Nessuna pietà per i corpi

di Giorgio Fontana

Fra il 16 e il 22 ottobre scorsi, il corpo di Stefano Cucchi scompare. La sua identità è sempre intatta — 31 anni, arrestato la notte del 15 ottobre per possesso di stupefacenti — ma la vista del suo corpo è negata alla famiglia e a chiunque altro. Il padre, la madre e la sorella lo vedono per l’ultima volta in Tribunale, il 16 ottobre, alle nove di mattina. Notano già le ecchimosi sul volto. Di lì in poi, scompare. Il 22 ottobre viene recapitata ai parenti la notizia da parte dell’ospedale Regina Coeli: Stefano Cucchi è morto.
Lui diceva di essere “caduto dalle scale”. La procura di Roma indaga per omicidio preterintenzionale da parte di chi l’ha avuto in custodia e, verosimilmente, l’ha ammazzato di botte.
Le foto — e ha ragione Adriano Sofri quando dice che nessuno può permettersi di parlare di Cucchi senza averle viste — sono qui. E sono agghiaccianti.

Quanto alla verità sull’accaduto, non resta che attendere l’esito delle indagini. Ma sull’implausibilità di tesi insabbiatrici, basta già leggere questo articolo.
Tutto getta una luce orribile sulla presunta sicurezza in cui siamo avvolti, sul presunto grado di garanzia di una fetta delle forze dell’ordine, sulla cultura che ha informato tale fetta — e vi invito a leggere il bel pezzo di Marco Mancassola al riguardo.

Ma c’è dell’altro. In un commento apparso su “la Repubblica” di ieri 30 ottobre, Adriano Prosperi accenna a una nuova geografia del corpo nella presunta democrazia italiana di oggi. Prosperi parte da un assunto banale, uno di quei tanti luoghi comuni che sono diventati tristemente interessanti: “ciò che non passa in televisione non esiste”, e dunque “ciò che non si vede non esiste”. Il corpo di Stefano Cucchi è stato negato, non è stato visto e dunque per il sistema non è esistito. Chi gli ha fatto quello che gli ha fatto è stato libero di farlo — ignorando persino l’antichissimo diritto dell’habeas corpus. Ignorando ogni forma di rispetto basilare per la fisicità, per il dolore stesso.
Prosperi contrappone a questo delitto l’idea della Pietà: la più straziante delle immagini cristiane, quella dove Gesù era innanzitutto la propria materia — era carne e sangue colma di sofferenza, che veniva offerta al credente come una sorta di memento mori. La forza di questa immagine e del suo equivalente laico, a giudizio di Prosperi, è stata erosa.
Sono d’accordo, e da qui parto per la mia riflessione.

L’Italia berlusconiana (edificata con pazienza dall’inizio degli anni ’80) è l’Italia della mercificazione del corpo. Se dovessimo rappresentarla, apparirebbe come una sfera lucida, brillante, intatta: la superficie di un sistema che non deve necessariamente funzionare, ma che deve sempre apparire come funzionante. La tragedia corporale di Cucchi è una delle tante ferite aperte su questa superficie.
L’Italia berlusconiana è anche l’Italia del cortocircuito informativo. Il sovraccarico di parole e opinioni ha portato a un caos dove la verità non è solo più difficile da tracciare, ma è anche un valore secondario: tutti dicono tutto, ma il gancio che lega gli enunciati alla realtà non ha più molta importanza.

Ora, io credo che ci sia un legame profondo fra questi due aspetti. Credo che essi collimino in una sorta di singolarità: il punto terminale dove sia il corpo che la parola perdono senso — meglio: perdono dignità. L’eccesso di parainformazione fa da contraltare al silenzio e all’omertà: la moneta con cui il primo viene pagato. Si nega di continuo: non si risponde mai: non si sa. Qualsiasi fatto può essere accomodato da una teoria opportunamente modificata. Questa epoca fa suo il male che Popper diagnosticò al convenzionalismo: se vedo un corvo bianco dopo aver registrato mille corvi neri, allora basta dire che quello non è un corvo. E la superficie del sistema resta intatta.

Il silenzio sul corpo di Stefano Cucchi è l’ultimo, e per molti versi il più atroce, degli esempi di questo “silenzio nel chiasso”.

Abbiamo grande compassione per le anime e per le immagini. Siamo abituati a muoverci nell’infosfera, nell’uragano delle metafore, nelle lacrime e nelle testimonianze televisive di chi soffre. Ma la compassione — la pietà, appunto — per i corpi si sta allontanando dal nostro orizzonte, perché ad essi siamo meno abituati: la fisicità è innanzitutto stilizzazione, volgarizzazione. Non serve neanche fare appello alla retorica del “tutti belli, tutti felici” o dei volti da Grande Fratello. Basta scendere per strada e guardare. Proprio perché pochi guardano o sanno guardare.
La stessa morte è dilazionata o messa in un ostensorio (penso al corpo di Eluana Englaro). La stessa violenza è lentamente ridotta a una parola — una parola qualunque, una parola che come ogni altra non serve a molto se non a creare fumo — oppure è occultata gelosamente nel silenzio, quando occorre. Quando non deve ledere la superficie del sistema.

Ma il corpo di Stefano Cucchi è uno squarcio che continua a porre domande, e non si placa. Rimane. Persiste. E noi gli dobbiamo una risposta.
Perché il corpo di Stefano Cucchi è il corpo dell’uomo assassinato a Napoli e scansato dai passanti. È il corpo dei braccianti in nero morti di fame e stanchezza in Puglia o nell’hinterland milanese. È il corpo degli immigrati dalla Libia respinti al largo delle nostre coste. È il corpo del fratello del mio ex cantante Fabio, morto di overdose su un marciapiede di Milano, anni fa. È il corpo dei ragazzi gay picchiati a Roma. È il corpo degli uomini eritrei, profughi di guerra, che dormono ogni notte in piazza Oberdan da maggio. È il corpo dei ragazzi della Diaz. È il corpo degli stupri nelle strade attorno alla Centrale di Milano.
Mentre tutto intorno esplode il caos di una massa che non percepisce più fisicità alcuna se non a malapena la propria, che gode solo se spinta a farlo, che sta perdendo una visione etica ed estetica della materia.

Nessuna pietà, oggi, per questi corpi.

9 COMMENTS

  1. pezzo molto bello, però non condivido l’accostare il corpo di Stefano Cucchia a quello dell’uomo assassinato nel video di Napoli: non è un aiuto a quel cortocircuito informativo…?

  2. Pezzo condivisibile, a parte il volo pindarico sull’eziologia dello sfacelo umano/culturale dell’Italia (solo l’Italia?), che con Berlusconi individua la causa di tutti i mali. Esso è, secondo me, un sintomo seppur vistoso di una malattia degenerativa di natura ben più complessa, e irriducibile a una facile (e rassicurante) teoria.

  3. condivido soprattutto la frase di adriano sofri, e mi verrebbe da estenderla alle polemiche sul caso di eluana englaro, quando per volontà del padre sui giornali e in televisione apparirono solo le foto della ragazza ancora bella e in salute. a tutti coloro che credettero alle mistificazioni mediatiche del c.d. movimento per la vita, io avrei fatto fare un giro all’ospedale salvini di garbagnate milanese, nell’ala dei comatosi cronici, dove il tempo si è fermato e l’unica speranza è che la fine sopraggiunga presto. è sbagliato fare di questi luoghi un “temenos”, un luogo altro, discontinuo alla vita di tutti i giorni, nasconderli al riparo di parchi secolari per non turbare le buone coscienze. bisogna renderli pubblici, farli conoscere anche ai sani e a chi non ha parenti in quello stato, e questo non per assecondare un morboso voyeurismo, ma perché la morte non deve essere un tabù.

  4. Non condivido la posizione di Prosperi; tra i media la televisione non gioca più un ruolo di egemonia, internet ha messo alle corde più volte il tubo catodico (o l’lcd) in termini di percezione della realtà, penso a ormai molti anni fa, al video di Green, il marine sgozzato dai terroristi islamici, era stato trasmesso inizialmente da Al Jazera, ma tutti lo avevano visto attraverso la Rete, o lo conoscevano nei dettagli senza averlo mai visto dal racconto dell’amico internauta, si pensi alle registrazioni della D’Addario a Villa Certosa, mai riprodotte in tv, ma continuamente citate, come se la Rete fosse diventata un serbatoio di informazione a cui la televisione stessa non può esimersi dall’attingere.

  5. @Paolo: il corto circuito è già accaduto. Non è importante – credo – che si faccia un accostamento fra i corpi. La cosa sulla quale metterei l’accento è che fino a quando una cosa non si vede, quella cosa non c’è, naviga nell’indistinto della nostra immaginazione.
    Farci vedere i corpi, farci vedere la morte, ha il senso di fissare la soglia; di «dire» la realtà; di rendere impossibile l’embellishment.
    Fino a quando non avremo anche imparato a digerire la vista dell’oscenità della morte, si potrebbe dire. Forse arriverà anche quel momento, può darsi. Ma non sono disposta a scommetterci.

  6. Immagine o assenza di immagine? Il silenzio è il velo che nasconde la verità. Lo schermo nero avala i corpi sepolti. Sotto la superficie colorata
    dove danzano i corpi della bellezza proposta come moda, illusione di vita, si nasconde quello che grida.

    I colori dello schermo colorano la mente di una sostenza che fa vedere un mondo brillante, prossimo, ma cosi allontanato della comprensione della realtà.

    Silenzio e linguaggio di superficie, con scherzi, parole alla moda che brillano un momento per essere consumati, parola che parlano di verità, e sono nella menzogna, parola colorata, come frizzanti.

    In questo mondo la verità è più impudica dei corpi in movimento.

  7. Dalla notte dei tempi,in attesa di degna sepoltura, sul corpo di un morto si stende un velo pietoso. O il cadavere diventa un’altra cosa, lasciandolo in pasto alla telecamera dei nostri occhi.
    Ormai siamo alla mercificazione assoluta del corpo. Al suo uso anche dopo la morte.
    Ormai ci troviamo di fronte ad Achille che trascina il corpo di Ettore intorno alle mura di troia, più che al Cristo sulla croce.

  8. E sia chiaro, qui nessuno vuole rimuovere la morte, come forse accennava Garufi.
    Qui Jean Baudrillard non c’entra.
    Alcuni di noi forse si indignano per l’uso del corpo dopo la morte.

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