La Lettera del Veggente
[Arthur Rimbaud nacque il 20 ottobre di centocinquantacinque anni fa. Volentieri pubblico un contributo di Mauro Baldrati alla conoscenza di questa straordinaria meteora, vero annuncio della modernità. a.s.]
di Mauro Baldrati
La Lettera del Veggente porta la data del 15 maggio 1871, era indirizzata al poeta Paul Demeny, amico di Georges Izambard, una figura importante nella vita e nella formazione di Arthur Rimbaud: giovane professore del Ginnasio, intellettuale repubblicano e laico (e per questo particolarmente odiato dalla madre, una donna dura, bigotta, dalla quale Rimbaud non riuscì mai a separarsi veramente) lo iniziò alle letture dei romantici e dei parnassiani.
Rimbaud aveva 16 anni e sette mesi, l’età, come aveva scritto un anno prima a Théodore de Banville, “delle speranze e delle chimere”. In realtà era un’età virtuale, perché nella lettera a Banville mentiva, si presentava come diciassettenne, in realtà non aveva ancora compiuto i 16. Ma Rimbaud era avanti, sempre avanti, bruciava in fretta la vita e il tempo, proprio come quella candela accesa da entrambi i lati immortalata in Blade Runner.
Era reduce dalla sua terza fuga a Parigi, in cerca di fortuna, di un rifugio dall’inferno-delizia di Charleville, la cittadina delle Ardenne dove, come scriveva a Izambard un anno prima, “muoio, mi decompongo nella scipitaggine, nella meschinità, nel grigiore” (ma, scriverà due anni dopo a Delahaye, “rimpiango l’atroce Charlestown”).
Il 18 marzo a Parigi aveva preso il potere La Comune, alla quale Rimbaud si sentiva di aderire totalmente (aveva anche scritto un abbozzo di Costituzione Comunista), quella società rivoluzionaria e democratica che finalmente potesse spazzare via tutti i bigotti, i tronfi borghesi, i falsi poeti, oggetti del dileggio, del sarcasmo feroce e aggressivo di tante poesie. E proprio alla lettera erano allegati tre testi: Il Canto di guerra Parigino, dedicato alla Comune e alla violenta repressione da poco sferrata dai versagliesi; Le mie dolci fanciulle innamorate, considerata un’ode alla misoginia, ritmata da un ritmo frenetico, rabbioso, quasi antipoetico. Secondo S. Bernard questa poesia fu scritta probabilmente in seguito a una delusione amorosa, invece secondo Ivos Margoni, che ha curato l’opera completa, sarebbe una presa di coscienza della propria tendenza omosessuale. Comunque sia, colpisce il tono sarcastico, apparentemente antifemminile (“O mia racchiona blu!”), contrapposto all’aperto femminismo della Lettera: “Quando sarà spezzata l’infinità schiavitù della donna, quando ella vivrà per sé e grazie a sé”. La terza poesia, “un canto pio”, L’Accovacciato, è la lapidazione grottesca di quel bonhomme pigro, vile, meschino e subumano che rappresentava la quintessenza del suo disprezzo.
Quindi il sedicenne Rimbaud, all’apice della sua rabbia di adolescente ribelle, sta vergando velocemente, nervosamente, come suo solito, un documento che sarà considerato il primo, vero manifesto di una nuova letteratura d’avanguardia. In questo testo il nuovo viene contrapposto al vecchio, attraverso un processo di ricerca, oscuro, devastante, che farà del Poeta un “veggente”, un “orribile lavoratore” che punta all’ignoto, verso orizzonti sconosciuti, dove la poesia non ritmerà più l’azione, ma la supererà.
“Io dico che bisogna essere veggente (…), mediante un lungo, immenso e ragionato sregolamento di tutti i sensi.”
Sono state fatte innumerevoli letture di questo passo. Per alcuni è una proiezione biografica di Rimbaud, della sua continua ricerca per liberare la mente; ed è stato letto in chiave autodistruttiva, come in parte autodistruttivo sarà il percorso del suo autore, che culminerà a Londra con l’amico e compagno Verlaine a sperimentare droghe, alcol, vita miserabile, e che fu oggetto di identificazione per esempio da Jim Morison, durante la sua breve vita. Sono state individuate componenti mistiche, di occultismo, demoniache, di derivazione romantica e baudelairiana. Eppure sono altre le letture possibili. Nella Lettera del Veggente Rimbaud insegue soprattutto una nuova poetica, e un nuovo stile. Lo scrive, con parole più semplici, in una lettera di due giorni prima a Georges Izambard, quando parla di “poesia oggettiva”. E’ un punto importante, rivela la concezione del poeta-lavoratore che crede nel progresso, nel futuro, nella liberazione materiale del popolo, dei “gaglioffi” della Comune (“in questo momento mi ingaglioffo il più possibile” scrive a Izambard). Il Veggente quindi non è solo il navigatore di un moderno irrazionalismo, ma è un ricercatore di quell’Io universale, non territoriale, che accomuna tutte le persone in una “sinfonia profonda”: l’Io che “è un altro” (e qui Rimbaud sembra riscrivere, come faceva spesso, il “Je suis l’autre” di Nerval). Lo sregolamento può essere quindi un cammino, lungo e accidentato – sofferente, folle, ma non necessariamente autodistruttivo – per superare, attraverso una ricerca verso territori mentali non esplorati, la soggettività dell’arte vecchia, quella “poesia soggettiva” che imputava a Izambard fatta di “canzoni” più che di opere capite, di sofferenze individuali: “quest’avvenire sarà materialista”, è una frase che può, deve essere presa alla lettera, e non sempre e solo in chiave simbolica, per caricarla di significati che la riscattino dalla sua apparente banalità. L’arte, la Poesia, segue la vita, e si libera con la liberazione dell’uomo dalla schiavitù, dalla miseria e dall’oppressione. Echeggiano certamente gli scrittori democratici, etici, dell’epoca romantica, Hugo in primis, che Rimbaud leggeva e amava. Ma il superamento rimbaldiano è importante per il progetto di una scrittura collettiva, inseguita, progettata dal grande sapiente, dal “grande maledetto”. Per questo deve “trovare una lingua”, che sarà “l’anima per l’anima, riassumerà tutto: profumi, suoni, colori.” Intuizione prodigiosa, la scrittura come “macchina totale” che racchiude le immagini, i suoni, gli odori. Come non pensare alle due macchine più potenti del primo Novecento, Proust (il quale peraltro non doveva amare particolarmente Rimbaud, lui, fine baudelairiano), che attraverso il suo stile in divenire sembra mettere in pratica la sfida rimbaldiana in un’opera compiuta; e Kafka, col suo disseccamento dall’interno della lingua “di carta” dominante, produce davvero una scrittura collettiva, una scrittura minore estranea a tutti gli estetismi e i lirismi.
Leggiamo dunque questa riflessione del Rimbaud sedicenne, provando a semplificarla, a ripulirla da tutti i simbolismi e le esegesi – in chiave religiosa, o antireligiosa – di cui è stata caricata nel corso degli anni. La traduzione è di Ivos Margoni, rimbaldologo fra i più sensibili e competenti.
La Lettera del Veggente 1
A Paul Demeny
a Douai
Charleville, 15 maggio 1871.
Ho deciso di offrirle un’ora di letteratura nuova. Comincio subito con un salmo di attualità:
Chant de guerre parisien
Le Printemps est évident, car…
A. Rimbaud.
– Ed eccole ora della prosa sull’avvenire della poesia: – Tutta la poesia antica sfocia nella poesia greca, Vita armoniosa. – Dalla Grecia al movimento romantico, – medioevo, – ci sono letterati, versificatori. Da Ennio a Teroldo, da Teroldo a Casimir Delavigne, tutto è prosa rimata, giuochetto, smidollamento e gloria di innumerevoli generazioni idiote: Racine è il puro, il forte, il grande. – Se qualcuno avesse soffiato sulle sue rime e ingarbugliato i suoi emistichi, quel Divino Sciocco oggi sarebbe sconosciuto quanto un qualsiasi autore di Origini. Dopo Racine, il giuochetto fa la muffa. E’ durato duemila anni!
Non è uno scherzo né un paradosso. La ragione m’ispira sull’argomento certezze più numerose delle collere che avrebbe potuto avere un Jeune-France. Del resto, i nuovi sono liberi di esecrare i vecchi: siamo a casa nostra e non è certo il tempo a mancarci.
Il romanticismo non è stato mai giudicato bene. E chi avrebbe potuto giudicarlo? I critici!? O proprio quei romantici che ci provano così bene che la canzone è rarissimamente l’opera, e cioè il pensiero cantato e capito dal cantore?
Infatti; Io è un altro. Se l’ottone si desta tromba, non è certo per colpa sua. La cosa mi pare ovvia: io assisto allo sbocciare del mio pensiero: lo guardo, lo ascolto: do un colpo d’archetto: la sinfonia si agita nelle profondità, oppure salta con un balzo sulla scena.
Se i vecchi imbecilli non avessero trovato dell’Io che il significato falso, non avremmo da spazzar via questi milioni di scheletri che, da tempo infinito, hanno accatastato i prodotti del loro guercio intelletto, proclamandosene fieramente gli autori!
In Grecia, dicevo, versi e lire ritmano l’Azione. Dopo, musica e rime sono giuochi, svaghi. Lo studio di questo passato seduce i curiosi: parecchi si lasciano andare con gioia a rinnovare queste anticaglie: – a loro sta bene. L’intelligenza universale ha sempre sparso le sue idee naturalmente; gli uomini raccoglievano una parte di questi frutti del cervello: agivano mediante, scrivevano libri con esse: così andava avanti la faccenda, poiché l’uomo non lavorava a se stesso, non essendo ancora desto, o non ancora nella pienezza del gran sogno. Funzionari, scrittori: autore, creatore, poeta, quest’uomo non è mai esistito!
Il primo studio dell’uomo che voglia esser poeta è la sua propria conoscenza, intera; egli cerca la sua anima, l’indaga, la scruta, l’impara. Appena la sa, deve coltivarla; la cosa sembra semplice: in ogni cervello si compie uno sviluppo naturale; tanti egoisti si proclamano autori; ce ne sono molti altri che si attribuiscono il loro progresso intellettuale! – Ma si tratta di rendere l’anima mostruosa: come i comprachicos , insomma! Immagini un uomo che si pianti verruche sul viso e le coltivi.
Io dico che bisogna esser veggente, farsi veggente.
Il Poeta si fa veggente mediante un lungo, immenso e ragionato sregolamento di tutti i sensi. Tutte le forme d’amore, di sofferenza, di pazzia; cerca egli stesso, esaurisce in sé tutti i veleni, per non conservarne che la quintessenza. Ineffabile tortura nella quale ha bisogno di tutta la fede, di tutta la forza sovrumana, nella quale diventa fra tutti il grande infermo, il grande criminale, il grande maledetto, – e il sommo Sapiente! – Egli giunge infatti all’ignoto! Poiché ha coltivato la sua anima, già ricca, più di qualsiasi altro! Egli giunge all’ignoto, e quand’anche, sbigottito, finisse col perdere l’intelligenza delle proprie visioni, le avrebbe pur viste! Che crepi nel suo balzo attraverso le cose inaudite e innominabili: verranno altri orribili lavoratori; cominceranno dagli orizzonti sui quali l’altro si è abbattuto!
– Il seguito fra sei minuti –
Qui inserisco un secondo salmo, fuori testo: porga, la prego, un compiacente orecchio, – e tutti saranno deliziati. – Ho in mano l’archetto, comincio:
Mes petites amoureuses
Un hydrolat lacrymal lave…
A. R.
Ecco. E noti bene che, se non temessi di farle sborsare più di 60 centesimi di tassa, – io, povero sventurato che, da sette mesi, non ho avuto in mano neanche un soldo di bronzo! – le darei anche i miei Amanti di Parigi, cento esametri, egregio Signore, e la mia Morte di Parigi, duecento esametri!
– Riprendo:
Dunque il poeta è veramente un ladro di fuoco.
A suo carico sono l’umanità, gli animali addirittura; dovrà far sentire, palpare, ascoltare le sue invenzioni; se ciò che riporta di laggiù ha forma, egli dà forma; se è informe, egli dà l’informe. Trovare una lingua; – Del resto, dato che ogni parola è idea, verrà il tempo di un linguaggio universale! Bisogna essere un accademico, – più morto di un fossile, – per rifinire un dizionario, di qualunque lingua sia. Se dei deboli si mettessero a pensare sulla prima lettera dell’alfabeto, rovinerebbero subito nella pazzia!
Questa lingua sarà anima per l’anima, riassumerà tutto: profumi, suoni, colori; pensiero che uncina il pensiero e tira. Il poeta definirebbe la quantità di ignoto che nel suo tempo si desta nell’anima universale: egli darebbe di più – della formula del suo pensiero, della notazione della sua marcia verso il Progresso! Enormità che si fa norma, assorbita da tutti, egli sarebbe veramente un moltiplicatore di progresso!
Quest’avvenire sarà materialista, lo vede; – Sempre piene di Numero e di Armonia, queste poesie saranno fatte per restare. – In fondo, sarebbe ancora un po’ la Poesia greca.
L’arte eterna avrebbe le proprie funzioni, così come i poeti sono cittadini. La Poesia non ritmerà più l’azione; sarà avanti.
Questi poeti saranno! Quando sarà spezzata l’infinita schiavitù della donna, quando ella vivrà per sé e grazie a sé, dopo che l’uomo, – finora abominevole, – l’avrà congedata, sarà poeta anche lei! La donna troverà dell’ignoto! I suoi mondi d’idee saranno diversi dai nostri? – Troverà cose strane, insondabili, ripugnanti, deliziose; noi le prenderemo, le capiremo.
Nel frattempo, chiediamo ai poeti il nuovo, – idee e forme. Ogni mestierante potrebbe credere ben presto di avere soddisfatto tale domanda. – No, non è così!
I primi romantici sono stati veggenti quasi senza rendersene conto: la coltivazione delle loro anime ha preso inizio da incidenti: locomotive abbandonate, ma ardenti, imprigionate per qualche tempo dalle rotaie. – Lamartine, talvolta è veggente, ma strozzato da una forma vecchia. – Hugo, troppo testardo, ha, pure, del visto negli ultimi volumi: I Miserabili sono una vera poesia. Ho I Castighi sotto mano; Stella dà pressapoco la misura della vista di Hugo. C’è troppo Belmontet e Lamennais, troppo Geova e colonne, vecchie enormità sgonfiate.
Musset è quattordici volte esecrabile per noi, generazioni dolorose e in preda alle visioni, – insultate dalla sua antica pigrizia! Oh! Quegli insipidi racconti e proverbi! Oh, quelle notti! Oh, quel Rolla, quella Namouna, quella Coppa! Tutto è francese, e cioè sommamente odioso; francese, non parigino! Ancora un’opera di quell’antipatico genio che ha ispirato Rabelais, Voltaire, Jean de la Fontaine! Commentato dal signor Taine! Primaverile, lo spirito di Musset! Delizioso, il suo amore! Eccola lì, e a iosa, la pittura su smalto, la poesia solida! La poesia francese sarà centellinata ancora per molto tempo, ma in Francia. Non c’è garzone di bottega che non sia capace di buttar giù un’apostrofe in stile Rolla, non c’è seminarista che non porti quelle cinquecento rime nel segreto del suo taccuino. A quindici anni, quegli slanci di passione mettono i giovani in foia; a sedici anni, si accontentano già di recitarli con sentimento; a diciotto anni, anche a diciassette, qualsiasi collegiale che ne abbia la possibilità, fa il Rolla, scrive un Rolla! Qualcuno forse è ancora capace di morirne. Musset non ha saputo fare nulla: c’erano visioni dietro la garza delle tende: lui ha chiuso gli occhi. Francese fiacco, trascinato dalla taverna al leggio del collegio, quel bel morto è ben morto, e, ormai, non diamoci nemmeno più la pena di ridestarlo col nostro vituperio!
I secondi romantici sono molto veggenti: Th. Gautier, Lec. De Lisle, Th. de Banville. Ma siccome investigare l’invisibile e udire l’inaudito è cosa diversa dal riprendere lo spirito delle cose morte, Baudelaire è il primo veggente, il re dei poeti, un vero Dio. Tuttavia egli è vissuto in un ambiente troppo artistico; e la forma tanto vantata in lui è meschina: le invenzioni d’ignoto richiedono forme nuove.
Rotta alle forme vecchie, fra gli innocenti, A. Renaud, – ha rollificato; L. Grandet, – ha rollificato; i Galli e i Musset, G. Lafenestre, Coran, Cl. Popelin, Soulary, L. Salles; gli scolaretti, Marc, Aicard, Theuriet; i defunti e gli imbecilli, Autran, Barbier, L. Pichat, Lemoyne, i Deschamps, i Desessarts; i giornalisti, L. Cladel, Robert Luzarches, X. De Ricard; gli estrosi, C. Mendès; i bohème; le donne; i talenti, Léon Dierx, Sully-Prudhomme, Coppée, – la nuova scuola, detta parnassiana, ha due veggenti, Albert Mérat e Paul Verlaine, un vero poeta. – Ecco. – Così lavoro a rendermi veggente. – E terminiamo con un canto pio.
Accroupissements
Bien tard, quand il se sent l’estomac écœuré,
Lei sarebbe esecrando se non mi rispondesse; e faccia presto, ché fra otto giorni sarò a Parigi, forse. Arrivederci,
A. RIMBAUD
Bell’articolo, Mauro.
Bello e interessante, grazie. Una curiosità: perché si scrive “rimbaldiano” e non “rimbaudiano”?
In francese si dice Rimbaldien, Verlainien, Proustien: è una forma particolare di fare dal cognome una categoria lettereria.
Ho molto da fare in questa mattina. Spero scrivere un commento a proposito del magnifico post di Sparz e del testo di Mauro Baldrati. Si deve una lettura attenta, profunda per una meraviglia.
La poesia di Arthur Rimbaud è un sole rosso del linguaggio,
un verso esploratore della parola, la lingua natale diventa straniera
come in un territorio sconosciuto. E’ forse la parte che mi affascina, l’idea del poeta all’alba, nel deserto, svegliando il paesaggio.
Essere veggente è creare il linguaggio poetico della transa,
del mago, come la Pythie ( accenno al libro che voglio acquistare: quello di Viola Amarelli), si delinea un linguaggio fuori della civilisazione, una parola creata nel vincolo tra l’uomo e il sacro del mondo.
La parola non è cosa nostra che ci permetta di accenderci impropriamente di una luce di cui ci vogliamo appropriare indebitamente. La parola proviene dalle cose, dagli esseri (animati e non) che conglomerano in questo palcoscenico instabile che è l’universo mondo. Noi restiamo un tramite, come dice Veronique, siamo media che, cedendo alla trance creativa, traghettano parole sacre poiché espressione del fluido vitale e dell’energia che pervade, crea e mescola. Il poeta dovrebbe porsi solo come Veggente o Vedente, riprodurre quello che lui, per un motivo che sarebbe difficile spiegare, percepisce e decodifica per un pubblico che si spererebbe essere il più ampio possibile. Continuo a chiedermi però la causa che allontana i lettori dalla poesia: sarà perché ci sono troppi muri tra l’oggetto poetico e il fruitore poetico? che forse chi scrive poesie non è un autentico poeta e veste di troppa muffa la Verità?
mdp
l’ultima che hai detto, Marco…più che veggenti ormai abbiamo cash -dispenser…
è sempre importante ogni tanto tornare ai fondamentali, così con questo post, grazie
Vi segnalo il primo videoclip de L’Orage, “Come una festa” http://www.youtube.com/watch?v=kCFj7zVS9XA, ispirato all’avventura parigina di Rimbaud e, ancora di più il brano “La teoria del veggente” ascoltabile su http://www.myspace.com/lorage1 esplicitamente ispirato a questa lettera (e a “Une saison a l’enfer”). Nel nostro album di prossima uscita sarà presente un’ ulteriore brano dedicato ad Arthur Rimbaud, “Vocali” con testo di Dario Voltolini.
Prego ignorare o cancellare il commento precedente in quanto l’url del videoclip è errato. Grazie
Colpisce. Molto bello.
Rimbaud ha realizzato compiutamente il programma della Lettera del Veggente nelle ILLUMINAZIONI (alcuni prodromi si hanno già con i DERNIERS VERS, specie LACRIMA, MEMORIA o il brevissimo, stupefacente e metafisico ASCOLTA BRAMIRE). UNA STAGIONE ALL’INFERNO, pur grandiosa in alcuni tratti (specie L’ALCHIMIA DEL VERBO) reca ancora qualche traccia del “vecchiume” che l’adolescente medesimo deplorava, mentre nelle ILLUMINAZIONI la rivoluzione è compiuta, una lingua nuova è stata letteralmente inventata (quale miracolo!). E’ a proposito delle ILLUMINAZIONI che Valery osserva: “Tutta la letteratura conosciuta è scritta nel linguaggio del senso comune, tranne che nel caso di Rimbaud.” Ha ragione. Le ILLUMINAZIONI rappresentano un salto quantico, e che dopo segua il silenzio sembrerebbe persino logico – se non fosse azzardato avventurarsi troppo oltre nel mistero d’una psiche, d’un’individualità. Concluderò affermando che è Rimbaud il primo vero poeta moderno, mentre Baudelaire è l’ultimo grande accademico. Ma per capire questo ci vorrà ancora un po’ di tempo. Certe grandezze non si possono assorbire con facilità.
interessante l’osservazione finale che vuole proust e kafka come sviluppatori inconsapevoli della lingua. in proust questa cosa la vedo di più, partire da un’opposto, iperdescrittivo, per giungere alla lingua dei sensi profetizzata da rimbaud. (anche se lui, poeta, era per la quintessenza di questo concetto) In kafka il riferimento lo vedo meno, ma l’osservazione mi ha colpito molto.
Come postilla al correttissimo commento del Sig. Macioci potrei aggiungere che effettivamente Rimbaud ha “compiuto” i propositi espressi nella lettera del Veggente nelle Illumination, interpretandole però come un fallimento. La delusione e il ridimensionamento delle proprie prospettive nonché l’orrore per la propria superbia sono l’oggetto di “Une Saison a l’enfer” che secondo gli ultimi studi è stata scritta “tra” le Illuminazioni. Questo passaggio vissuto in prima persona da Rimbaud è un passaggio cruciale per l’intera storia della letteratura. In effetti nel 1871, per quanto impegnativi, gli intenti espressi nella lettera del veggente erano assolutamente legittimi: tutta la storia precedente della parola rendeva “plausibile” l’atto di trasformarsi in un essere “simile a Dio” per mezzo dell’atto poetico, dell’estasi. Il fatto che ciò non sia avvenuto per Rimbaud durante la stesura delle Illuminations ha avuto come risultati per lui l’abbandono dell’attività poetica (che aveva infatti sempre inteso come “mezzo” e mai come “fine”) e per tutti gli scrittori a venire la trasformazione di simili presupposti da legittimi a, ahimé, ridicoli. Da quel momento in aventi la letteratura smise di svilupparsi in maniera “verticale” ma piuttosto “orizzontale”, e lo stato “estatico” che aveva accompagnato la genesi delle grandi opere “da Dante a Rabelais, da Shakespear a Aloysius Bertrand” smise di essere sperimentato dagli scrittori per diventare appannaggio di matematici e scenziati. Su questi temi, oltre all’isostituibile monografia di Enid Starkie “Rimbaud” (purtroppo oggi fuori catalogo, sarebbe così auspicabile una sua ripubblicazione) consiglio i primi capitoli di “Linguaggio e Silenzio” di George Steiner.
Con tutto il buon cuore, non so perché ma Rimbaud avrebbe preferito di gran lunga Joyce a Proust…su Kafka concordo
Scusa Alberto, ma se Rimbaud ha compiuto quello che si prefiggeva nella lettera, perché per gli scrittori a venire l’auspicio dovrebbe essere ridicolo? Non mi è chiaro neanche il passaggio in cui parli di scrittura orizzontale e verticale. ah, ho ascoltato il vostro brano su testo di rimbaud, molto interessante.
Segnalo un bel brano di René Char su Rimbaud, postato su LA POESIA E LO SPIRITO. Soprattutto l’osservazione iniziale “con Rimbaud la poesia cessa di essere un genere letterario”, potrebbe rispondere ad alcune delle tematiche poste da Alberto Visconti. Concordo con lui sull’acutezza del libro LINGUAGGIO E SILENZIO di Steiner, ove accanto a Rimbaud si analizza l’esperienza per certi versi simile di Holderlin.
Gentile Alessandro, grazie di cuore per i complimenti. Riguardo alle Illuminations, è chiaro che, seppure per noi siano un indiscusso capolavoro, per Rimbaud rappresentarono un doloroso fallimento. Questo si evince dai testi della Saison e da alcune delle Illumination stesse (Mattino, ad esempio), quelle scritte dopo la Saison. La maledizione, la dannazione di cui parla nella Saison è proprio quella che si è attirato cercando di “trasformarsi” in veggente e – non dimentichiamo, – sommo alchimista capace di scovare “l’oro filosofale” tramite la scrittura poetica. Non bisogna trascurare infatti (cosa difficile per il lettore moderno) quanto il background di Rimbaud fosse permeato di cultura “negromantica” e “alchemica”: la sua ambizione non era affatto metaforica ma letterale: lui s’aspettava (e ripeto, legittimamente, non per ingenuità) di trasformare se stesso e il mondo. La sua cocente delusione fu dovuta semplicemente al fatto che tutto questo non avvenne. Per quanto riguarda scrittura verticale intendo proprio il tipo di scrittura che trova in Rimbaud (e nei simbolisti in generale) proprio il suo punto più alto e ultimo: un tipo di scrittura dalla densità tale da racchiudere un’enorme dose di significato in poche parole; forte del carico simbolico e “magico” che ognuna di queste parole si portava appresso, con tutti i suoi rimandi simbolici, culturali e magici (veramente si pensi a Dante o a Blake). Per scrittura “orizzontale” intendo invece la scrittura che la letteratura ha perseguito (con rare eccezioni: Campana, perché no, Bob Dylan) nel secolo successivo, una scrittura che ha eletto a valori asciuttezza, schiettezza, semplicità nonché aderenza alla realtà (invocata da Montale). Una scrittura quindi meno simile a una preghiera o a una formula magica di quella inseguita da Rimbaud… Una scrittura che elegga a sublime la condizione dei mortali avendo definitivamente riunciato al sovrumano.
Ah, capisco cosa intendevi adessoper verticale. mi sento di dissentire però. la definizione “un tipo di scrittura dalla densità tale da racchiudere un’enorme dose di significato in poche parole” in realtà si puo’ accostare, sencondo me, a moltissimi poeti moderni, e per moderni intendo dopo rimbaud, che, seppur non seguendone le orme, ne hanno assorbito il senso. penso a Eliot, per dirne uno famoso. sulla resa di rimbaud nei confronti della letteratura, così odiata (perché incompresa) da Camus, ci andrei con le pinze. più che altro perché la datazione degli scritti di rimbaud non è mai stata chiarita del tutto, c’è chi dice che una stagione all’inferno potrebbe essere addirittura postuma alle illuminazioni. Voglio dire che dai suoi scritti difficilmente si puo’ capire quello che realmente rimbaud pensasse della sua scrittura. lo possiamo intuire dalle gesta biografiche. la fuga, il gesto di lasciare tutto con l’appellativo di merde, ci fa intuire che lui avesse intuito la fregatura della letteratura. cosa sia questa fregatura, non ci è dato sapere. voleva la fama? puo’ essere. voleva che dalle sue parole il mondo uscisse trasfigurato? puo’ essere. secondo me voleva semplicemente riuscire a vivere della sua scrittura, un’ambizione modesta ma plausibile, per un ragazzino. certezze non ne abbiamo. pare anche che abbia scritto un altro libro, la misteriosa “sedia spirituale”, di cui si hanno pochissime tracce. (probabile che sia una sciocchezza) Certo che, visto che dopo 155 anni siamo ancora qui a parlarne (per me, per inciso, a gusto personale è il più grande di tutti) dimostra che un segno profondo l’ha lasciato. al di là di ciò che ne pensasse lui stesso.
@visconti
Concordo con la tua interpretazione, fermo restando che Rimbaud resta un enigma senza fine. Ma debbo citare altri nomi novecenteschi di scrittura “verticale”, come tu l’hai definita: il grandissimo Paul Celan, Georg Trakl, Franz Kafka, Flennery O’Connor, Thomas Bernhard, per citarne soltanto alcuni. Ma la verticalità di Rimbaud, la sua terribile celerité, sconfina nell’intimazione apodittica, è punto luminoso che implode. Non c’è ascensione ma irradiazione.
nb.: anche se probabilmente UNA STAGIONE ALL’INFERNO e le ILLUMINAZIONI sono coeve, è lampante che la riuscita ultima si realizza nelle ILLUMINAZIONI. Quanto al disprezzo che Camus esprime ne L’UOMO IN RIVOLTA contro l’abbandono poetico da parte di Rimbaud, mi sa tanto di moralismo, non mi convince. Rimbaud non abdica a mezzo, ma dopo essersi letteralmente prosciugato: di cosa ancora doveva rispondere?
Uno, due, tre, mille Rimbaud. C’è un Rimbaud/Majakovskij per la Commune e poi c’è un Rimbaud/Kafka per dopo il diluvio. E adesso, tra la Resistenza e il web, c’è anche un Rimbaud/Char.
Saluto e ringrazio tutti per gli interessanti contributi. Alcune questioni sollevate sono impegnative e anche controverse, e ho avuto la tentazione di scrivere un commento ma sarebbe venuto lunghissimo, per le molti variabili (l’abbandono della poesia, le Illuminazioni, la Stagione, Baudelaire, gli stili successivi influenzati da lui ecc), forse pedante.
Per cui
Rimbaldiani forever!
Ancora in risposta ad Alessandro. La “Chasse Spirituelle” (caccia, non sedia!) non era un libro ma una singola poesia, secondo Verlaine “La migliore che Rimbaud avesse mai scritto”, andata poi irrimediabilmente perduta. Divertende ricordare che fu oggetto di un clamoroso ritrovamento – bufala (in stile teste di Modigliani) da parte di due studenti burloni, mi pare negli anni ’40. Quanto alla Saison è molto probabile (e, sì, bello pensare) che sia stata scritta durante l’estate, nel pagliaio della fattoria di Roche dove Rimbaud si era rifugiato convalescente di ritorno da Londra (Nel diario, perlopiù fantasioso, della sorella si racconta degli strilli che gli si sentiva cacciare di notte mentre era barricato la sopra). Anyway concordo sulla controversia delle datazioni e, a costo di rischiare un po’ di pedanteria sarei curioso di sentire le opinioni del Sig Baldrati riguardo all’ultimo periodo del Rimbad poeta (e a tutto il resto). Rimango però convinto che la maggior parte delle Illuminations siano state scritte prima della Saison e solo alcune dopo (Quindi non contraddico Macioci). Naturalmente sono daccordo con il fatto che altri autori dopo il nostro abbiano perseguito una “verticalità”, ma trovo esaustiva l’affermazione di Enrico Macioci: “la verticalità di Rimbaud, la sua terribile celerité, sconfina nell’intimazione apodittica, è punto luminoso che implode”; in effetti è proprio quello che penso. Rimbaud deve aver sperimentato nel campo della poesia una sensazione simile a quella che prova il personaggio interpretato da Jim Carrey alla fine di “The Truman Show” quando, dopo aver attraversato il mare si rende conto che l’orizzonte che sembrava infinito non è che un fondale in cartongesso.
caccia spiriturale. decisamente più bello. :)
Ed era una sola poesia? Si trovano pochissime informazioni al riguardo. però se verlaine ha detto che era la sua più bella probabilmente non era vero, eheh, non mi fido del gusto di verlaine. per chiosare penso anche io che le illuminazioni, al di là della datazione, siano la creazione migliore del ragazzino di charleville.
Grazie per gli spunti ragazzi.
Sì Sì, ma non solo secondo Verlaine. Il vecchio Paul, infatti, alla fine del secolo, ai tempi in cui apprestò la sua raccolta sui poeti maledetti, cercò di ricostruirla (maledicendo la propria memoria che ne ricordava ben poco se non l’assoluto splendore) e contattò gli amici di Rimbaud, mi pare Ernest Delahaye per esempio, nel tentativo che risultò però impraticabile. Ciononostante tutti concordavano nel definirla stupenda e molto lunga (sul genere del Bateau Ivre per intenderci) e, in qualche misura, felice. Credo che si tratti di una delle perdite più gravi della storia della letteratura se si considera che Rimbaud stesso, durante i giorni della sua stesura, ne aveva parlato a Verlaine come del proprio capolavoro. Comunque caro Alessandro ti consiglio davvero di lottare per entrare in possesso di una copia di “Rimbaud” di Enid Starkie (anche se credo che sarà difficilissimo, forse in qualche biblioteca) visto che nessuno dei testi che ho letto a proposito di questo poeta si avvicina lontanamente alla completezza e all’intelligenza (critica e umana) di quel meraviglioso libro.
D’accordo su Starkie (e sul resto). Segnalo, fra le biografie recenti, il RIMBAUD di Graham Robb, Carocci editore. Non si fa intimorire dal mito e al tempo stesso non lo rinnega.
molto bello. “la lettera” dopotutto è la stesura in prosa, e grazie ai tempi (in cui la demiurgia terrena, perché la terra è un Dio, permetteva ancora di rendere la prosa tale), allegorica, della “vocali”. la sensazione fatta verso, fatta parola, fatta lettera. la sensazione immediata, anche se, sotto forma letteraria, riveduta levigata appuntita e smussata. e anche a me per questo suona strano l’accostamento a proust, che, come (mal?)diceva joice, cachinnava sulla stessa frase quando il lettore era già alla pagina successiva. bel post.
grazie alberto. sguinzaglio i segugi.
Alberto Visconti mi chiede cosa penso dell’ultimo Rimbaud. Forse si riferisce alla controversa questione dell’abbandono. A lungo ho ritenuto la fuga come una presa d’atto del fallimento della poesia come superamento dell’azione, come spaccatura delle convenzioni, della meschinità, dell’orrore del potere. E’ un’ipotesi tuttora valida, credo; tanto più che un’avventura come la sua, una forza come la sua, una ricerca profonda come la sua difficilmente può avere un seguito senza sconfinare in una nuova convenzione, in una nuova accademia. Forse le avanguardie hanno in loro stesse la propria estinzione, il tempo contato, limitato. Tracciano strade, danno segnali, si spingono in territori inesplorati, e consumano tutto; poi altri vanno avanti, migliorano i tracciati, trovano variabili e talvolta neanche ne sono coscienti.
Però negli ultimi tempi, accanto a quest’idea per così dire oggettiva, sono portato a credere che Rimbaud abbia agito soprattutto per problemi personali. Continuava a tornare a Charleville, dalla madre. Era dipendente, in un paio di lettere scrive che gli mancava l’indolenza della cittadina (Charlestown), la biblioteca, forse lo stesso bibliotecario che ha sbeffeggiato in una poesia. Sapeva di essere prigioniero, che le sue fughe erano a tempo limitato, che rischiava di diventare uno schiavo della propria sofferenza. Uno schiavo dell’inferno. Che è quanto era accaduto al suo predecessore Baudelaire, grandissimo poeta (da un punto di vista tecnico forse più raffinato di Rimbaud) e grandissimo cultore della sofferenza, della meschinità e dell’infelicità come forma perversa di godimento. E qui mi permetto di citare me stesso, cosa che faccio raramente, su Baudelaire:
http://www.vibrissebollettino.net/archives/2006/07/scrivere_per_ve_1.html
Insomma, ha rotto su tutto. Soprattutto sulla dipendenza dalla madre, dall’ambiente. Forse non aveva altra scelta.
Ringrazio il signor Baldrati della gentile e acuta riposta. Sono daccordo, e credo che entrambe le interpretazioni abbiano del vero: se da un lato è credibile che a un certo momento (a Londra?) Arthur si sia reso dolorosamente conto che le aspettative che aveva risposto nella propria esplosione poetica l’avevano portato a risultati completamente diversi da quelli che si era aspettato è vero anche che, in qualche modo, tutta l’energia e la dedizione che aveva impiegato nel “farsi veggente” avevano qualcosa a che fare con l’educazione ricevuta dalla madre (a mio avviso trattata spesso con troppa severità, di nuovo la Starkie è eccezionale per l’equilibrio). Ho sempre trovato divertente pensare che poco più di un anno prima della stesura della lettera “du voyant” da cui parte tutta la nostra conversazione Rimbaud era ancora lo studente modello che collezionava premi per il suo latino ed era l’orgoglio della madre. E in effetti il rapporto con quest’ultima restò strettissimo fino all’ultimo e – cosa ancora più interessante – a un po’ prima dell’ultimo. Mi spiego: ho sempre trovato particolarmente illuminanti, sia sulla psicologia estremamente pragmatica (anche ai suoi tempi di poeta, si pensi alla confezione “ad hoc” del Bateau Ivre, o alla (citata nel post e) calcolatissima menzogna riguardo alla propria età nella lettera a Théodore de Banville) sia sul rapporto con la madre, le lettere che Rimbaud le spediva da Aden: si tratta perlopiù di richieste di libri, lunghi elenchi in cui Rimbaud non si fa scrupoli di domandarle di procurargli decine e decine di volumi (esclusivamente tecnici, “Il perfetto muratore”, “Come coltivare i legumi” “Fabbro in dieci lezioni”) di non facile reperibilità, “anticipando”, oltretutto, i soldi per acquisto e spedizione… E la madre (aprendo il libro del dovere…) scrupolosamente eseguiva.
Leggere la Lettera del Veggente e poi subito dopo le lettere dall’Africa, specie quelle cui accennava Visconti, significa realizzare l’essenza stessa della massima “Io è un Altro.” La scissione di Rimbaud ha qualche cosa di atomico, irriducibile, temo, a una qualsivoglia esauriente spiegazione, letteraria piuttosto che psicologica. Come disse Mallarmé: “Il caso pesonale permane, con forza.”