Autismi 15 – Il mio primo editore

di Giacomo Sartori

Keith Haring, Andy Mouse (1986) © Keith Haring Foundation

Il mio primo editore era un editore molto prestigioso, lo è tuttora. Io invece ero una nullità, lo sono tuttora. Apprezzo le persone che nella loro testa tengono ben separate le capre dai cavoli. È lui che mi ha insegnato che a scrivere i romanzi al giorno d’oggi non ci vuol niente, quello che è difficile è appiccicarci sopra una bella copertina e venderli. È una lezione che mi è stata enormemente utile. Fa piacere quando si impara qualcosa che davvero serve, nella vita.

Il mio primo editore mi è rimasto nel cuore, perché la prima fidanzata e il primo editore non si dimenticano tanto facilmente. Come la mia prima fidanzata era un po’ vanitosetto, ma proprio per questo mi piaceva ancora di più. Come la mia prima fidanzata era un po’ bugiardino, ma questo non mi disturbava più di tanto. Neanche quando la mia ingessata agente letteraria dava ragione a lui, dando per scontato che il bugiardone fossi io. Si può capire: loro abitavano la stessa pretenziosa città, venivano dallo stesso avvantaggiato ambiente sociale, si vedevano alle stesse esclusive feste. La nota stonata ero io, l’avrebbe capito anche un dromedario. Del resto pure la sua assistente era un po’ bugiardina. No, non c’è!, mi diceva sempre, e io al telefono vedevo il suo naso assistenziale che si allungava. NON C’È!, esultava. A sentire lei non c’era mai, la casa editrice andava avanti da sola, come una barca a vela con il timone automatico. La metafora nautica non è scelta a caso, si badi bene.

Secondo il mio primo editore io ero un agrimensore. All’inizio cercavo di spiegargli che non ero affatto un agrimensore, per il semplice motivo che gli agrimensori non esistono più da un bel pezzo. Gli ultimi agrimensori li trovi nei romanzi di cento anni fa!, gli dicevo. Adesso i geometri usano il laser!, gli dicevo. Lui però guardava nel vuoto, perché era chiaro che gli piacevo proprio perché ai suoi occhi ero un esemplare perfetto di agrimensore. Come un cane ti delizia perché è un cane: se ti mettessi a considerarlo per esempio un essere umano cominceresti a dirti che potrebbe essere un pochino più intelligente, potrebbe avere almeno la patente. E allora facevo io stesso l’agrimensore, perché in fondo mi piace fare contenta la gente.

Il mio primo editore era sempre molto abbronzato. Anche in pienissimo inverno. Fa piacere avere un editore molto abbronzato. Gli editori terrei e smunti hai sempre paura che ti schiattino davanti, che non arrivino fino alla fine della sofferta stesura del tuo prossimo libro. Sono appena tornato dal Kazakistan, ti sarebbe piaciuto, mi diceva. Ieri ero in un ranch del Texas, ti sarebbe piaciuto, mi diceva. Stamattina ero in Corsica, il mare era forza otto, diceva. Io nonostante gli schiaffetti che mi davo nel cesso ero pallidino, perché non ero stato da nessuna parte.

Secondo il mio amico giornalista famoso l’unica cosa che sa fare bene il mio editore è andare in barca a vela. Quello di libri non ci ha mai capito nulla!, mi dice il mio amico giornalista famoso, quando ci ritroviamo a mangiare una pizza nella pizzeria vicino al suo studio. Ma proprio niente!, mi dice, disegnando una croce con il coltello, e con la guancia gonfia di pizza metà masticata e metà no. È il tipico figlio di papà che si trova catapultato in una poltrona di presidente, senza sapere se è una poltrona o una vasca da bagno Jacuzzi!, dice. Il mio amico giornalista famoso sa sempre tutto di tutti, ma in questo caso credo proprio che sbagli di grosso.

Il mio editore erano in realtà tre persone diverse, un po’ come succede – e forse non è un caso – anche a dio. Un signore molto lungo, uno medio, e uno piuttosto corto, alias l’incarnazione con cui avevo a che fare io, il dio vero e proprio. Una trinità con una faccia da deficiente, una faccia abbastanza normale, e una molto furba, vale a dire la sua. Mai visto tre fratelli più diversi uno dall’altro. Mai vista una tale biodiversità all’interno di una stessa nidiata. Tutto può essere, per carità, ma se davvero il padre era lo stesso doveva come minimo avere tre teste ben differenti una dall’altra, come cerbero. Per quanto mi riguarda il fatto che fosse trino non mi disturbava, aumentava anzi il fascino esoterico della mia avventura editoriale.

Una volta che mi aveva detto di passare a trovarlo l’ho sorpreso mentre si specchiava in un lucidissimo e spropositato tavolo ovale assieme alle sue due altre facce e a molte altre persone anch’esse tirate a lucido. Lui era a capotavola, e tutti lo guardavano con la deferenza con cui si contempla dio. A me mi fissavano con il rictus facciale di chi prende nota di un escremento deliquescente sul marciapiede. Appena però mi ha avvistato lui si è alzato e ha tirato un separé: in un lampo l’angolo dove ci trovavamo è diventato il suo lussuoso ufficio. Il sistema era davvero ingegnoso, e l’isolamento acustico era perfetto. Si è stravaccato sulla sua poltrona in pelle di non so che cosa, forse di scrittore famoso, e ha allungato le gambe sulla scrivania. E ha sbuffato. Come a dire che al di là del separé erano restati i noiosoni, e al di qua quelli che valevano qualcosa. Ci siamo accesi una sigaretta, e abbiamo cominciato a parlare del più e del meno. Dall’altra parte del separé i suoi sottoposti continuavano l’importantissima ma noiosa riunione rispecchiata dal gigantesco tavolo lucidissimo, noi discutevamo dei fatti nostri. Dietro di lui c’era la foto di una grande barca a vela, la sua inseparabile barca a vela: era anche lei dei nostri. Fa piacere avere un editore che fa queste cose.

Al mio editore piacevano le mie lettere. Mi diceva sempre che erano proprio belle. Io allora gliene scrivevo parecchie. A me sarebbe piaciuto che mi rispondesse anche solo quattro linee, ma non mi rispondeva mai. Neanche due paroline. Neanche una cartolina. Non c’era nessun cartello, ma la nostra corrispondenza era severamente a senso unico. Io però lo capivo, perché lui era un editore molto famoso, pieno di faccende urgentissime da sbrigare, mentre io ero solo un agrimensore, con dei campi che non esistevano nemmeno più da misurare. Immaginiamoci se un importantissimo editore dovesse rispondere a tutte le lettere di tutti gli scrittorucoli che ci sono in giro. In fondo fa bene, mi dicevo. Proprio belle le tue lettere!, mi diceva lui quando ci parlavamo, con la voce con cui si loda la groppa di un cavallo che ci si è comprato.

Un giorno il mio editore mi ha invitato nella sua celebre villa sul lago. Nella sua villa sul lago c’era un caminetto, e sul lato del caminetto c’erano le firme di tanti grandissimi scrittori. Parecchi di quegli scrittori che avevano firmato sul muro avevano vinto il premio nobel. Ernest Hemingway, Thomas Mann, Eugenio Montale, William Faulkner, tanto per intenderci. Firmo anch’io!, ho detto io, sguainando la penna che tengo sempre pronta in tasca. NOO!, ha esclamato lui, saltandomi addosso come fanno i rugbisti. Aveva l’aria terrorizzata, quasi avessi l’intenzione di cancellare le preziose firme dei suoi amati nobel. Io allora gli spiegato che non rovinavo niente, semplicemente aggiungevo la mia annodata firmetta. Trascinandomi lontano dal caminetto lui mi ha spiegato che avrei firmato un’altra volta, in fondo non c’era nessunissima fretta.

Con i primi editori purtroppo a un certo punto crolla tutto, proprio come succede con le prime fidanzate. Se così non fosse le prime fidanzate diventerebbero delle pedisseque consorti, invece che delle fate ci accompagnano per tutta la vita, e i primi editori si metamorfoserebbero in banalissimi editori: nessun scrittore penserebbe più a loro con occhi sognanti. La mia prima fidanzata mi ha lasciato con l’inverosimile pretesto che perdevo sempre le chiavi di casa e i lavori, e non avrei mai imparato a fare il padre. Il mio primo editore invece mi ha lasciato perché non sapevo scrivere i romanzi. Qualcuno lo aveva convinto, o s’era convinto da solo, che non sapevo scrivere i romanzi. Secondo lui sapevo scrivere i racconti, ma non i romanzi. Non i romanzi per cui la gente fa la fila, in ogni caso. E allora mi ha lasciato. C’est la vie.

Si ha un bel dire, ma una prima fidanzata rimane una prima fidanzata, e un primo editore rimane un primo editore. Ogni tanto penso a lui, e sospiro. Penso al magico separé con il quale il suo ufficio ridiventa un’accogliente e intima alcova, penso ai suoi occhietti furbi, alla sua magnifica villa sul lago, alla sua splendente ammiraglia con i sedili in pelle di scrittore celebre.

Se vincessi il nobel per la letteratura la prima persona a cui telefonerei sarebbe lui. Ho vinto il nobel della letteratura, gli direi, con la voce di chi ti comunica che è appena stato al bar a bersi un caffè. Peccato che non sia più tu il mio editore, era la volta che ci guadagnavi un po’ di soldi, metterei lì subito dopo. Un vero peccato!, insisterei. Sarà per un’altra occasione, adesso non stare lì a farne una tragedia!, lo consolerei, per tirarlo su un pochino. In ogni caso per la firma sul caminetto se ne può ancora parlare, direi. Ogni tanto mi rivedo mentalmente la scena, lo confesso.

Qualche volta gli scrivo ancora, confesso anche questo. Delle lettere con il francobollo come una volta, perché non ho il suo indirizzo di posta elettronica. Guarda che nel cassetto ho un romanzo che è una vera e propria perla!, gli scrivo per esempio. Non lo dico per vantarmi, ma è un’autentica bomba! Esattamente quello che ci vuole per mettere il resto della letteratura nazionale in ginocchio per cinque anni! Basta che me lo dici, o che me lo fai dire da uno dei tuoi efficienti sottoposti, e te lo mando! Cavati una buona volta dalla testa l’ideaccia che non sappia scrivere dei romanzi, ti supplico! Non è ancora troppo tardi! Naturalmente cerco di fare in modo che sia una bella lettera, dato che gli piacciono le belle lettere. Breve, immaginando che abbia ancora moltissimo da fare, ma palpitante di sentimenti sbarazzini e di vagolante intelligenza. Parisiana, per intenderci. So però che non cambierà idea. So che scorrerà la mia lettera con implacabili occhi di ghiaccio, come fanno da che mondo è mondo le ex prime fidanzate.

(Immagine: Keith Haring, Andy Mouse, © Keith Haring Foundation)

12 COMMENTS

  1. Mi sono gustato la pagina nuova del diario con un personaggio che mi ha fatto ridere l’editore, o piuttosto ho trovato l’analisi del posto occupato dallo scrittore molto divertente. E’ vero il vincolo rammenta tutte le storie di amore in senso unico. Le lettere scritte senza risposta, il piccolo piacere narcissico di sentirsi ammirati nella bellezza della scrittura.
    un grande momento la firma nella villa del lago…

  2. Bellissimo. Commuove il personaggio dell’Editore. In nessun luogo incontra i veri uomini. E’ assediato dai postulanti, dall’autore massa, e ormai anche in barca: cani e porci!

  3. “È lui che mi ha insegnato che a scrivere i romanzi al giorno d’oggi non ci vuol niente, quello che è difficile è appiccicarci sopra una bella copertina e venderli. ”

    PAROLE SACROSANTE.

  4. cattivo? l’ultima volta che ho mangiato carne di editore (prima di diventare vegetariano) è nel 1999!

  5. Grandissimo pezzo! Pure io penso sempre che se vincessi non dico il Nobel ma anche il Premio Città Di Potenza, ecco: telefonerei al mio primo editore per comunicarglielo. Pure io ogni tanto scrivo al mio primo editore e gli dico: “Ho un romanzo della madonna nel computer, se solo tu volessi darci uno sguardo…”. Anch’io spesso mi son trovato in cene d’alto bordo a fianco al mio primo editore -che in realtà era un bi-editore, non trino come il tuo- e mi son sentito un provinciale sprovveduto e incolto. E potrei continuare a lungo…

  6. Caro Giacomo,
    come tuo lettore per caso e per la prima volta, dico: ironico, umano e divertentissimo pezzo. Complimenti.

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