più disfarsene, preferisce che le cose le scivolino addosso o attraverso.

Il fiume bianco separa il mio paesino dal resto del mondo. Il mio paesino è un mucchio di case cubiche, con le pareti bianchissime e i tetti neri, abitato da alcune centinaia di persone. Viviamo all’interno di un triangolo rettangolo. A nord-est corre l’ipotenusa, lungo la quale si sviluppa la grande montagna, che è verde e mozzata da uno strapiombo. A sud c’è il cateto maggiore, ovvero il fiume bianco, che parte da non si sa dove. Il cateto minore a ovest è blu, cioè l’orlo del mare.

Un giorno mentre sbattevo il tuorlo per fare lo zabaione ero talmente stanco che ho cominciato a girare su me stesso, fino a levitare. Ho attraversato la bocca del camino che si apre in cucina, poi ruotando rapidamente le braccia a mulino ho preso quota e mi sono bloccato a mezz’aria, a un’altezza indistinta. Allora, guardando il Mondo dall’alto, ho capito che il mio paese può essere suddiviso in pochi colori. I tetti neri stanno al centro, addensati in un rombo sghembo. A est, un fazzoletto di terra marrone che si sviluppa nell’angolo tra il fiume e la montagna; poi c’è il giallo della spiaggia, striscia di preludio al mare. E infine alcune strisce d’asfalto grigie che tagliano la tela. Manca il rosso, anche perché qui nessuno riesce mai a fare di testa propria.

Infine c’è un ponte, che a metà del cateto più lungo si inarca per unire le due sponde del fiume. Il ponte è di legno, scricchiola al passaggio ed è così basso da costituire un valido deterrente per la pratica del suicidio. Viviamo all’ombra di una montagna e ai margini di un fiume. Accerchiati dalla Natura che ci spinge verso il delirio, perdendo l’orientamento in quell’insieme aperto che è il mare.

Spesso Carlotta e io andiamo a passeggiare lungo il cateto maggiore del nostro triangolo e quando raggiungiamo l’angolo estremo di levante ci fermiamo. Riparandomi sotto una tettoia di alluminio ondulato mi soffermo a fumare mentre lei se ne sta in mezzo al fiume. In mezzo al fiume c’è un tronco che con il tempo è diventato molto elastico. Un’estremità si è impuntata nel letto profondo del fiume e fuoriesce dalla superficie dell’acqua quel tanto che basta per camminarci sopra senza bagnarsi. E’ sufficiente un minimo slancio per saltarci sopra prendendo la rincorsa dalla riva, e con qualche passo puoi raggiungerne il punto più alto, che ondeggia sopra al fiume. Il fiume bianco sembra latte e ha una larghezza di venti metri. Me l’ha detto Susanna, che vende le arachidi in piazza.

In questa fredda stagione il bianco del fiume diventa un tutt’uno con la nebbia. Neanche si vede più la sponda opposta, che sembra perdersi in uno strapiombo bianco, che però si sviluppa orizzontalmente. Questa visione suscita in noi un forte disagio, interrogando a fondo la nostra immaginazione. A volte dal fondo di questo sterminato strapiombo fuoriescono uccellacci neri che risaltano nel biancore generale e che dopo aver compiuto una rapida virata sopra le nostre teste se ne ritornano indietro. Abbiamo anche provato a dargli da mangiare, ma questi atterrano soltanto per mangiare le carogne dei gatti schiacciati dalle ruspe.

La prima volta che ho visto una ruspa ero con Carlotta, seduta a cavalcioni sul solito tronco, eretto come un fallo tra le sue cosce magre. Se lo massaggiava e non appena sentiva le mani prenderle fuoco, si allungava quel tanto che bastava per bagnarle nel latte gelido del fiume. Mentre fingeva abilmente di masturbarsi mi fissava con lo sguardo assorto e indecifrabile mentre io rimanevo pietrificato e impassibile: come Dio, come le avevo promesso un giorno di primavera, sotto un ciliegio appena fiorito. Eravamo ancora imberbi quando mi chiese dove fosse Dio, dove scorgerne le fattezze. E le risposi che Dio si sarebbe manifestato solamente nell’Uomo libero dai turbamenti della carne. Fingemmo di crederci entrambi, ma non per molto: una promessa alla quale trasgredimmo di comune accordo e piacere.

Mi ricordo che era mercoledì pomeriggio e io aspiravo avidamente il fumo dalla sigaretta. Eravamo completamente soli, anche perché erano le 2. Io sotto la tettoia a fumare, Carlotta che si masturbava con il tronco e il fiume che portava via il frutto dell’eiaculazione. Carlotta mi fissava sorridente perché sapeva che sarei rimasto come Dio, perché in fondo puoi sfregare tranquillamente le chiappe contro un muro finché la sua superficie rimane piatta. A un tratto Carlotta spalanca la bocca e con un cenno del capo mi chiede a cosa stessi pensando. Non riuscivamo a parlare, tanto era fragoroso il moto impetuoso dell’acqua, il cui borbottio copriva le nostre voci. Aveva piovuto parecchio, il fiume si era gonfiato. Come i miei occhi. Che cosa avevo visto?

Dallo sfondo bianco emerge un oggetto apparentemente animato, giallo e nero ed enorme. Subito mi sono reso conto che non poteva essere una bestia. Ciò che più m’impressionava era vedere una tale massa muoversi così silenziosamente, ché l’acqua assorbiva ogni rumore. A un certo punto Carlotta si voltò verso di me, comprendendo il mio stato d’animo. La ruspa stava per attraversare il fiume, con la carcassa gialla, le ruote nere e i vetri della cabina di guida sporchi di fango. Quel meraviglioso mostro meccanico attraversava agilmente il fiume bianco, lasciandoci intuire la scarsa profondità delle acque, sulla cui pericolosità, al contrario, avevamo fantasticato sin da ragazzini. Quella ruspa ci disse che il nostro fiume bianco era un ruscello di merda, poco profondo e per nulla pericoloso. Tale profondità era stata da sempre considerata un comodo ostacolo per non inoltrarsi nel mondo, limitandoci alla comprensione delle logiche del nostro piccolo triangolo, tra il verde e il bianco e il blu.

Il fiume non era più un ostacolo, il Mondo si apriva a noi. Ma io continuavo a fumare. E quando Carlotta si volta e con un rapido gesto della mano mi chiede se voglio tornarmene a casa, io rispondo “Sì, torniamocene a casa!”.

Quella sera non abbiamo più parlato del fiume bianco, né della ruspa e nemmeno dell’uomo senza volto che la guidava. E neanche del resto del Mondo. Abbiamo semplicemente deciso di starcene seduti sul comodo divano a casa di Bino, in attesa di trasgredire per l’ennesima volta la nostra scommessa su Dio. Quando Bino tornò a casa dal lavoro era piuttosto tardi. E allora abbiamo deciso di salutarci tutti quanti con una sobria stretta di mano. Il giallo della ruspa e il bianco del fiume erano oramai tutti neri, perché era notte. Per giunta Carlotta mi aveva rubato le sigarette.

Lo sguardo delle suore dopo il blackout

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Oggi il cielo è bianco, non c’è spazio per la forma. Quando il cielo è bianco cerco di saturare quel vuoto con il cibo. Mi prende fame, non posso farci niente. Allora sono andato a fare la spesa al supermercato, perché al supermercato il cibo è confezionato e già pronto all’uso.

Reparto verdure. Osservo i peperoni, che sono abbozzati, poi le arance che sono tonde, poi le carote che solitamente crescono sotto terra. Poi alzo ancora lo sguardo e vedo una tonaca nera. Quando giro lo sguardo ne vedo anche un’altra. Poi alzando la mira vedo due strisce di stoffa bianca cingere spalle minute. Alzo ancora gli occhi e vedo il volto di due suore. Le suore sono suore dallo sguardo, da cui trapela un estenuante senso di colpa derivante dalla possibilità di fare della vista l’uso che preferiscono. In virtù di tale complesso tengono gli occhi sempre spenti, ché se fossero accesi costituirebbero di per sé un pretesto peccaminoso. Allora mi sono chiesto quale criterio adottassero per scegliere il cibo da mangiare. Ché io ad esempio mi lascio attirare dalle forme, perché posso saziare gli occhi ancor prima di aprire bocca. Ad esempio i carciofi sono buoni a vedersi, in virtù della loro complessità estetica.

Poi invece c’è la fame, che è un’altra cosa. Per debellare la fame c’è bisogno di materia solida, a prescindere dalla forma. E allora le suore maneggiavano le patate, molte patate. Con cui ci si possono fare molte cose e che ingombrano a sufficienza lo stomaco. Le mele possono volgarmente rimandare alla leggenda del peccato originale, le zucchine al serpente stesso, che ha la lingua lunga e una volta entrata dentro può dar piacere o divorare le viscere.

Ma è come se dovessimo fare sesso soltanto per riprodurci, solo per il mantenimento della specie. Come se dovessimo mangiare soltanto patate. A un certo punto una delle commesse ha preso il microfono e ci ha parlato dentro. Dagli altoparlanti ci avvertivano che da lì a poco sarebbe venuta a mancare la corrente elettrica per alcuni minuti. Così mi sono affrettato a pensare a cosa desiderassi realmente, cosa dovessi acquistare. Perché infatti quando è saltata la luce tutte le verdure e la frutta e i prodotti ammassati negli scaffali hanno perso il loro valore estetico. La riduzione della loro lucentezza e della conseguente appetibilità visiva risaltava così la loro funzionalità fisiologica. La carota, la mela e il pomodoro non erano più soltanto arancione, verde e rosso: erano cibi sostanziali e nutrienti. La luce rende il pomodoro simile all’idea che abbiamo del pomodoro. Mentre le patate sono sempre patate, perché sono tristi anche con la luce.

Al venire meno della luce, come nel corso di un’eclissi solare, ci siamo guardati attorno, nel tentativo di capire cosa stesse accadendo. Sapevamo di trovarci lì per il cibo, ma senza luce non avevamo più fame. Anche le suore apparivano confuse, come se la loro mondanità e la loro tendenza iconofila, venissero rimarcate dagli altoparlanti. Le patate erano pur sempre patate, con o senza la luce, e invece le suore hanno arrestato la propria ricerca, la propria spesa: ché con Dio è la stessa cosa, anche se non rilascia lo scontrino.

Io avevo fame di luce, ché senza sarebbe stato tutto inutile, tutto ugualmente giustificabile. Senza luce il pomodoro non è più pomodoro, ma una variante del pomodoro e in questo modo crollano i ponti tra le cose e la loro idea.

Quando è ritornata la corrente abbiamo ripreso le nostre compere, risvegliati dal sogno lucido in cui eravamo caduti. Avevamo visto i cadaveri delle idee, ma al contempo avevamo deciso di disinteressarcene. Le suore erano mie simili, ora non avevo più fame. Una volta tornato a casa ho cominciato ad abbattere tutti i ponti che attraversavo con la mente. La dinamite ce l’avevo già: il buio.

da Limbo mobile / Ugo Coppari. Morlacchi, 2009

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Ugo Coppari è membro del Comitato Artistico P-gruppe, momento di ricerca e produzione artistica. Ideatore del progetto onirico-letterario “Scrittori in stand-by”, nel 2005/2006 ha diretto la rete nazionale Uominiluna. Presso Morlacchi Editore sono stati pubblicati “Bim bum bam!” (2006) e “Nove anoressiche” (2007). Attualmente vive e lavora a Perugia.

2 COMMENTS

  1. Il primo racconto mi sembra nascondere il gioiello dell’amore. Il mare è il luogo “dove le persone perdono gli oggetti dell’amore.” Siamo come Bino a rastrellare la sabbia con il metal detector. Siamo davanti agli oggetti abbandonati, e forse nel più arrugginito amore, brilla ancora la speranza di essere amato.

    Il secondo racconto mi è piaciuto, per la scrittura armonizzata alla vita del corpo, alla giovinezza, alla precisione del movimento di un corpo con un tronco, nell’abbandono al mondo e alla sensualità.

    Il terzo racconto mi sembra invece una celebrazione della vita austera, e il pomodoro con il colore rosso, un punto di vergogna, forse un cibo offerto allo sguardo, promettente, un colore di vestito che inganna.

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domenico pinto
domenico pintohttps://www.nazioneindiana.com/
Domenico Pinto (1976). È traduttore. Collabora alle pagine di «Alias» e «L'Indice». Si occupa di letteratura tedesca contemporanea. Cura questa collana.