La dimora unica
di Elio Matassi
La tragedia è un genere che ha goduto di una sua durata ormai venuta meno per sempre, come argomenta con estrema finezza George Steiner o, piuttosto, si assiste ad una trasformazione profonda della dimensione tragica? A tal proposito sono molto penetranti le osservazioni avanzate da Gilles Deleuze nella prima parte di “Differenza e ripetizione”, quando Kierkegaard e Nietzsche vengono eletti a padri putativi di un nuovo movimento tragico, completamente alternativo a quello semplicemente logico-astratto, argomentato da Hegel in quella che può essere definita una tragedia eminentemente filosofica, mendacemente rappresentativa. Di contro Kierkegaard e Nietzsche postulano un movimento autentico, “capace di rinnovare lo spirito al di fuori di ogni rappresentazione”, rendendo quello stesso movimento “un’opera, senza interposizione”. È questa un’idea da uomo di teatro, un’idea da regista, in anticipo rispetto al suo tempo. In questo senso con Kierkegaard e Nietzsche comincia qualcosa di completamente nuovo. Essi non considerano più il teatro alla maniera hegeliana, non fanno più un teatro filosofico, ma inventano, per la filosofia, uno straordinario equivalente di teatro ed in questo modo costruiscono un teatro dell’avvenire e insieme una filosofia nuova…
Ma una cosa è certa: quando Kierkegaard parla del teatro antico e del dramma moderno, la realtà è già mutata, si è usciti dall’ambito della riflessione. Il filosofo ora vive il problema delle maschere, sperimenta il vuoto interiore proprio della maschera e cerca di colmarlo, di riempirlo, magari con ciò che è ‘assolutamente differente’, in altre parole, introducendovi tutta la differenza del finito e dell’infinito e creando così l’idea di un teatro dello humor e della fede. Quando Kierkegaard spiega che il cavaliere della fede assomiglia sorprendentemente a un borghese vestito a festa, quest’annotazione filosofica va presa come un’annotazione da regista, che mostra come il cavaliere della fede debba essere rappresentato. E quando commenta Giove e Abramo e immagina le varianti della storia di Agnese e il Tritone, la tecnica non inganna, perché è sempre quella di una sceneggiatura. Perfino in Abramo e in Giobbe risuona la musica di Mozart: si tratta di ‘saltare’ sull’aria di questa musica. ‘Non bado che ai movimenti’, ecco una frase da regista, che pone il più alto problema teatrale, il problema di un movimento destinato a toccare direttamente l’anima, a essere il moto dell’anima”. Con Kierkegaard, in maniera non solo diversa dal teatro filosofico hegeliano, ma anche dalla riforma teatrale auspicata da Diderot, inizia il teatro dell’autenticità, che ha in Stanislavskji e in Pirandello due diversi ma importanti esponenti. Stanislavskji, in particolare ne “Il lavoro dell’attore su se stesso”, ove viene esposto il programma essenziale del suo “metodo”, raccomanda come pre-condizione fondante dell’attore la ricerca dell’autenticità: “L’attore può rivivere solo le sue sensazioni personali. Vorresti che, per ogni nuova parte che interpreta, prendesse in prestito sensazioni diverse, non sue e magari anche l’anima di un altro? Ti pare possibile? Quante anime dovresti portare con te! Non ci si può strappare l’anima e prendere in prestito un’altra, più vicina al personaggio! E dove prenderla? Dalla parte inerte su cui non hai ancora lavorato? Ma se aspetta che le dia tu l’anima? Si può affittare un abito, un orologio ma non si possono prendere a prestito da un altro uomo o da una parte i sentimenti. Il mio sentimento appartiene esclusivamente a me, il vostro a voi. Si può intuire, capire una parte, entrare nella situazione, agire come il personaggio. Questa azione creatrice rievocherà dell’attore esperienze analoghe a quelle della parte, ma saranno sentimenti suoi, dell’attore e non del personaggio inventato dal poeta. Qualunque cosa tu sogni, qualunque esperienza tu viva, nella realtà e nel sogno, sarai sempre solo te stesso. Agirai sempre con la tua doppia personalità di uomo-attore. Non rinunciare mai al tuo ‘io’. Se lo fai ti perdi; non c’è nulla di peggio”. L’indicazione decisiva di queste affermazioni sta nel rivivere la “parte”, interpretare significa ri-creare la propria autentica personalità. Anche questo è un motivo molto forte di consonanza con talune suggestioni kierkegaardiane. Come non ricordare che per Kierkegaard la malattia caratteristica della nostra epoca è proprio l’incapacità di dire “io”, di esprimersi in prima persona, di riuscire a percepire il ruolo della soggettività al fine della determinazione della verità? Nella “Dialettica della comunicazione etica ed etico-religiosa”, Kierkegaard riconosce esplicitamente che a tale fine serve il teatro degli pseudonimi: “È alla personalità che dobbiamo arrivare. E per questo considero un mio merito che, presentando personalità poetiche che dicono: Io, in mezzo alla realtà della vita (i miei pseudonimi), ciò ha contribuito per quanto è possibile, ad abituare i contemporanei ad ascoltare di nuovo parlare un io che dirà senz’altro ‘io’ e parlerà in prima persona. È costui che comunicherà anzitutto la verità etica ed etico-religiosa nel senso più severo”. Sono riflessioni e riferimenti che ritengo molto pertinenti a introdurre l’ultima fatica letteraria di Sandro Dell’Orco – “La dimora unica” (San Cesareo di Lecce, Piero Manni, 2009) -, accompagnata da una “Introduzione” di Francesco Muzzioli e una “Prefazione” di Riccardo Reim, con tre scene e tre personaggi: Arturo, Sergio, Elvira. Dopo due felici esperienze narrative – “I benefattori” e “Delfi” – Dell’Orco si cimenta con un genere nuovo, il teatro; un teatro, a mio avviso, improntato alla ricerca della autenticità più radicale. Questa ritengo sia la lezione segreta de “La dimora unica”, una vera e propria lezione metateatrale; la dimora unica non è che la plumbea prigione in cui sono costretti i tre personaggi che cercano di eluderla, diventando fino in fondo se stessi, cercando disperatamente di realizzare quelle soggettività luminose che il buio assoluto della scena ha cancellato per sempre. Il teatro può sfuggire a se stesso, alla propria affettazione-regressione solo ricorrendo all’esplosione-implosione delle soggettività che si rimettono in discussione. La “dimora unica” è quella di un teatro fine a se stesso, completamente vacuo, e il significato della pièce sta nella rivolta del teatro contro se medesimo in nome dell’autenticità. Dell’Orco ancora una volta dimostra il suo vero volto di scrittore antitotalitario; i totalitarismi sono molteplici: possono essere espressi dalla società di massa, ma anche dalla concezione che dovrebbe vincolare autori e attori-protagonisti. La dimora-prigione è quella di un teatro mendace, di maschere posticce, di scenografie stralunate e sopra le righe, contro cui i personaggi non possono non rivoltarsi. Straordinario il dialogo nella scena III tra Sergio e Arturo. Sergio: “Non mi va di pensarci. La fine mi attrae. Sento già il brivido del cupio dissolvi spalancarmi l’anima di gioia. La sua aura, la sua irresistibile fascinazione è ancora lontana, ma già percepibile, basta solo… abbandonarsi… (Riflette se ha detto bene)… Sì, abbandonarsi”. Arturo: “Anche a me attrae la fine, ma bisogna aver pazienza, attendere che arrivi… mai affrettare, mai lasciarsi ingannare da segnali poco chiari. Ogni cosa a tempo debito, ogni cosa quando inequivocabilmente si presenta, e la fine ancora non è qui”. Sergio: “Ne parli come se non dipendesse da noi, come se non fossimo noi gli artefici della nostra fine”. Arturo: “Siamo noi, solo noi, gli artefici, d’altra parte non c’è nessun altro qui dentro… ma anche noi non possiamo anticipare le nostre visioni, le nostre azioni, i nostri pensieri: arriveranno e quando arriveranno ce ne accorgeremo… Per esempio, una cosa mi è chiara: finiremo senza spargimento di sangue, perciò dammi il tuo coltello da boy-scout” (p. 109). Si tratta di un vero e proprio “manifesto dell’autenticità” che riguarda tutto, che attraversa nella stessa misura visioni, azioni, pensieri. Un “manifesto” cui fanno da sfondo i colori della scena che, come recita la didascalia, devono rispettare le diverse tonalità di grigio: “Le pareti e il pavimento sono grigio piombo. L’abito e la camicia dei due uomini sono rispettivamente grigio scuro e grigio chiaro. Il mantello della donna è di un grigio intermedio fra quello degli abiti e delle camice dei due uomini” (p. 25).
Ed il grigio è il colore del conformismo-trasformismo, il colore segreto della prigione, della “dimora unica”, quella di un teatro menzognero che cerca di ritrovare se stesso e lo ritrova con l’ausilio di personaggi che riescono a tradirne la natura sostanzialmente rarefatta. Questa di Sandro Dell’Orco non è che una tappa nel suo percorso antitotalitario che decide di ribellarsi anche a quegli strumenti di cui si serve per comunicare, quelli della scrittura e della scena.
Dimora unica è un testo crudele. Lo è, innanzitutto, per il lettore, chiamato a un surplus di impegno per decifrarne le allegorie; e lo è, ancora di più, per l’attore eventualmente chiamato a dare corpo alle parole. Appartiene a quei rari testi che, pur nascendo per il teatro, se ne distaccano radicalmente; e infatti niente, nella sua struttura, lo apparenta alla drammaturgia contemporanea, oggi stretta nella forbice tra l’impegno civile e il nulla da dire. Dimora unica è, in questo senso, un testo irrapresentabile. E quindi, almeno per me, particolarmente interessante. Il rimando a Finale di partita è esplicito (e Dall’Orco è anche ottimo conoscitore di Beckett): l’incombenza di un “fuori” catastrofico, l’apparente semplicità del linguaggio, la riduzione ai limiti dello zero delle azioni sceniche … Una scena, come osserva giustamente nell’introduzione Muzzioli, “per niente mimetica” (al sottoscritto è venuta in mente la scrittura drammaturgica di Michele Perriera, visionaria e allegorica in modo molto simile a quello di Dall’Orco). Francamente, non vedo come possa essere accolto dal teatro contemporaneo. Un testo irrapresentabile, appunto. Un attore contemporaneo, abituato a recitare con stilemi para-televisivi, si limiterebbe a ripeterne la superficie di significato, nascondendo, e con ciò stesso violentandolo, il suo “significato secondo”. Questo testo ha bisogno di una recitazione quanto mai straniata, del tutto innaturale, ad esempio dicendo le battute velocemente, interrompendo le frasi solo per prendere fiato; tonalità molto alte, quasi strozzate, e con appunto interruzioni non dipendenti dalla punteggiatura o dal significato, ma dal fiato che finisce, dal corpo che reclama un altrove. Solo così potrebbe funzionare il testo di Dall’Orco, solo esaltandone la sua intima irrapresentabilità.
Un piccolo appunto sullo scritto di Elio Matassi: Diderot non rimanda a Stanislavskji; al limite a Mejerchol’d. Stanislavskji è ancora all’interno della “rappresentazione”. Il vero salto prospettico nella direzione del porsi “al di fuori di ogni rappresentazione” è comunque l’evento-Artaud.
Segnalo un importante saggio di Dall’Orco sul rapporto tra Gabriele Frasca e Samuel Beckett, leggibile qui.
*archiviato in carte e contrassegnato Elio Matassi, Friedrich Nietzsche, G. W. F. Hegel, gilles deleuze, Sandro Dell’Orco, teatro, teatro contemporaneo, tragedia.*
eppure il post parla precipuamente di kierkegaard…
Non mi intendo molto di teatro, ma di filosofia sì e per questo ribadisco e sottolineo, in accordo con Elio Matassi, che il riscatto e l’affermazione del singolo sono fondamentali nella storia, nella filosofia, nell’estetica…nella vita di tutti i giorni.
Kierkegaard e Nietzsche conducono una valorosa battaglia non nell’affermazione dell’uno sui molti bensì nella valorizzazione di ciascuno nei confronti della massa. Essere autenticamente se stessi è l’unico modo per esistere (ex-sistere). Avere consapevolezza di sé e delle proprie scelte di vita è l’unica via percorribile nei confronti di un Assoluto che non c’è: che non è dato a priori; tutt’al più può essere un’aspirazione di alcuni, un compito da realizzare e non “un’astuzia della ragione”!
L’atteggiamento antitotalitario consiste nell’apertura a…,mentre quello totalitario nell’essere schiacciati da…, nell’essere in-globati nel sistema. E’ l’eterna lotta tra essenza ed esistenza: ma l’esistenza (Nietzsche, Kierkegaard e Arendt lo affermano) è PLURALE! e, la pluralità, non si vive con il freddo intelletto, ma con il sentimento, con il sentire sé e l’altro; con l’immedesimazione, con lo scambio dei ruoli; con la fantasia e con il coraggio.
Rosaria Di Donato (SFI)
Del post ho apprezzato soprattutto il rimando a S. Kierkegaard, Scritti sulla comunicazione, tr. C. Fabro, Roma: Logos, 1979-82. Ecco, nonostante i vari tentativi di gemellaggio, scritti così sono impensabili dalla penna di un Nietzsche, per non dire di altre belve bionde (mentre lo sono dalla penna di un’Arendt).
La Dimora Unica, questo testo teatrale di Sandro dell’Orco, non si presta a facili commenti nè a compiacimenti di lettura o di interpretazione.
E’ un testo paricolarissimo e chi si avventura tra le pagine-scene di questa rappresentazione pensando di trovare alla fine il bandolo della matassa, forse resterà deluso perchè Dell”Orco parla di una storia-non storia, e l’epilogo, per quanto mi riguarda, è già compreso e ben descritto fin dalle prime scene e battute. Arturo e Sergio, vestiti allo stesso modo, le scarpe di vernice che rimandano subito a un ambiente cimiteriale, il luogo-non luogo in cui sono catapultati, una specie di vuoto grigio e spoglio, un deserto di fatto ma anche dell’anima, corridoi che alludono esplicitamente a un oltre misterioso ma, in effetti, quasi penetrato, una sorta di limbo dove le azioni si svolgono con calma, tranne che per alcune scene concitate, una calma che è immobilità, staticità rispetto alle rievocazioni terrene in cui a volte si perdono i due.
Una protagonista femminile, Elvira, a cui viene concesso poco spazio, perchè così dev’essere visto che avrebbe potuto, e già lo stava facendo, svelare verità che forse non si sarebbero volute ascoltare.
E’ la calma di chi, ormai, ha tutto il tempo a disposizione per riflettere sui crimini perpetrati dall’uomo, per mostrarci in tutto il suo lugubre grigiore ciò che rimane degli ultimi brandelli di umanità.
L’uomo ha distrutto se stesso e il mondo circostante, nessuna salvezza, dunque, nessun colore potrà più identificarlo.
La scena è spoglia, la parola, oggi, sembra spogliata dei suoi contenuti pregnanti perchè arido è il cuore dell’uomo che non riesce nel recupero di se stesso.
E Arturo e Sergio, altro non sono se non l’io smembrato per esigenze di copione, un io che a volte si compiace di se stesso, altre, invece ci fa a cazzotti.
Il testo, al di là della sua necessità d’essere ciò che è, mi sembra un incitamento a trovare, a sforzarci di trovare una via d’uscita tra le ombre grigie in cui oggi siamo costretti a vivere.
Ringrazio NI per questo post e un grandissimo abbraccio a Sandro.
jolanda
@ jolanda catalano
Ringrazio molto la poetessa Jolanda Catalano per l’attenzione che ha voluto dedicarmi. Non entro nel merito della sua interpretazione della pièce, che non spetta a me giudicare. Posso invece sottoscrivere le sue parole: “Il testo, al di là della sua necessità d’essere ciò che è, mi sembra un incitamento a trovare, a sforzarci di trovare una via d’uscita tra le ombre grigie in cui oggi siamo costretti a vivere” E ciò non perché la commedia voglia significare questo, ma perché è stata scritta dall’autore con questo spirito.
@ ng
Rngrazio molto anche lei per la lettura e il commento della pièce. Ciò che dice sulla messinscena è geniale, e richiede una risposta molto ponderata da parte mia, che per ora non posso darle. Apiù tardi allora e ancora grazie. Questa pièce richiede una notevole riflessione degli attori sul loro ruolo di attori. E’ quanto ha colto bene Elio Matassi,che ringrazio, parlando di “lezione metateatrale”.
Nel leggere “La dimora unica” non può non venire in mente il teatro di Beckett. Come nel suo teatro, infatti, anche in quello di Dell’Orco la conversazione si manifesta come un vuoto conversare, un susseguirsi di frasi che, private della loro funzione significante, si riducono ad un dialogare fine a se stesso, quindi ad un “non-dialogo”, un passare il tempo nell’attesa di un’epifania che non avrà mai luogo. E a proposito del luogo anche questo, come già con il dialogo, diventa un “non-luogo” . Un “non luogo a procedere” mi verrebbe da dire, poiché è chiaro che se l’attesa è il luogo temporale in cui si svolge e si esaurisce l’intera pièce, il non-luogo è il posto fisico dove l’azione nasce e muore diventando, perciò stesso, inazione. Attraverso questi infingimenti che portano alla destrutturazione della “forma teatro”, il teatro si rivela quindi per quello che è: cioè pura finzione fine a se stessa, luogo ideale dell’assurdo e della sofferenza umana.
Eppure nel guardare con attenzione ai due personaggi e nel percepire la tensione che essi dimostrano – malgrado tutto – nei confronti dell’ “intrusa”, non si può, a mio avviso, non pensare anche a Fellini. Al suo mondo visionario, fantasmatico, in cui l’inconscio
– privo di senso razionale – svela invece una realtà altrimenti in attingibile per altre vie.
Ecco allora che “La dimora unica” si rivela ben più di un’idea beckettiana di teatro e trova la sua originalità in un’eterna tensione tra l’essere e il divenire, tra senso di morte e istinto vitale, tra restare accucciato nel grembo della nostra prima donna o, fuori di esso, rischiare la scoperta del “nulla”.
P. S.
Come ogni pièce teatrale, anche l’opera di Sandro Dell’Orco ha bisogno di rinascere attraverso l’interpretazione dell’attore: il solo che grazie a un’opera di transustanziazione può dare corpo ai molti fantasmi che la popolano.
Nel leggere “La dimora unica” non può non venire in mente il teatro di Beckett. Come nel suo teatro, infatti, anche in quello di Dell’Orco la conversazione si manifesta come un vuoto conversare, un susseguirsi di frasi che, private della loro funzione significante, si riducono ad un dialogare fine a se stesso, quindi ad un “non-dialogo”, un passare il tempo nell’attesa di un’epifania che non avrà mai luogo. E a proposito di luogo anche questo come già con il dialogo diventa un “non-luogo” . Un “non luogo a procedere” mi verrebbe da dire, poiché è chiaro che se l’attesa è il luogo temporale in cui si svolge e si esaurisce l’intera pièce, il non-luogo è il posto fisico dove l’azione nasce e muore diventando perciò stesso inazione. Attraverso questi infingimenti che portano alla destrutturazione della “forma teatro”, il teatro si rivela quindi per quello che è: cioè pura finzione fine a se stessa, luogo ideale dell’assurdo e della sofferenza umana.
Eppure nel guardare con attenzione ai due personaggi, nel seguirne la conversazione, nel percepire la tensione che essi dimostrano – malgrado tutto – nei confronti dell’ “intrusa”, non si può, a mio avviso, non pensare anche a Fellini. Al suo mondo visionario, fantasmatico, in cui l’inconscio
– privo di senso razionale – svela invece una realtà altrimenti in attingibile per altre vie.
Ecco allora che “La dimora unica” si rivela ben più di un’idea beckettiana di teatro e trova la sua originalità in un’eterna tensione tra l’essere e il divenire, tra il restare accucciato nel grembo della nostra prima donna o il rischiare la scoperta del “nulla”.
P. S.
Come ogni pièce teatrale, anche l’opera di Sandro Dell’Orco, ha bisogno di rinascere attraverso l’interpretazione dell’attore: il solo che grazie a un’opera di transustanziazione può dare corpo ai fantasmi che la popolano.
Nietsche non è una belva! probabilmente neanche un nichilista. E’ il padre della filosofia ermeneutica, un’ esteta. Esiste una lettura marxiana di Nietzsche. Ricordiamoci che il superuomo è un “Ponte” una corda tesa tra qui e l’oltreuomo! E’ l’uomo egregio. Insomma, la vogliamo riplasmare la realtà secondo i nostri valori o vogliamo conformarci al gregge-massa?
Rosaria
Insomma, alla fine mi è venuta una gran curiosità di leggere “La dimora unica” e chissà, magari. anche di vederlo andare in scena prima o poi!
A presto,
Rosaria
http://www.riccardoreim.it/
diciamo allora che nietzsche è un esteta con l’apostrofo
Sembra esserci una tale ricchezza di senso nel “diluvio” di Sandro Dell’Orco, con il suo suggestivo trovarobato di evocazioni d’apocalisse, con i suoi ripetuti richiami culturali, col suo addensare presenze archetipali dal beckettismo al “doppio” a quell’apparizione femminile velata che sembra evocare l’ “anima” junghiana…
Insomma, una tale iperdeterminazione del senso da farmi sospettare un’intenzione ironica dell’autore a proposito dell’idea stessa che un testo letterario possa davvero, nell’epoca del diluvio -coincidente, come scrive Muzzioli nell’introduzione, con la “catastrofe del linguaggio”-, esser portatore di senso, rivelare davvero la forma del mondo rendendola raccontabile.
A me sembra in effetti
Sembra esserci una tale ricchezza di senso nel “diluvio” di Sandro Dell’Orco, con il suo suggestivo trovarobato di evocazioni d’apocalisse, con i suoi ripetuti richiami culturali, col suo addensare presenze archetipali dal beckettismo al tema del “doppio” a quell’apparizione femminile velata che ricorda l’ “anima” junghiana…
Insomma, una tale iperdeterminazione del senso da farmi sospettare un’intenzione ironica dell’autore a proposito dell’idea stessa che un testo letterario possa davvero, nell’epoca del diluvio -coincidente, scrive Muzzioli nell’introduzione, con la “catastrofe del linguaggio”-, esser portatore di senso, rivelare davvero la forma del mondo rendendola raccontabile.
A me sembra in effetti che un’ironia disseminata tra battute e situazioni affiori ripetutamente in “La dimora unica”, molto coerentemente del resto con l’opera di un autore che rifiuta ogni compromissione mimetica, ogni cristallizzazione realistica, per muoversi con libertà in quel suo universo mutaforme sul quale egli da solo esercita l’assoluto controllo. Ironia dietro certe affermazioni dei personaggi, valga per tutte il sublime “La simmetria è una legge universale”. Ironia sulla stessa forma teatrale: “La quarta parete, non la vedi?” Ironia nella minuziosa insistenza delle note di regia e delle didascalie, che pretenderebbero di legare del tutto le mani a chi si avventurasse a trasferire questo testo teatrale su una scena teatrale.
Finisco per pensare che anche in questa fascinosa, ipnotica “Dimora unica” come nei romanzi di Sandro, al di là dell’apparente densità il senso sia un che di erratico, volatile, sfuggente. Mutaforme come l’universo parallelo nel quale viene declinato. Sfuggente come Apollo in “Delfi”, l’ultimo romanzo. Assente come a un appuntamento continuamente rinviato. A un acutissimo lettore intervenuto su questo sito, Sandro risponde che ciò che ha scritto “è geniale, e richiede una risposta molto ponderata da parte mia, che per ora non posso darle”. Sembra a me di riascoltare, in questa breve e apparentemente casuale affermazione, la voce di un interlocutore di Egon Hereafter, l’eroe di “Delfi”, appunto, che risponde a ogni richiesta di chiarezza -di senso- con formule oscillanti che evocano una logica nascosta e non conoscibile.
Allora si affaccia in me l’intuizione che dietro le pareti metalliche della scena teatrale si nasconda l’ombra della parodia. Se ne chiedessi conferma a Sandro, mi risponderebbe forse “Non posso dirlo, per ora”?
Mi sembra che l’ampio dibattito che si sta svolgendo intorno alla pièce di Dell’Orco abbia centrato perfettamente il problema: in questo caso lo scrittore si è posto un problema squisitamente metateatrale. Bisogna essere in grado di sfuggire alle leggi di un teatro chiuso e autoreferenziale. I tre personaggi della sua pièce cercano in ogni modo di compiere questa ultimativa trasgressione.
@ Sandro Dell’Orco.
Ho letto la pièce “La dimora unica” proprio ieri pomeriggio. Mi è piaciuta, è bene dirlo fin da subito, e provo a darti così una mia interpretazione.
Arturo rappresenta la filosofia, la razionalità e l’impossibilità di credere che attraverso la ragione si possa conoscere cosa c’è fuori dal mondo. Lo ripete spesso che lui non può uscire da quella dimora. Da cosa è impedito non lo dice ma lo lascia intuire. Appunto: la sua idea del mondo.
Sergio è puro istinto, è slancio naturale. Quando pensa la morte la pensa con abbandono. E’ interessante che i due siano così amici ma che tu abbia messo l’istinto a “servizio” della ragione. Come se Sergio svolgesse quel ruolo che Arturo non può vivere.
Allora la tua dimora unica è il mondo, cosa c’è oltre e fuori il mondo nessuno lo può sapere ma Sergio lo immagina, Arturo ne diffida. E poi, da dove vengono? Scrivi, e vado a memoria perché non ho il libro sotto mano, che prima di arrivare lì, Sergio ricorda di aver guadato un fiume, Arturo non ne ha memoria. Ecco, tutta quell’acqua prima del mondo, oltre il mondo (oltre la dimora unica) e dopo il mondo è il mistero della nascita. Siamo nati e a quella nascita, morendo, dobbiamo tornare. Ci sono cose che mi hanno ricordato il mio libro, la storia dei due fratelli in un albergo, anche lì si trattava di una questione di conoscenza. Che cosa sappiamo del mondo? cosa possiamo sapere della nostra esistenza?
E’ vero che leggendo il libro ho ripensato a te e alle tue allegorie così vicine al teatro dell’assurdo. Ma appunto, continuo a ripetere, è la realtà stessa assurda. Se non la pensiamo così, questa smette di essere. E’ un libro che si legge come un romanzo, velocemente, e anche le note dove spieghi ciò che i personaggi fanno sono scritte da scrittore e non da sceneggiatore. Per tutto questo ti faccio i miei complimenti.
Il contributo di Caterini è molto stimolante: da un lato, Arturo che rappresenta le ragioni della filosofia e Sergio che invece interpreta quelle della naturalità. Questo intervento dimostra ancora una volta come siano molteplici le letture e le interpretazioni che possono essere date della pièce ‘La dimora unica’.
Parodia, allegoria, rifiuto della mimesi, narrazione (e spazialità) bloccata, crisi della lingua (e del senso): tutto ciò che traspare dalla pièce di Dall’Orco conduce, e direi programmaticamente, al fallimento. Sembra proprio che l’autore rinunci a ogni euforia salvifica della parola, evidenziandone piuttosto i limiti. E in ciò, magari involontariamente, smerda in un colpo solo le mode teatrali del momento, dalla linearità consolante del “teatro di narrazione” (o “civile” che dir si voglia) al chiacchiericcio inconcludente del para-televisivo. E proprio in ciò sta il suo fallimento: nella quasi matematica certezza che resterà una trasgressione solo cartacea, dal momento che il teatro contemporaneo non può accoglierne le istanze. Insomma,l credo che “La dimora unica” potrebbe essere risolto felicemente in corpo-voce solo da attori cointeressati all’ipotesi di “trasgressione” che la anima; altrimenti … Altrimenti verrebbe fatto rientrare in quel “diluvio di incultura” che è il teatro contemporaneo. Solo sul palco può essere verificata la sua forza espressiva. Ma il palco, ahimè, e oggi più che mai, risente dello scadimento culturale, e davvero non riesco a vedere sbocchi positivi per quest’opera. Siamo, davvero, dentro quel tragitto che porta irrimediabilmente al fallimento … Ma anche questo è tema prettamente beckettiano ….
Nevio Gàmbula
@Nevio Gàmbula
Caro Nevio, nel mio post precedente non avevo riconosciuto le tue iniziali: scusami se ti ho dato involontariamente del lei.
Sono abbastanza d’accordo su tutto quello che dici, solo vorrei che esplicitassi meglio, argomentassi meglio questo: “Questo testo ha bisogno di una recitazione quanto mai straniata, del tutto innaturale, ad esempio dicendo le battute velocemente, interrompendo le frasi solo per prendere fiato; tonalità molto alte, quasi strozzate, e con appunto interruzioni non dipendenti dalla punteggiatura o dal significato, ma dal fiato che finisce, dal corpo che reclama un altrove. Solo così potrebbe funzionare il testo di Dall’Orco, solo esaltandone la sua intima irrapresentabilità” Te lo chiedo sapendo che questa forma è la forma da te trovata – dopo anni e anni di coerente, appassionata sperimentazione – per articolare un’espressione conforme al presente, altrimenti bloccata e costretta dalla tradizione. Ma mi chiedo: è davvero adatta per la “Dimora”? Io non ne sono convinto. Ma aspetto ulteriori precisazioni da parte tua.
Colgo l’occasione per segnalare “Simpliciter & Complicatibus, pièce di Campi, Gambula e Puecher, inserita in Nazione Indiana il 15.11.2009, (due post dopo questo) in cui i lettori potranno apprezzare tra l’altro la particolarissima, e geniale, “recitazione” di Nevio Gàmbula.
Oh, no, Sandro, non è che recito sempre così; dipende …. Intanto, è bene precisare che quella era solo un’ipotesi che m’è uscita dalla LETTURA del tuo testo. Ci vogliono decine di prove prima di trovare una giusta modalità recitativa, e non basta, non può bastare, l’atto della lettura, che come ben sai non è ancora teatro. Ora, essendo un convinto assertore del fondamento corporeo e non letterario della scena (in teatro il corpo mette a morte la parola), posso solo ribadire che ciò che determina il senso di un’opera è la struttura del rito scenico, ovvero come i segni sono disposti sul palco. Questo è un presupposto per me irrinunciabile. Dopodiché, scelto un materiale-testo, si declina quel presupposto estetico in relazione ad esso. E qui si apre un mondo. Come rendere vivi i fantasmi che abitano il tuo testo? Ripeto: in base a questo colgo dalla lettura punterei tutto sulla rottura della naturalità. Le possibilità espressive sono tante. Si potrebbe, ad esempio, pensare la dimora come uno spazio immenso, con i personaggi lontani rispetto al pubblico, quasi impercettibili alla vista, e amplificati (in questo caso la naturalità del dire è incrinata, oltre che dallo stesso impianto scenico, dall’intervento timbrico dell’elettronica collegata al microfono); o si potrebbe, al contrario, realizzare uno spazio scenico della grandezza di una stanza reale, ma con il pubblico parte integrante della stessa, e quindi circondato dal “grigio piombo”: tutto si farebbe più intimo, anche i toni, e nessuna neutralità sarebbe resa possibile (qui basterebbe giocare sulle micro-variazioni ritmiche, ad esempio rompendo l’unità di alcune parole e giustificandole non più “psicologicamente” ma “musicalmente”). Ecco, se dovessi pensare di realizzare la tua “dimora” esalterei più di ogni altra cosa la crisi del linguaggio di cui parla Muzzioli nella sua introduzione, operando nella direzione di una interferenza tra significato e significante (nella parola, ma anche nel gesto) … Ma, davvero, l’unica verifica di questa ipotesi può avvenire solo sul palcoscenico. Il resto (le mie ipotesi e le tue perplessità in merito) sono solo esercizi di dialettica e non ancora teatro. Ti dirò di più: se mi limitassi a tradurre scenicamente il tuo testo, senza cioè farlo entrare in contraddizione col mio corpo-voce, ricadrei nella “rappresentazione” giustamente stigmatizzata da Matassi nel suo articolo. Solo la resistenza dell’attore può agire quella “ultimativa trasgressione” presente nel tuo testo.
Nevio Gàmbula
@ Nevio Gàmbula
E’ difficile risponderti. Perché rischio di buttare via l’acqua sporca col bambino dentro. Il bambino in questo caso è la visione organica della scena teatrale, che non consente a nessun particolare di sfuggire al dominio dell’universale, cioè all’articolazione necessaria, consequenziale, per mezzo della quale ogni elemento (sonoro, visivo, corporeo) si lega all’altro e alla fine alla totalità. Insomma l’opera teatrale è simile a un quadro, dove ogni minimo elemento (cromatico, lineare o materico) si giustifica solo in rapporto a tutti gli altri, e così fa da contrappeso al tutto. E’ anche simile all’opera musicale rigorosa, che cerca in se stessa la propria coerenza, al di fuori e al di là di ogni intenzione rivolta al mondo – e proprio per questo alla fine lo raggiunge. Su tutto questo so che siamo d’accordo, e vale la pena sottolinearlo, per salvare appunto il bambino. Ma poi c’è l’acqua che a me appare sporca. La quale nel tuo intervento comincia appunto a intorbidirsi da “Dopodichè, scelto un materiale…” per annerirsi del tutto alla fine del pezzo. E ciò non per un errore logico, ma perché, compreso nella tua (giustissima) visione di teatro, escludi a priori ogni altra visione, estremizzando e totalizzando il tuo punto di vista. L’errore è dunque di hybris, se così posso dire: tu tenti di raggiungere la necessità vincolante della forma direttamente sulle tavole del palcoscenico, attraverso la realtà del tuo corpo, della voce, dei movimenti, il senso dello spazio, del ritmo, e quant’altro esiste di percettibile sulla scena – e tutto ciò va benissimo (e potrebbe chiamarsi con buona ragione “teatro lirico”, se il termine non significasse altro: lirica è infatti la concentrazione in una sola persona delle funzioni di drammaturgo, regista e attore, che tale idea di teatro presuppone). Ciò che non va bene è che tu escludi dogmaticamente che la forma teatrale possa esser raggiunta in modo diverso. E il segno di questo tuo dogmatismo si rivela innanzitutto nel tuo linguaggio, laddove per te il testo non è un testo, ma appunto un materiale – testo, cioè un qualcosa visto a priori sotto la categoria della manipolazione, della mera e arbitraria utilizzazione ai fini della tua soggettività creatrice. Insomma, il testo per te è a priori privo di forma, può servire al massimo come stimolo concettuale o inconscio per scatenare il processo della tua produttività artistica.
E invece il testo teatrale può avere una forma autonoma. E al punto tale che la sua rappresentazione debba seguire con la massima scrupolosità e precisione tutte le didascalie dell’autore per avere un senso. Per questo Samuel Beckett si è sempre opposto alla cosiddetta libertà del regista nell’interpretazione delle sue pièces: non perché fosse geloso della sua opera, ma perché essendo opere INTEGRALMENTE FORMATE, avrebbero perso ogni senso se minimamente modificate. Laddove ogni elemento sorregge la totalità è impossibile toglierlo o modificarlo senza farla crollare. Paradossalmente, solo chi ha compreso fino in fondo che il testo può avere una forma, e la sappia – per quanta fatica e passione questo richieda – individuare, può permettersi di modificarlo: perché sa dove mettere le mani. Come il chirurgo ha davanti a sé un corpo vivente, un organismo governato da leggi necessarie, e deve tagliare con estrema attenzione per non trasgredirle e perdere il paziente; così il regista si deve comportare con l’opera drammaturgica: almeno con quella seriamente e consapevolmente formata.
L’intervento di Gambula mi è sembrato molto interessante perché indica la possibile traducibilità scenica de “La dimora unica”; le difficoltà poste dall’intervento mi sembrano fondate e, comunque, non distruttive della piéce.
@ Sandro Dell’Orco
Da anni non faccio più l’attore “scritturato”. Se decido di trasformare in spettacolo un testo è perché quel testo, in un certo qual modo, mi appartiene; l’universo di senso che apre agevola l’affermazione, e con ciò stesso la trasformazione, della mia particolare “poetica”. Da questo punto di vista, come ho scritto in precedenza, la mia scelta è basata sulla condivisione di fondo di alcune delle istanze che il testo pone. Un atto di rispetto, più che di demolizione.
Ci sono poi, nelle cose che scrivi, problemi di natura squisitamente semiotica. Che cos’è il teatro? Per me la risposta è semplice, persino banale: il teatro è la relazione tra la scena e la platea. Il testo drammaturgico è uno degli elementi della scena, e neanche il principale. Certo che il testo, come affermi tu, ha una sua “forma autonoma”. Ma quella forma, a rigor di logica, non è teatro; è, al limite, letteratura drammatica. Diventa teatro quando entra in gioco l’attore. La verità del teatro è proprio in quello che accade sulla scena.
Questo non è “dogmatismo” o il frutto di una esagerazione personale; è il risultato di un secolo di sperimentazioni e di studi sulla questione, che non a caso hanno puntato a fare emergere il concetto di “scrittura scenica” di contro a quello di “messa in scena”. Ma è anche, se vuoi, il risultato inevitabile della pratica. Le didascalie, se non proprio disattese, non possono che essere distorte, e allo stesso modo il significato di alcune frasi o di interi periodi. E ciò perché il teatro è un linguaggio diverso (iconico?) da quello verbale. Ogni trasformazione scenica è, quindi, interpretazione. E come tale presuppone l’atto di attraversare un linguaggio mediante un altro; presuppone il tradimento. Tu ipotizzi, per il tuo testo, un attore modello che sia in grado di ripetere sulla scena le strategie insite nella pagina. Ma questo attore non esiste. Non può esistere: è umanamente impossibile.
Il teatro è l’arte del qui-ed-ora; la sua contingenza è la sua essenza. Tra dieci anni il tuo testo verrà letto con occhi diversi, perché diversa sarà la nostra contingenza storica e culturale. Potrebbe non essere diversa la sua realizzazione scenica? La filologia, a teatro, è una puttanata. Ma anche la mia contingenza attuale è diversa dalla tua, sono diversi i punti di riferimento, i modelli, le sensibilità. Per quanto possano trovare un punto d’unione nel tuo testo, il fraintendimento fa parte del gioco, e non è detto che la tua idea del personaggio “Arturo”, poniamo, sia più corretta della mia; e anche se coincidesse il modo di intenderlo, il suo precisarsi scenico sarebbe un’altra cosa da quello scritto o da quello pensato: sarebbe proprio un altro universo di senso. Capisco che tu voglia, da autore, salvaguardare la totalità della tua opera; è legittimo. Metti nel conto, però, se vorrai davvero farlo uscire dalla lettera, il suo stravolgimento. Il teatro funziona così.
Nevio Gàmbula
PS: come si comportava, nei confronti dei suoi testi, Beckett regista?
PS II: se il testo, come dici tu, fosse quella forma già data e da rispettare, non avremo avuto gran parte del miglior teatro novecentesco, che non a caso considerava il testo alla stregua di “un serbatoio di parole da usare” (Carmelo Bene dixit).
@Sandro
.. mi scusi se mi permetto, comprendo benissimo il suo desiderio, ma dal momento in cui un testo fuoriesce da lei attraverso l’inchiostro di una penna, è bene lasciarlo andare per la sua strada, incontrerà gente straordinaria, non creda, e questa gente farà in modo che il suo testo viva nei secoli, sempre che sia un testo vivo..
Shackespeare, ancora, ringrazia.. ^__^
Caro Nevio,
valga per noi l’adagio: “amicus plato…” con quel che segue, perché ti stimo moltissimo e provo per te sentimenti di sincera ammirazione e amicizia. E spero che anche per te sia lo stesso. Ciò premesso continuiamo. E anche se volevo rispondere agli scrittori Andrea Caterini, Angelo Ronsivalle e Francesco Tarquini, questi amici non si offenderanno se li farò aspettare ancora un po’.
Mentre io non nego la possibilità da parte tua di creare di un’opera artisticamente valida a partire dal tuo modo di fare teatro – modo che comprende senz’altro anche lo stravolgimento di qualsiasi testo teatrale, Beckett compreso – tu invece, di nuovo, ti allarghi, e neghi dogmaticamente (=senza dimostrarlo) che un testo drammartugico, possa esser partorito dalla testa di un autore già bello e pronto per esser messo in scena. Lasciamo stare la considerazione che sulla scena il testo deve trovare i suoi aggiustamenti, le sue correzioni, il suo adattamento alla realtà sotto ogni punto di vista – questo è così ovvio che ritengo inutile perfino riconoscerlo. D’altra parte lo stesso Beckett regista di sé stesso modificava – a dire il vero in modo estremamente limitato (limava più che altro) – qualche frase del suo testo. Ma ammesso questo, perché mai la fantasia umana non dovrebbe esser capace di immaginare con tutta la precisione necessaria un’azione umana che si svolga per un’ora e mezzo in un ambiente determinato come un palcoscenico? Il linguaggio – parlato o scritto non fa differenza – per fortuna può rappresentare ogni esistente: cose inanimate e animate, persone, movimenti, pensieri, parole e sentimenti: dunque può trasferire sulla sottile pagina bianca tutto un mondo, quel mondo che poi sarà reso percepibile dai nostri sensi sulla scena. Ma continueremo spero, queste considerazioni.
Ti ringrazia e saluta,
Sandro
Capito in questa discussione per puro caso, ma mi chiedo se un equivoco non la stia attraversando. Mi pare limpidamente chiaro che un autore di un’opera teatrale possa immaginare nei minimi dettagli come rappresenterebbe la sua opera. Ma ciò che è nella sua testa (l’allestimento, le scene, i movimenti, le espressioni degli attori) non può arrivare a chi quel testo mette in scena: ci arriveranno solo le parole scritte che, sempre, sono interpretabili in mille modi.
Fu Cesare Zavattini, credo, a dire che nessun regista fece mai un film lontanamente simile a come se l’era immaginato lui, quando scriveva soggetto e sceneggiatura.
Diverso, ma solo parzialmente, il caso in cui lo scrittore e il regista coincidano. La differenza è solo parziale perché anche in questo caso il punto di vista che si ha quando si calca un concreto spazio teatrale è molto diverso da quello che si ha quando si immagina in astratto come rappresentare un testo.
In fondo, in misura minore ma comunque estramemente significativa, ciò accade persino per l’esecuzione musicale. L’esecuzione immaginata dal compositore non aggiunge nulla alle note scritte sullo spartito: e ciò accade persino quando il musicista abbia inciso la sua opera come interprete. Gli interpreti successivi torneranno sempre alla musica scritta sullo spartito — non all’interpretazione propostane dall’autore.
Insomma, lo scrittore teatrale scriva, che all’interpretazione penserà il regista…
@ Sandro
Se non ci fosse, da parte mia, stima nei tuoi confronti non mi sarei permesso di intervenire in questa sede. La tua “dimora” si presta in maniera eccellente ad accogliere il mio plauso. La sua “precisione”, però, che c’è ed è evidente, non è trasferibile sul palcoscenico così com’è scritta. Testo e scena sono due linguaggi diversi. Quale traduzione non implica tradimento? Mi chiedi di dimostrarlo … Ti chiedo:
Sei così certo che il tuo testo abbia un senso univoco, facilmente individuabile?
Non credi ci sia differenza tra lo “spirito” del testo e la sua “lettera”?
Quale spettacolo su testo di Beckett emerge con forza negli ultimi anni? la fedeltà alla lettera di Branciaroli o la creatività irriverente di Robert Wilson o Peter Brook?
Come mai dell’Amleto shakespeariano ne esistono migliaia di realizzazioni differenti, una per ogni attore che l’ha recitato?
Comunque, Sandro, non voglio convincerti. La tua ortodossia d’autore, se così posso esprimermi, la capisco. Il seme, però, non è l’albero.
Nevio Gàmbula
E si, la scena ha un suo linguaggio e così come il lingiaggio testuale dev’essere disposta a lasciarsi interpretare dallo spettatore, che di quel testo e di quell’interpretazione scenica farà quel che vuole: nel suo immaginario, grazie al personale sentire, stravolgerà l’uno e l’altro linguaggio, imponando la personale interpretazione.
Vivaddio che è così!! ^__^ : il pensiero è vivo, l’immaginazione è viva, l’umano è vivo.
Per poter rappresentare con assoluta fedeltà un testo, è necessario accompagnare il testo teatrale con un libretto di “note attuative” che dovrebbe essere, per ampiezza, il triplo delle righe del testo teatrale di riferimento.
.. ma no, no.
Potremmo fare un esperimento(folle):
riportiamo l’inizio del testo di dell’orco e proviamo ad interpretare le prime battute, ci accorgeremmo che, nonostante le note, in ciascuno di noi si aprirebbe un immaginario differente, che dovrebbe essere riorganizzatto da dell’orco stesso attraverso un confronto dialettico con noi(le note non basterebbero più); e se perdipiù pensassimo di poterlo rappresentare, ci ritroveremmo ad arrovelarci sul corpo degli attori: quanto devono essere alti ?, quanto bassi ?, quanto magri o grassi?,la presenza scenica dell’attore è fondamentale: due magri possono avere presenza scenica differente e aprire immaginari visivi differenti; e il timbro della voce quale dev’essere?, un timbro diverso di un attore provoca l’aprirsi di un tutt’altro immaginario uditivo nello spettatore e il ritmo del recitato impone altri immaginari.
Ricordiamoci sempre che ogni spettatore è diverso da un altro, a me un attore magro può far simpatia e tenerezza, uno grasso antipatia e repulsione o viceversa, un timbro acuto può infastidirmi e uno grave ammansirmi e viceversa; qualli decibel deve raggiungere la voce dell’attore?, quanto fondamentale è il ritmo del suo gesto?, è fondamentale la sua corpulenza?, in quale misura?..
C’e’ da impazzirci, e comunque non riusciremmo a soddisfare l’autore.
Tutto questo lavoro interpretativo è la croce e delizia di ciascun regista, non dell’autore, almenoché le due figure non coincidano.
Il regista sa che la sua pièces sarà stavolta dello spettaore, perchè l’autore non dove poter accettare questo inevitabile, nefasto e auspicato destino?
p.s. scusate non rileggo ^__^ non contate gli errori grammaticali
@ Ares (del 19.11.09)
Sono completamente d’accordo con lei. Tanto che non mi opporrei, ma sarei felice e lusingato se Nevio Gàmbula, o qualsiasi altro regista di pari valore, si sentisse così ispirato dalla mia pièce da volerla rappresentare a suo modo, secondo la sua sensibilità e visione artistica, anche stravolgendola completamente per farne appunto un’opera sua. Ma ciò non mi impedirebbe di chiedergli di distinguere l’opera che ha fatto propria dalla mia. Esistono formule apposite per farlo, che rendono giustizia all’autore e al regista, basterebbe scriverle sui manifesti e sugli altri annunci dello spettacolo. Dico questo non per gelosia d’autore, ma perché credo seriamente tanto nell’autonomia artistica del regista, del cosiddetto “teatro di regia”, quanto in quella del “teatro d’autore” – se così posso chiamare il teatro che cerco di praticare, visto che non trovo un nome per esso -, quel teatro che nasce nella testa del drammaturgo già bell’e pronto per la scena. Ritengo che entrambi possano puntare, ognuno con i propri mezzi, a ottenere opere valide, basta che non si confondano, e che si prendano, in riferimento a se stessi e reciprocamente, sul serio. Il regista deve essere consapevole che stravolgendo distrugge la struttura, la vita stessa, dell’opera d’autore, per crearne una nuova, magari altrettanto valida o migliore, ma che non ha che non un rapporto vago e lontano con quella di partenza. L’autore da parte sua deve esigere, per il rispetto che deve a sé e alla propria opera, che quello stravolgimento sia apertamente dichiarato dal regista, e che la pièce col proprio nome sotto il titolo sia eseguita nel rispetto totale delle sue indicazioni e didascalie.
Ringrazio il critico e romanziere Andrea Caterini (Il nuovo giorno, Hacca, 2008), per il suo appassionato intervento e la sua interpretazione. Andrea è un autore che svolge la sua ricerca a partire dalla realtà empirica, ma portandola alle sue condizioni estreme, di rottura, per costringerla a mostrare la vera trama e la vera natura dei rapporti umani e di quelli familiari in particolare.
Ringrazio Angelo Ronsivalle, noto ai più per i due splendidi romanzi d’esordio (Una paura chiamata amore, Fermento, 2003, e Coriandoli, Fermento 2003) ma autore di altri tre romanzi altrettanto belli, e di un ultimo in corso di stesura per una grande casa editrice. Il filo rosso che lega queste opere è l’analisi implacabile, ferocemente illuministica, dell’attuale mutamento antropologico – annunciato per la prima volta in Italia da Pasolini – che ci ha reso insieme orfani delle norme morali e perennemente affamati di esse. Lo ringrazio in particolare per le sue generose (e per me imbarazzanti) frasi alla fine del pezzo.
Ringrazio anche Francesco Tarquini, Docente di scrittura creativa, traduttore e romanziere (Figure di spago, Manni, 2003) il cui proposito estetico non è molto diverso da quello di Caterini, ma che realizza con una tecnica affatto diversa, precipitando nell’inconscio alla ricerca dell’antica ferita che ha lacerato i legami, per lenirla almeno con la benefica luce della coscienza e della poesia. Del pezzo di Francesco ho apprezzato l’arguzia e l’ironia: l’ironia sulla mia ironia soprattutto, che certo c’è, ed è sparsa nel testo “a piene mani” per usare una frase fatta. Il mio – sì, questo lo ammetto – è un testo teatrale pieno d’ironia, ma mi auguro non dell’ironia che tende al cinismo, piuttosto di quella insita necessariamente in ogni opera d’arte, anche la più seria, in quanto “celia di ordine superiore”, come diceva il grande T.W.Adorno.
@Dall’Orco se io fossi un autore teatrale non mi preoccuperei di rivendicare la proprietà di un pensiero, è bene che viaggi libero: mi preoccuperei di più del suo potere contaminante, della sua fondatezza e della sua necessità, non della sua forma espositiva. In ogni realtà socio-politico-culturale necessita della propria particolare modalità espositiva.
Come autore non sarà mai ingrado di controllare l’utilizzo che si fa del suo pensiero. Autori illustri si sono visti interpretati malamente. Fa parte del gioco, perfortuna il suo testo rimarrà, li, scritto, indelebile nei secoli.
p.s.Olte il “teatro di regia”(che spero perda parte della sua indole dispotica, che talvolta è insopportabile) e il “teato d’autore”.. esiste anche il “teatro attoriale”.. queste tre teatralità dovrebbero, tra di loro, scendere a compromesso, ascoltarsi reciprocamente, il risultato, quasi sempre, è di gran pregio.
@ Ares 20.11.09, h. 10,08 – 11,02
Presuppongo, nel mio ragionamento, un elemento oggettivo presente nell’opera, che conduca e costringa il regista – interprete nella giusta direzione. L’opera formata in ogni sua parte, non è qualcosa di relativo, per cui ognuno, a seconda della particolare psicologia, sensibilità o condizione momentanea, può vederci e sentirci ora una cosa ora l’altra. Non ci sono dissòi lògoi nell’opera d’arte riuscita, ma un solo logos, che conduce necessariamente e consequenzialmente l’anima del regista, come quella di qualsiasi altro lettore, dall’inizio fino alla fine di essa. Presuppongo inoltre, ovviamente, che tanto il regista, quanto il comune lettore, abbiano la dotazione minima per cogliere quel logos: dotazione tecnica, spirituale e “pulsionale”.
L’opera teatrale è qualcosa di relativo, così come ogni opera d’ingegno umano, è destinata ad essere contraddetta o riformulata. Le opere classiche non potrebbero essere piu’ rappresentate, se oggi non fossere interpretate e traslate nel contemporaneo. La sua opera è destiata ad essere travisata, forse contraddetta e forse cestinata.. poi forse rivalutata ed osannata. Se ritiene che il suo pensiera sia pronto a sopravvivere nei secoli, non si accalori, non si logori, lasci che della sua opera si faccia quel che si vuole, nonostante tutto avrà vita autonoma.
Ha ragione Mario Giubertoni! E’ una cosa vera per tutte le arti: la musica, il cinema, la moda ecc… E’ come quando uno stilista crea un vestito , ma poi sono le modelle che lo indossano…quando uno stilista vede gli abiti in passerella penso che sia sempre un’emozione diversa…no?
@ Giubertoni @ Alexia
Penso che dopo i miei interventi non si possa più parlare di equivoci. I due ambiti di “teatro di regia” e teatro che ho definito “d’autore” non possono essere confusi. Validi entrambi, ma nel loro campo precisamente definito, e senza intrusioni indebite del primo nei confronti del secondo. Dove l’oggettività del testo d’autore indica al regista il suo percorso, non ci possono essere per lui altre libertà se non quelle esplicitamente concesse dal testo e dalle necessità TECNICHE di trasferimento del testo sulla scena. Ad esempio, nel mio testo, ci sono da buttare giù, in ogni replica, lo strato di intonaco secco, tinta e parzialmente di mattoni che ricopre le due porte da sfondare. Questa mia indicazione non può evidentemente non creare difficoltà di realizzazione anche ad un teatro importante. Ecco, questo è il caso in cui l’autore deve farsi da parte e lasciare al regista e alla sua equipe la gestione della cosa, trovando una soluzione che allontanandosi dal testo ne rispetti la struttura.
E’ vero che se l’oggettività del testo fornisce infallibilmente al regista la via da seguire, tuttavia la presenza dell’autore – almeno finché esiste – alle prove, aiuterebbe senza dubbio la messinscena.
Il malinteso è nel considerare la tradizione drammaturgica come un’insieme di progetti autoriali conclusi. A noi arrivano fissati su carta, dati una volta per tutte, e ciò a dispetto delle innumerevoli prove di non finitezza degli originali. Né la tragedia greca né il teatro di Shakespeare, tanto per fare due esempli clamorosi, erano fondati su testi autonomi dalla scena; erano “copioni”, ovvero “rovine di una partitura”. La volontà di documentare il teatro ha condotto alla fissazione su carta di eventi che in realtà erano molto più complessi (d’altronde non esistevano possibilità diverse di registrazione).
L’idea di teatro come messa-in-scena di un testo che precede l’evento è tutta dell’età industriale, e da noi prende luogo agli inizi del Novecento con l’affermarsi della figura del regista in quanto professione staccata dall’attore (prima c’era il capocomico, attore egli stesso). Antonio Gramsci, nelle sue cronache teatrali, descrive molto bene questo processo di “industrializzazione del teatro”. In questa progressiva omologazione al mercato, l’attore diventava non più autore della performance, ma semplice trasmettitore (dello “spirito” e della “lettera” del testo), che gli arrivava filtrato dall’interpretazione del regista. In questo contesto assume rilievo particolare l’autore.
Nella tradizione italiana, l’autore non corrisponde alla figura del dramaturg tedesco. Brecht, ad esempio, non solo riconosceva il posto decisivo nella creazione all’attore, ma elaborava i testi in stretto contatto con la compagnia, spesso adattando le battute alle voci particolari dei suoi collaboratori e altrettanto spesso modificandole raccogliendo i loro suggerimenti. In Italia, invece, a parte rari casi, l’autore è fuori e sopra la scena, al vertice del triangolo dove le due figure della base sono il regista e l’attore.
Ora, per non farla troppo lunga, dov’è il punto debole del ragionamento di Dell’Orco per come espresso negli ultimi interventi? Nel confermare quel triangolo autoritario, ponendo per l’appunto l’autore al di sopra di tutto. L’autore “indica al regista il percorso”, al quale sono certo permesse delle “libertà”, ma solo “quelle esplicitamente concesse dal testo”. Qui viene meno uno dei fondamenti del teatro, quello che lo rende lavoro d’arte collettivo e comunitario. Se l’autore vive a stretto contatto della compagnia, allora può ricevere suggerimenti, correzioni, e anche scoprire sensi inaspettati presenti a sua insaputa nel testo; se si pone al di fuori del processo o, peggio, al di sopra, potrà contare solo sulla forza della “produzione”: chi mette i soldi sceglie un regista che non deve andare oltre la “lettera”, il quale sceglie poi gli attori che dovranno fedelmente eseguire le sue ipotesi sceniche (e così via gli scenografi, i musicisti, etc.). Ovviamente, in questa condizione ogni interpretazione alternativa a quella dell’autore non sarebbe possibile.
A chi giova tutto ciò? Di sicuro non al teatro; e nemmeno al testo di Dell’Orco.
Nevio Gàmbula
@ Nevio Gambula
Caro Nevio,
oggi avrei voluto esemplificare, con un esempio concreto tratto dal mio testo, il mio ragionamento, ma tu con il tuo intervento mi spingi di nuovo nel generale, verso i fondamenti dell’arte teatrale, persistendo peraltro nel malinteso da cui non riesci a liberarti nonostante le mie continue precisazioni. E allora sono costretto a ripetere ancora una volta che IO CONDIVIDO LA TUA ANALISI SUL TEATRO, in particolare quella succintamente svolta nel tuo intervento precedente, e, se non mi sbaglio del tutto, anche i presupposti filosofico – sociologici che ne stanno alla base e le danno il significato di fondo. In altri termini – non dimenticare che io ti ho visto recitare, conosco i tuoi spettacoli e quindi parlo a ragion veduta – ritengo di condividere con te lo scopo stesso, la finalità ultima del teatro che, come per ogni arte, non può che essere quella (utopica) della piena e concreta emancipazione umana.
Il tuo malinteso origina da due motivi. Da un tua tendenza ad assolutizzare il TUO teatro, a ritenerlo l’unico possibile in questa fase storica, e, (me ne accorgo solo ora), dal fraintendimento del mio testo. Infatti è solo questo fraintendimento che ti consente di considerarlo alla stregua di un testo naturalista o verista – sia pur nella sua fase estrema -, in cui comunque, ancora una volta, vengono rappresentati dei personaggi empirici, storici, per quanto degradati, con un loro Io autonomo, una loro anima, una loro psicologia, dei loro sentimenti, gioie, dolori – insomma dei loro caratteri, così come vengono stampati a fuoco nell’anima di ogni uomo dalla natura e dalla società. E in cui in definitiva viene rappresentata un’azione umana, empirica, storica, sia pur degradata anch’essa come i personaggi, un’azione che nella sua estrema povertà e inconsistenza rimane comunque un’azione umana determinata da un esito del conflitto interiore tra lògos e pàthos, tra nus e thumòs. Ora, per dirla semplicemente, niente di tutto questo mi è più lontano. Niente di tutto questo appartiene alla mia pièce. Dove accade tutt’altro. Ma tu, nell’ansia critica, nel furore iconoclasta, non te ne rendi conto, e piuttosto di confrontarti con cio’ che effettivamente accade nel testo, preferisci sussumermi a categorie bell’e fatte, e gettarmi nel mucchio delle opere ormai superate e inservibili, a meno che, naturalmente, non sia disposto a subire un processo – diciamo così – di rigenerazione da parte tua o di un altro regista con la tua stessa impostazione.
In definitiva direi che non hai compreso la natura profonda di ciò che ho scritto, che esce da ogni canone teatrale ammesso nei teatri e nelle accademie, e che rappresenta qualcosa di assolutamente nuovo. Non che sia stato io a trovare questa strada: essa è stata intravista molti anni fa, tra gli altri, da Sterne e da Poe, ma è stata per la prima volta raggiunta e percorsa con sicurezza da Kafka. E dopo di lui da Beckett. Io, con la mia debolezza, e con le mie scarsissime risorse spirituali, ho osato posare i piedi e incamminarmi su quella strada.
Caro Dell’Orco, ma chi sei tu per poter dire dove va collocata storicamente la tua opera e a quale universo spirituale appartenga?
@ Sandro Dell’Orco
Il mio ultimo commento non era riferito al tuo testo, ma all’idea dell’autore come elemento scatenante della scena, almeno per come l’hai sintetizzato nei tuoi commenti del 20 e 21 novembre. Prendevo di mira l’idea del meccanismo teatrale che trasmetti, che è certo, almeno per me, sbagliata, oltre che impossibile da realizzare al di fuori di un approccio meramente “produttivo”, dove i diversi agenti “obbediscono” all’autore per dovere professionale. Mi riferivo, in particolare, a questo tuo passo:
“Dove l’oggettività del testo d’autore indica al regista il suo percorso, non ci possono essere per lui altre libertà se non quelle esplicitamente concesse dal testo e dalle necessità TECNICHE di trasferimento del testo sulla scena.”
Ebbene, la prova ulteriore dell’errore contenuto in questo atteggiamento è proprio quello che dici rispetto al mio “fraintendimento” del tuo testo. Se veramente lo avessi letto come testo “naturalista o verista” (ma non è così, e nei commenti precedenti avevo esplicitamente parlato di “naturalità apparente”, di assenza di mimesi e di referenti storico-cronachistici), se veramente, cioè, avessi INTERPRETATO il tuo testo in modo diverso da quello da te previsto, ecco che torniamo al punto di partenza, ovvero all’impossibilità di avere una interpretazione univoca del senso di un testo. L’oggettività certamente esiste, ma è sempre relativa, e dipende da tutta una serie di “competenze” che esulano dall’autore. Altrimenti mi spieghi perché su un testo apparentemente semplice come “Aspettando Godot” si svolgono immensi dibattiti? Come sai meglio di me, il conflitto delle interpretazioni su Beckett è ampio e vitale … I suoi sono testi precisi, anche radicalmente autonomi rispetto alla scena, eppure diversamente interpretabili a seconda, appunto, di chi li affronta.
Comunque, a costo di essere pedante, ripeto: nel mio ultimo commento non mi riferivo al tuo testo, ma alla rilevanza che dai alla figura dell’autore. Per questo reputo come irricevibile ciò che dici sul mio gettare il tuo testo “nel mucchio delle opere ormai superate e inservibili”: non ho scritto niente che possa essere letto in questo senso. Può darsi che mi capiti, talvolta, di “assolutizzare” la mia idea di teatro; se permetti, però, anche tu assolutizzi una visione dell’autore che non solo non è centrale nel teatro del Novecento, ma che anzi è l’oggetto polemico privilegiato delle migliori esperienze del secolo scorso.
Ecco, se dovessi tentare una sintesi, direi che, al di là delle consonanze tra le due idee di teatro, che certo ci sono, la tua è una fuori-uscita LETTERARIA dal canone, insomma una presa di distanza testuale, mentre io ne tento una scenica. Come vedi, qui non è in questione la natura della tua “dimora”, ma l’essenza di ciò che è o non è il teatro.
Nevio Gàmbula
L’ultima parte del dibattito mi sembra abbia assunto un filo conduttore veramente metateatrale. Può essere l’autore di una pièce teatrale anche il regista del suo stesso lavoro? Io penso, in linea puramente teorica, che questa ipotesi estrema sia praticabile. Come non ricordare il grande esempio dell’opera d’arte totale di Wagner? Forse siamo tutti un pò nostalgici di quella totalizzazione compiuta. Anche se la contemporaneità (vedi in particolare Odo Marquard), ha bollato quella ‘pratica’ come una forma di estetismo radicale da ripudiare, è necessario ripensarne le fondamenta. Penso che un contributo importante in tale direzione sia venuto dalla querelle tra Heiner Mueller e Wolfgang Rhim a proposito della traduzione musicale de “Die Hamletmaschine”. Un autore, dunque, può anche, sdoppiandosi, essere il regista di se stesso. Anche solo per il fatto di porre, sia pure indirettamente, un simile problema “La dimora unica” si presenta come una pièce di straordinaria attualità.
L’esempio della “Hamletmaschine” è perfetto. La versione curata direttamente dall’autore, che si fece appunto regista di se stesso, è la peggiore possibile, noiosa, monotona, eppure, allo stesso tempo, l’unica che ne rispetta la “lettera”: gli attori si limitavano a leggere il testo, senza implicazioni corporali di alcun genere (con “voce impersonale”). Il dettato dell’autore viene rispettato, ma il teatro scade a litania. Lo stesso Mueller si dovette ricredere dopo avere assistito ad una versione “energica” del suo Filottete; nell’occasione scrisse della necessità, per l’attore, di fare resistenza al testo.
ng
Si dice che difficilmente da un buon libro viene fuori un buon film e che per riuscire nell’impresa non c’è altra possibilità che tradire il libro stesso.
Un po’ come uccidere i genitori se si vuole crescere come individui.
Mi chiedo se la stessa cosa si possa dire di un testo teatrale.
Credo di no. E questo semplicemente perché a differenza del libro, il testo teatrale contiene in sé, seppure in nuce, la messinscena stessa. Trasformare la potenza in atto rispettando lo spirito dell’opera è, dal mio modesto punto di vista, il compito del regista e dell’attore. Un compito che – si badi bene – non è meramente esecutivo, bensì interpretativo, decrittante e creativo, volto a far sì che le intenzioni dell’autore si incarnino nella recitazione, si materializzino nelle scene: insomma diventino teatro.
È possibile questo? Dipende da come il regista o l’attore intendono il proprio ruolo.
Se pensano di essere dei ex machina, risolutori, demiurghi e di poter fare perciò carta straccia del testo, allora il problema è difficilmente risolvibile.
Però a questo punto mi sorge spontanea una domanda: perché anziché stravolgere un testo non ne creano uno nuovo, tutto loro, che corrisponda pienamente alla loro idea di teatro?
@ Nevio Gàmbula
Caro Nevio,
se interpreto bene, credo che con questo tuo pezzo:
“Ecco, se dovessi tentare una sintesi, direi che, al di là delle consonanze tra le due idee di teatro, che certo ci sono, la tua è una fuori-uscita LETTERARIA dal canone, insomma una presa di distanza testuale, mentre io ne tento una scenica. Come vedi, qui non è in questione la natura della tua “dimora”, ma l’essenza di ciò che è o non è il teatro.”
si sia finalmente entrati in un territorio di nessuno, neutrale, ove è possibile un incontro e una reciproca comprensione tra di noi e più in generale tra le tesi che rappresentiamo. Questo pezzo infatti, per la prima volta da quando discutiamo, lascia aperta la porta ad una forma di teatro che non sia quella da te adottata e praticata. Il fatto poi che tu la chiami “letteraria” non la limita, né la sminuisce, ma la secondo me la caratterizza in modo abbastanza preciso. Ma su questo e su altro, in particolare su ciò che io chiamo OGGETTIVITA’ del testo, che chiaramente non sono riuscito a spiegare, a più tardi.
Cari saluti
@ angelo ronsivalle
Caro Angelo,
condivido il tuo post. Soprattutto per la riaffermazione decisa dell’oggettività vincolante del testo. Ti ringrazio per essere intervenuto.
@ Sandro
Sì, interpreti bene, anche se non credo di avere espresso cose diverse nei precedenti interventi … Chiamare “letteraria” un’opera non è ridurla, è solo metterla in una casella diversa da quella della “performance”. Come ho già scritto, sono due linguaggi differenti. Non è questione di quale è meglio e quale peggio, ma appunto di segnare delle differenze strutturali: differenze di sistema. Si possono incontrare? Certo, e lo fanno regolarmente, a più livelli. Per così dire, risuonano una nell’altra modificandosi a vicenda …
Io trovo persino banale che un testo, per quanto “preciso”, venga decifrato servendosi di un codice diverso da quello di chi l’ha scritto; il testo (mi servo di Jurij Lotman) è sottoposto a una nuova codificazione: per quanto “grandiosa o aberrante sia la decodificazione [del lettore], la responsabilità finale del significato e della coerenza di ciò che costruisce è sua”. Per quanto il “lettore”, regista o attore che sia, possa essere competente o familiarizzare con l’humus dell’autore, “non c’è mai perfetta coincidenza tra i codici” di chi scrive il testo e i codici di chi lo interpreta. Le cose si complicano ulteriormente nella traduzione scenica, e quindi corporale, del testo. Ma ho già detto molto sull’impossibilità FISICA, e quindi OGGETTIVA, di rispettarne la “lettera” … In fondo, se il discorso drammatico fosse auto-sufficiente già nel testo, la performance sarebbe del tutto superflua …
@ Angelo Ronsivalle
Il problema non è che l’attore si creda demiurgo od altro; il problema è che sulla scena ci sta l’attore e nessun altro. Possibile che questa “semplicissima verità” non dia da pensare? Dove sta scritto che l’attore deve limitarsi a interpretare il testo dell’autore? In quale manuale di storia del teatro, in quale saggio di semiotica, in quale studio? Il teatro è il regno dell’attore. Tutto il resto è accessorio; può esserci come non esserci …
Nevio Gàmbula
“Il teatro è il regno dell’attore. Tutto il resto è accessorio; può esserci come non esserci …”
come spettatrice per me è evidente, senza il corpo dell’attore non c’è teatro
@dall’orco e ronsivalle..
L’oggettività vincolante del testo ?.. ma cosa intendiamo ??.. il testo è vincolante nel momento in cui sulla carta vive, ma nel momento in cui ha l’ardire di vivere tra gli uomini ogni oggettività del testo deve fare i conti con la relatività e necessità dell’umano.
Un testo teatrale non contiene la messinscena, questa affermazione è totalmente fantasiosa, avete mai aperto un testo teatrale e visto fuoriuscire, luoghi teatrali, corpi, voci, luci, suoni, odori, sudori, energie, atmosfere..etc.. forse si, ma erano tutte dentro alla vostra autoreferenziale corteccia celebrale.
La messinscena è data solo nel momento in cui un attore, un regista, e un autore cominciano a ragionare sul testo(che puo’ essere scritto, ma anche no) e decidono da li a poco di far fuoriuscire il corpo del testo teatrale e procedere poi alla sua messinscena, che NON è presente nel testo. Nel testo ci sono solo suggestioni, evocazioni sceniche, nulla di più.
@ronsivalle.. gli autori stessi spesso scrivono utilizzando parole altrui; ogni prodotto d’ingegno umano non è mai un prodotto originale.
E’ auspicabile un teatro dove le tre figure principali coincidano o perlomeno collaborino senza dispotismi, tenendo sempre presente che il ruolo attoriale è determinante.
Il dibattito si sta facendo sempre più stringente. La riuscita, da un lato, e il fallimento, dall’altro, della “Hamletmaschine” di Heiner Mueller è vermante sintomatico. E’ auspicabile che l’esito della “Dimora unica” sia profondamente diverso!
@ Nevio
Voglio sperare (e verificare) che il nostro terreno comune, sia veramente tale. E allora ribadisco, sperando stavolta che tu sia d’accordo, che una volta stabilita la differenza tra “performance” e teatro ” letterario” (come abbiamo deciso di chiamarlo), e stabilito il loro pieno diritto di cittadinanza nel mondo teatrale, il testo del teatro “letterario” sia vincolante per il regista e per gli attori. In altri termini, l’aggettivo “letterario”, da te introdotto per connotare il mio concetto di teatro e la mia pièce, a me sta benissimo, ma solo se connota UNO SPECIALE TIPO DI TEATRO – distinto appunto dalla “performance” o da altri tipi di teatro attoriale e di regia – in cui tra l’altro il testo, sulla base di una propria oggettività estetica, vincoli registi e attori al rispetto delle note e delle didascalie (nei limiti dell’umano naturalmente). Il termine “letterario”, per essere più preciso, non deve essere inteso nel senso che che essendo letterario, il testo deve rimaner fuori della scena, o rientrarvi solo attraverso l’esame e le libere modificazioni del regista, ma nel senso che il meccanismo di composizione della pièce, nella testa dell’autore, è stato di tipo letterario, e riferito a un particolarissimo tipo di letteratura
E la morte
per soffocamento
del teatro, fu.
@dell’orco..
va bene, facciamolo, ma una volta sola e per poche reppliche .. e_-
@ Ares
Quello che lei dice è valido per il 99,9999 % dei casi. Ma si può dare uno strano teatro in cui lo spostamento millimetrico dell’arcata sopraccigliare di un attore, se non effettuato esattamente come in didascalia, fa cadere la pièce nella più assoluta insignificanza.
Ovviamente riferivo il mio post precedente a quello di Ares delle 13,06, e non ai suoi successivi.
Quello che intendo dire è che il testo dell’autore non è uno strumento recitativo come può essere il grammelot. Esso non è un insieme di suoni privi di significato che l’attore assembla e usa secondo un proprio scopo. Col testo l’attore ci si dovrà comunque confrontare o no? Altrimenti non si capisce perché ha scelto un testo anziché un altro. Ci si confronterà utilizzando le tecniche e gli strumenti che crede più idonei, ma dal testo non potrà mai prescindere. E se non potrà prescindere dal testo tanto meno potrà prescindere dal “metatesto” che l’autore evoca nella speranza che attori e registi lo trasformino in teatro, cioè in un corpo che pulsa e che vive ogni volta che va in scena.
Per verificare un mio pensiero sulla resa scenica della “dimora” di Dell’Orco, oggi mi sono preso lo sfizio di far provare ad alcuni miei allievi (di recitazione) la lettura ad alta voce di una parte del testo. Il risultato conferma la mia idea iniziale, ovvero la necessità, per mettere in luce lo “spirito” allegorico del testo, di straniarne la realizzazione. Vediamo se riesco a spiegarmi.
Tutti i quattro che ho fatto ruotare nella lettura traducevano il testo secondo le elementari regole della pronuncia, colorendo le battute quel che basta per darne una interpretazione recitativa. Affrontavano il testo come un qualsiasi altro testo drammaturgico: data la situazione di contesto e i personaggi, dato per assodato il carattere vincolante delle indicazioni autorali, e tenendo in considerazione le regole minime della recitazione, ne hanno proposto una ipotesi interpretativa. A tutti, me compreso, veniva da leggere con molta naturalezza, direi proprio naturalisticamente. Tutti i tempi, le micro-variazioni tonali, le pause, risolvevano il testo nella piena coincidenza del significato col modo di portarlo sonoramente. D’altra parte, non c’è scampo; una sequenza del genere
ARTURO Non insistere Sergio, io sono buono e comprensivo, ma se tu, invece di aiutarmi, mi complichi la vita, potrei anche decidere di fare a meno di te.
SERGIO (In tono sicuro) Non avresti mai il coraggio di farlo.
ARTURO (Dopo una breve pausa di riflessione) E’ vero, ma tu non approfittarne, potrei sempre metterti in punizione.
SERGIO (Ironico, aprendo le braccia a indicare l’assenza di altri luoghi oltre la stanza) E dove?
ARTURO (Serio, indicando l’angolo sinistro del palcoscenico, verso il fondo) Magari laggiù, in quell’angolo, a faccia al muro. Lo sai che ne sono capace.
SERGIO E io ci andrei secondo te? Non sono mica il tuo servo.
ARTURO (Irritato) Se non ci andassi ti ci porterei a forza, e a calci nel sedere! (Pausa. In tono più calmo) Ma non litighiamo, e vediamo invece di collaborare… Senti, ti piace questa stanza?
una sequenza del genere, dicevo, non si presta a fraintendimenti e la sua esecuzione non presenta eccessive difficoltà. Mi sono allora posto un problema: tutto il testo è giocato su dialoghi di questo genere; benché ci siano, ogni tanto, segnali allegorizzanti, tali da permetterne una lettura non mimetica, questi si perdono però nella miriade di parole di cui è composto il testo. Ora, alla lettura, senza cioè le azioni, la durata si avvicina alle due ore; lo spettacolo intero durerebbe sulle due ore e mezza abbondanti. Per i meccanismi percettivi e di attenzione degli spettatori, è normale che si perdano dei passi anche importanti per la comprensione dell’insieme. Ascoltare in platea non è come leggere seduti in poltrona. Ribadisco: la lettura è venuta spontaneamente di tipo “psicologico” …
Non si può contare, ai fini della comprensione del tutto, sulla struttura claustrofobica immaginata. Questo non perché non sia efficace, ma perché è familiare allo spettatore di teatro contemporaneo. “Il ritorno” di Perriera, ad esempio, presenta una struttura analoga, con il diluvio, tre superstiti su una zattera (uno si scoprirà essere Dio), la voglia di scendere a terra, etc.. Ma anche il Mueller citato in precedenza, in “Quartetto”, prevede un’ambientazione dentro un bunker dopo la catastrofe nucleare, così come alcuni drammi di Schwab; “I manoscritti del diluvio” di M. M. Bouchard, per finire questa carrellata casuale, presenta forti analogie con la “dimora”, anche in sede di struttura scenica con funzione di “metafora allargata”. Ecco, sì, FAMILIARE è il termine corretto, con tutte le implicazioni brechtiane del caso …
Insomma, per quanto mi riguarda confermo le mie prime impressioni: solo una messa in tensione straniante può rendere efficacemente questo testo (rimando alle ipotesi realizzative di cui ho parlato in precedenti commenti, confermandone la bontà di fondo). Questo risponde ai vincoli posti dall’autore? Non lo so; ma se ho compreso bene cosa scritto da Dell’Orco in precedenza, direi di no.
La domanda a questo punto è: come si stabilisce qual è l’ipotesi più sensata? Io, nella mia cocciutaggine, direi PROVANDO SUL PALCOSCENICO. Ma io, come s’è ormai capito, sono solo un attore …
Nevio Gàmbula
@ Angelo Ronsivalle
Certo che l’attore si confronta col testo, ma chi ha mai detto il contrario? Io metto in dubbio che i VINCOLI posti dall’autore siano rigidamente rispettabili. Tutto qui. Ed essendo io quello che va in scena, se permetti un po’ di voce in capitolo la posso anche avere … Comunque, per me il rapporto tra testo e scena è di RECIPROCA RISONANZA. Quando vengo messo di fronte a vincoli così forti, inizialmente, se stimo l’autore, faccio notare l’insensatezza, dopodiché, se l’autore conferma la rigidità saluto tutti e amici come prima … E tieni presente che, in teatro, l’autorialità non si misura sulle “intenzioni dell’autore”, ma sulla manipolazione creativa dei materiali secondo una data consapevolezza tecnica. E allora, per me e non solo per me, autore dello spettacolo non è quello che scrive il testo ma chi gestisce la performance.
ng
[…] due post interessanti su Nazione Indiana. Il primo è una discussione sul rapporto tra il testo drammaturgico e la scena, a partire da La dimora unica di Sandro Dell’Orco. Il secondo, un video di Orsola Puecher su […]
@ Nevio Gàmbula
Caro Nevio,
avrei voluto esser con te alla lettura di ieri. In fondo sono molto meno sicuro di quanto posso sembrare sulla possibilità di messinscena della “Dimora”. Mi manca appunto il contatto con gli attori, il regista, le tavole del palcoscenico, mi manca la situazione reale, la “performance”. La questione delle due ore, due ore e mezza, per esempio, non è cosa da poco, potrebbe costringermi a tagliare qualcosa… Sul problema degli elementi, come dici tu, allegorizzanti, ritengo invece di dissentire da te. Non esistono degli elementi allegorizzanti singoli, rilevanti, macroscopici, annegati in un mare di battute normali, para-naturalistiche, che appunto bisognerebbe straniare in modo opportuno, per riscattarle al loro vero significato. Esistono delle punte, diciamo così, di allegorizzazione, ma sono creste di onde che si sollevano da un mare di ironica allegoria. L’ironia e l’allegoria, sono la sostanza profonda di ogni battuta, di ogni espressione, di ogni azione. Tutto deve dare il senso di essere concreto, presente, reale, empirico, di appartenere a questo mondo, e insieme di non esserlo, di appartenere ad un altro mondo. Lo spettatore e lo stesso attore devono “respirare un’aria di altri pianeti”, senza riuscirsi a spiegare da dove come possa giungere fino a loro. Ma questa magia (che è la magia dell’attimo in cui si solleva il palcoscenico di qualsiasi teatro, e che muore quasi sempre con l’inizio dello spettacolo) è resa possibile da un’esecuzione attoriale particolarissima – ed è questa estrema particolarità del ruolo dell’attore che è al fondo della nostra reciproca incomprensione. Descriverla qui non è cosa semplice. Sicuramente richiede il rispetto delle didascalie e delle note, ma direi senza interpretarle, cioè senza presupporre ad esse un contenuto concettuale – psicologico – emotivo che le motivi. L’attore si deve abbandonare alle didascalie come un bambino piccolo si lascia condurre per mano dalla mamma, ignorando la meta e lo scopo. Tutto ciò può sembrare provocatorio, ma non vuole esserlo. E’ solo necessario alla rappresentazione secondo me giusta della “Dimora”. I personaggi sono e non sono. E la loro inessenza deve apparire.
Vi ringrazio tutti, te e i tuoi cari allievi che mi avete onorato con la lettura del mio testo.
Con affetto e stima,
Sandro
ALCUNE BREVI NOTE DI REGIA PER LA MESSINSCENA DE “LA DIMORA UNICA”
Il lavoro andrebbe recitato IN TOGLIERE. Senza che alcuna interpretazione psicologica, sociologica, politica, filosofica, religiosa dei personaggi e del contesto influisca sulla recitazione. C’è solo quello che appare: una stanza e dentro tre persone. Gli unici stati d’animo ed espressioni sono quelli indicati nelle didascalie. Non se ne possono dedurre altri. I personaggi non hanno altra vita che quella indicata nel testo. Immaginare una loro vita al di fuori del testo è sbagliato. Essi esistono solo nel testo, nelle singole battute e azioni del testo, non altrove.
Dati questi presupposti, all’attore spetta un compito particolarissimo e difficile, che può essere inteso come degradante se confrontato al suo ruolo normale, quello del teatro otto – novecentesco, ma che invece è perfettamente adeguato al particolare tipo di teatro cui appartiene la “Dimora”. Egli deve innanzitutto rinunciare ad interpretare un altro IO, un’altra anima. In tal modo egli viene a trovarsi nel nulla: non è più un altro, ma non può essere nemmeno se stesso perché è su un palcoscenico come attore. A questo punto la singola didascalia, la singola battuta, diventano per lui la salvezza: egli, che non è nessuno, che è senza anima, depersonalizzato, senza IO, diventa QUALCOSA, immedesimandosi – al di fuori di ogni riflessione – con lo stato d’animo imposto dalla didascalia o dalla battuta. Egli deve diventare come un animale, o come un uomo del paleolitico, deve imparare a vivere hic et nunc, istante per istante, senza un IO, senza una personalità accentrante che lo proietti nel prima e nel poi attraverso il logos e la memoria. Egli, l’attore, non si deve perdere in un altro IO, ma deve perdere il suo stesso IO, e ridiventare l’essere mitico che tutti eravamo, vagolante tra i richiami fascinosi e misteriosi della natura. Essendo ora una cosa ora l’altra, ora felice, ora affamato, ora addolorato, senza consapevolezza, tutt’uno con la propria percezione del momento, senza pensiero, e quindi senza il minimo raccordo unitario delle varie percezioni. L’attore non deve diventare un altro IO, ma lo stato d’animo stesso imposto dalla didascalia: continuando per tutta la durata della pièce a non essere nessuno, nient’altro che quel decorso irriflesso e completamente acefalo di stati d’animo imposti dal testo. Che così diventa il suo dominatore assoluto, il suo Dio, il suo IO fuori di lui, come nella preistoria e come oggi negli animali.
Insomma, Sandro, vorresti che quello che hai scritto fosse messo in scena?
Se sì, perché? Se no, com’è? Oppure va be’? Eh?
Le note di regia prospettate dall’autore sono un manifesto di quello che nella mia recensione ho definito ‘teatro dell’autenticità’, d’ascendenza kierkegaardiana. Constato, dunque, che il dibattito sta ruotando in modo pertinente intorno al nucleo focale del mio intervento.
Lunedi 23 novembre 2009 è apparsa sul sito http://www.samuelbeckett.it una recensione di Federico Platania sul mio libro. La inserisco qui quale contributo alla discussione.
“LA DIMORA UNICA” DI SANDRO DELL’ORCO
La dimora unica di Sandro Dell’Orco, pièce teatrale in tre scene da poco edita per i tipi di Manni, rientra di diritto in quella indefinibile ma necessaria terza categoria della mia bibliografia beckettiana composta da quei testi che non sono né di Beckett né su Beckett ma che con Beckett hanno molto, moltissimo, a che fare.
Si affianca, ad esempio, ai racconti di Osvaldo Guerrieri (L’ultimo nastro di Beckett, Aliberti, 2004) e ancor di più a Wordstar(s) di Vitaliano Trevisan (Sironi, 2004). Ma se questi due testi raccontavano (il primo) e mettevano in scena (il secondo) Beckett come personaggio, La dimora unica porta sul palco due personaggi che si rivelano beckettiani fin dentro il midollo.
Arturo e Sergio, questi i nomi, uguali nel vestire, il primo più anziano del secondo, si ritrovano chiusi in una stanza spoglia. Eccettuato il fugace incontro con un personaggio femminile tutta la tensione drammatica si snoda attraverso i gangli del dialogo, nel confronto-scontro tra i due, nel basso continuo dei temi ora altisonanti ora futili che la coppia affronta nella conversazione.
Pur giocando spesso su registri in contrasto (dal lessico filosofico si passa repentinamente a espressioni volgari, e viceversa) la lingua è lontana dall’oralità, coscientemente letteraria (come sempre in Dell’Orco, del resto, di cui ricordo qui almeno il romanzo Delfi pubblicato due anni fa da Hacca). È senza dubbio un “teatro di parola” quello proposto dal testo, assai distante (sebbene non del tutto separato) dal “teatro di regia” oggi presente sulla maggior parte dei palcoscenici.
Ma non voglio insistere in un’analisi troppo approfondita del testo in senso lato (anche se ho avuto l’impressione che stavolta Dell’Orco abbia giocato più sulla forma andando a indebolire la carica allegorica dei contenuti, che risuona più forte nei suoi precedenti romanzi): da curatore di http://www.samuelbeckett.it preferisco commentare La dimora unica dal punto di vista strettamente beckettiano.
Ebbene, la pièce di Dell’Orco è una sorta di arabesco delle opere dell’Irlandese, una specie di matrioska godottiana dove ogni riferimento al teatro di Beckett ne nasconde un altro, e così via.
Due i grandi capolavori che Dell’Orco sembra aver tenuto sulla scrivania durante la stesura della sua pièce: Aspettando Godot e Finale di Partita (a cui aggiungerei, forse, Giorni Felici, per certe allusioni alla possibilità, vagheggiata dai personaggi, di suicidarsi – allusione che, del resto, è già un rimando interno beckettiano, visto che compare in entrambi i capolavori poc’anzi citati – e un testo che non è di Beckett ma che pure mi sembra di sentire risuonare ogni tanto tra le pagine: Porta chiusa di Sartre).
Il rapporto tra Arturo e Sergio (forse padre e figlio, come Hamm e Clov), la casa bunker in cui si svolge l’azione, la catastrofe che la circonda, l’umanità forse estinta, sono chiari omaggi a Finale di partita. Ma è la struttura dei dialoghi a incollare immediatamente le pagine de La dimora unica ad Aspettando Godot (e più ancora, direi, al romanzo Mercier e Camier che del Godot rappresenta l’acerba e leggera prova d’orchestra).
Al lettore appassionato dell’opera di Samuel Beckett consiglio di leggere La dimora unica come una caccia al tesoro alla ricerca delle numerose tracce beckettiane disseminate nel testo (non sarà una ricerca difficile). Se poi questa caccia al tesoro divertirà o annoierà, questo solo ogni singolo lettore beckettiano potrà dirlo.
Anche l’ultima recensione dedicata a “La dimora unica”, chiamando in causa i rapporti diretti ed indiretti con S. Beckett, dimostra quali siano i due filoni a cui ha sostanzialmente attinto l’ispirazione di Sandro dell’Orco: da un lato appunto la linea che in maniera approssimata posso definire Kafka-Beckett, dall’altro quella che ho chiamato la lezione intrinsecamente meta-teatrale de “La dimora unica”; anche se sono convinto che queste due linee di pensiero possano ricongiungersi compiutamente.
Il ricongiungimento della riflessione sulla vuotezza-vanità dell’esistenza e quella di un teatro che ha la capacità di rimettersi in discussione sono due coordinate di pensiero speculari e complementari. L’una, la prima, può essere considerata la premessa dell’altra, la seconda. Riflessione sull’esistenza ed impianto meta-teatrale costituiscono l’originalità del taglio del lavoro di Dell’Orco; la prima o la seconda possono anche ritrovarsi in altri tentativi teatrali ma è molto raro trovarne uno, come “La dimora unica”, in cui i due orientamenti possano giustificarsi e sorreggersi reciprocamente.
Forse, a leggere bene le note di regia di Dell’Orco, si potrebbe dedurre che recitare è agire, sul palcoscenico, nelle condizioni imposte dalle didascalie e dalle battute. Il processo che porta l’attore a questo risultato è una sorta di psicotecnica: togliere se stessi, spurgarsi completamente del proprio Io, per donarsi completamente allo “stato d’animo” del personaggio. Una sorta di possessione. O, se colgo bene il senso di quanto scritto da Dell’Orco, una sorta di stato di trance dove l’attore sospende la coscienza, così come avviene negli sciamani. Non a caso Dell’Orco chiude citando la “preistoria” e gli “animali”, dove la reazione agli eventi è condotta non già (non ancora) dalla razionalità (“logos” e “memoria”), ma dalla spinta emotiva nata in risposta alle imposizioni del medium (“gli stati d’animo imposti dal testo”). Arretrare da se stessi per abbracciare “un altro Io” … Ora, qui risiede l’essenza del lavoro dell’attore, che sempre si fa, in un certo senso, possedere da un altro da sé; sempre svanisce nel personaggio (che è l’insieme delle didascalie e delle battute). Fa quindi bene, Dell’Orco, a tirare in ballo il concetto di immedesimazione, ché proprio questo è il nome che storicamente è stato dato al processo di annullamento dell’Io dell’attore dentro un Io che gli è esterno. Qui, però, almeno per me, cominciano le differenze, dal momento che la storia del teatro ci ha consegnato anche un altro modo di diventare posseduti: possedere a propria volta. Possedere l’altro ed esserne posseduto. Questa è la dialettica dello straniamento, ed è anche il programma del “doppio” di Artaud. Dov’è la differenza? Che in questa visione “distaccata” della recitazione lo stato di trance è finto; tutto avviene lucidamente, e l’attore mette in gioco, nel processo, sia il logos che la memoria. In sede di prova, esistono delle tecniche appropriate per raggiungere quello stato particolare di sospensione della coscienza, lasciando il corpo libero di reagire alle sollecitazioni esterne; solo che il processo teatrale prevede, trovata l’azione adeguata, la fissazione in partitura e, successivamente, la ripetizione. Il processo, insomma, non può essere condotto senza l’intervento della razionalità. Solo questo, almeno per me, rende difficoltoso accogliere interamente le note di regia di Dell’Orco. Si può “essere nessuno”? Si può, cioè, così come scrive Sandro, essere “senza pensiero” durante il compimento dell’atto teatrale?
Nevio Gàmbula
Secondo Nevio Gàmbula io sosterrei, nelle note di regia di qualche giorno fa, che sul palcoscenico occorra “togliere se stessi, spurgarsi completamente del proprio Io, per donarsi completamente allo “stato d’animo” del personaggio. Cioè “arretrare da se stessi per abbracciare “un altro Io””. E ne conclude che “qui risiede l’essenza del lavoro dell’attore, che sempre si fa, in un certo senso, possedere da un altro da sé; sempre svanisce nel personaggio (che è l’insieme delle didascalie e delle battute).” Ora, questo non è esatto, io non ho affermato questo, anche se – lo ammetto – il contenuto delle mie affermazioni era così particolare e inusuale, e le parole a mia disposizione così sclerotizzate attorno ai loro significati consueti, che il fraintendimento era fatale. Io volevo dire che l’attore deve rinunciare – nel caso della Dimora unica – al suo ruolo tradizionale di interpretare e immedesimarsi in un’altra anima, un altro IO. Non deve cioè spogliarsi del suo proprio IO anagrafico, empirico, per acquisirne un altro: quello di Sergio, Arturo o Elvira (i personaggi appunto della “Dimora”). Egli deve invece spogliarsi del proprio IO anagrafico, empirico, e rimanere quale pura marionetta di carne a disposizione dei diktat, degli ordini ineludibili costituiti dalle battute, dalle didascalie e dalle note che gli competono. Più o meno (ma lo dico solo per farmi capire) come quando un paziente si mette nelle mani dell’ipnotizzatore. In quest’ultimo caso infatti vengono indotti nel paziente sentimenti, stati d’animo, comportamenti, discorsi, addirittura sensazioni dolorose, piacevoli, o vere e proprie anestesie, che sono incoerenti con la sua condotta normale, e completamente avulsi dalla sua riflessione e dalla trama cosciente del suo IO, il quale ha appunto abdicato a quello dell’ipnotizzatore. E’ solo un esempio, si badi, ma serve bene allo scopo di semplificare il mio pensiero. Come l’ipnotizzato NON ASSUME la personalità dell’ipnotizzatore (che non conosce nemmeno, nella maggior parte dei casi), ma PROVA la specifica sensazione dolorosa o piacevole, o ESEGUE NECESSARIAMENTE il particolare comportamento fisico o verbale che l’ipnotizzatore gli ha ordinato, senza assolutamente ragionarci su; così l’attore NON DEVE IMMEDESIMARSI IN NESSUN PERSONAGGIO, NE’ ASSUMERNE LA PERSONALITA’, ma deve eseguire e provare quanto imposto dal testo, che diventa così il suo padrone assoluto, la voce di una volontà che lo obbliga a fare e a percepire tutto ciò che ha deciso. L’attore non si deve confrontare con il personaggio, ma con il testo e i suoi ordini. Almeno nella “Dimora unica”.
Nevio Gambula pone poi questa domanda: “Il processo, insomma, non può essere condotto senza l’intervento della razionalità. Solo questo, almeno per me, rende difficoltoso accogliere interamente le note di regia di Dell’Orco. Si può “essere nessuno”? Si può, cioè, così come scrive Sandro, essere “senza pensiero” durante il compimento dell’atto teatrale?”
Ad essa non ho esplicitamente dato una risposta, ma con l’intervento precedente ne ho fornito i presupposti, il quadro concettuale in cui bisogna muoversi per darla.
Scusa, Sandro, ma i tuoi ultimi commenti confermano la mia lettura delle tue note di regia. Forse l’incomprensione è dovuta al fatto che tu consideri il personaggio un qualcosa di diverso dalle didascalie e dalle battute, mentre per me ogni personaggio, essendo prima di tutto scritto, è fatto di didascalie e battute. Il personaggio non è qualcosa che trascende il testo, ma è dentro di esso, ne è parte integrante; tu stesso chiami “personaggi” Arturo, Elvira e Sergio. E quando chiedi all’attore di “eseguire e provare quanto imposto dal testo”, gli stai chiedendo di cancellarsi in esso …
Rispetto, poi, all’essere “nessuno” o “senza pensiero”, e quindi alla mia domanda se sia possibile ottenere lo svuotamento di sé durante l’atto teatrale, ebbene, non hai risposto. I “presupposti” che dai non forniscono appigli pratici. Ripeto: la ripetizione e la fissazione in partitura delle azioni sono una delle essenze del teatro; come possono darsi creativamente senza l’intervento della ragione (quello che tu chiami “logos” e “memoria”)? Io, molto semplicemente, lo reputo umanamente impossibile. Ma ho anche delle riserve etiche sul perseguire una strada che somiglia molto all’annullamento della coscienza del tossicomane.
Forse, a questo punto, prima di proseguire con la discussione andrebbe fatta una “verifica dei nomi”, ovvero del senso che diamo ai termini che usiamo o ai concetti che mettiamo in gioco. Altrimenti continuiamo a stare nel fraintendimento.
Nevio Gàmbula
Credo che Nevio Gambula e Sandro Dell’Orco abbiano ragione entrambi. Basta mettersi d’accordo sulle definizioni e sui concetti che vi sono dietro. Ribadisco quelli che, nella mia ottica peculiare, sono i termini essenziali del problema. Senso del’esistenza ed autenticità del personaggio possono trovare un ricongiungimento compiuto senza ricorrere a forme di banali eclettismi. La rappresentazione teatrale non è fine a se stessa ma individua la cifra contemporanea dell’esistenza che non può che essere declinata esteticamente.
Caro Nevio,
dicendo, con la tua solita acutezza, “Forse l’incomprensione è dovuta al fatto che tu consideri il personaggio un qualcosa di diverso dalle didascalie e dalle battute”, ti sei avvicinato moltissimo al senso del mio discorso.
Ma di questo e di tutte le altre questioni poste, a più tardi.
Grazie intanto per l’appassionata partecipazione alla discussione in corso.
Sandro Dell’Orco
Caro Sandro (e cari Indiani),
nel momento in cui avevo deciso di intervenire a proposito del tuo “Dimora unica” mi sono distratto. La vita quotidiana svirgola spesso e l’ozio creativo che inseguo si riempie
di incombenze anche piacevoli a cui non so rinunciare. Quando sono tornato a bomba- per merito di una bellissima tempesta di vento e pioggia – ho trovato la piacevole sorpresa di un dibattito dotto e focoso sul Teatro. E penso che “Dimora Unica”, al di là di ininfluenti e contingenti critiche che ti ho fatto personalmente, lo meriti ampiamente.
Sulle prime ho esultato ma poi, leggendo, sono riemerse ruggini antiche e recenti: fior di filosofi, scrittori e poeti che discettano – da Diderot ad Artaud per arrivare a Beckett etc – su condivisibili enunciati di principio, senza aver mai praticato un qualche esercizio di scrittura per il teatro, perché, e solo nel nostro disgraziato Paese, nella vasta foresta dello spettacolo, solo Musica e Cinema sono le ambite prede dei nostri intellettuali, Non si tratta di un giudizio di qualità relativa – cattivo cinema e cattiva musica ci circondano tanto quanto cattivo teatro – ma un pregiudizio di merito ben radicato ( a questo proposito sarebbe interessante una indagine storica sull’influenza della Chiesa controriformista) che considera il Teatro un’arte minore, buona solo per l’esercizio di analisi letteraria dei testi classici del passato (poco Goldoni e molto Pirandello per rimanere alla nostra asfittica squadra nazionale) e le loro messe in scena un succedaneo ininfluente.
Perfettamente in linea con il comune sentire, ancora tutto e solo ancora italiano, che considera chi fa teatro un Peter Pan che pesa sulle spalle di chi veramente lavora, un pressappochista della cultura a cui non si riconosce ruolo sociale, Opinione corrente, del resto, in Parlamento e nei Governi di destra e sinistra. Un “gioco” in senso peggiorativo, non il nobile “play , e del resto in italiano esiste solo quella bestemmia semantica che è “re-citare”.
Non sto ad annoiare sulla natura del Teatro – la conoscete – ma non vi piace perché, nel praticarlo, sfugge a definizioni e certezze assolute, è un’ibrido di ogni altra disciplina che offre solo poche maniglie teoriche, quelle di base, come la farina rispetto agli ibridi infiniti del pane.
Se invece si parla di musica ovvero di teatro musicale beh, tutti si accendono d’entusiasmo, lì c’è una partitura “chiusa” da rispettare, l’autore è l’Autore, e si dimentica o si ignora che tutte le nostre icone, Verdi compreso, la variavano a seconda della sensibilità del pubblico – Napoli piuttosto che Milano o Venezia- e dei mezzi tecnici ed espressivi degli interpreti. Che comodità e quando bel lavoro filologico adesso, con un Canone da stabilire e rispettare!
La parabola discendente dell’interesse di scrittori e varia umanità letteraria è più recente: nel ’50 e inizi ’60 ultimi sospiri , fino al finale di Pasolini e Tesori finalizzata all’esodo verso sceneggiature di film, riduzioni televisive di romanzi, parolieri di canzoni fino alle miserie dell’intrattenimento televisivo di massa.
Dopo? Solo roba d’occasione fino all’attuale ridicola e narcisistica autocitazione monologante di scrittori, giudici, giornalisti etc spinti da furore civile e dal denaro facile che può dare un pubblico già convinto che si sente rassicurato.
In altri Paesi, tutti si badi, non solo l’eldorado franco-anglo-tedesco, uno scrittore o filosofo o poeta si fa un punto d’onore d’avere la necessità di almeno provare una volta con il Teatro. Risparmio la lista dei più noti, vi basti sapere che perfino Claude Levi-Strauss, nel profondo della Selva Amazzonica e della depressione, sentì il bisogno, non già di scrivere versi come avrebbe fatto un nostro crociano rappresentante, ma sic e simpliciter un testo teatrale sul Potere, un “Giulio Cesare”.
Tutto comprensibile d’altronde. Tempo fa mi è capitato d’incoraggiare e manifestare interesse professionale verso un’opera di un nostro Famoso Scrittore Vero, che ammiro sinceramente e che lodevolmente mi aveva manifestato un certo qual suo interesse al teatro. Ricevuta la sua fatica
ecco confermato il peccato originale: l’incapacità strutturale a scrivere per il teatro – si badi, non a capirne il concetto – dove la scrittura per un “copione” deve suggerire/evocare un’azione mentre la forma narrativa scritta, da leggere, accompagna/racconta/descrive l’azione. Tutto qui.
Al contrario, sempre tempo fa, un Non Famoso francese, saggista d’arte antica e moderna, storico del paesaggio, poeta e anche filosofo, al quale ho commissionato due testi di ostica soluzione – la visita a una esposizione permanente , da Durer a Morandi passando per Tiepolo e Goya e in seguito il tema della natura profonda di una Biblioteca Storica, del “libro che aspetta”, mi ha scritto due testi che, per farla breve, hanno già avuto, nei loro allestimenti, 15 anni di fortuna nazionale e internazionale e sono disponibili a continuare. C’è sempre pubblico, alcuni l’hanno già visti tre volte.
Lode ai coraggiosi come Dell’Orco, ma non trattatelo come un eroe votato al supremo sacrificio,
non costruite una tomba monumentale su “Dimora unica”. Dimostrategli invece le vostre idee con
altrettanti testi, imperfetti che siano, abbiate il coraggio di mettere i piedi nel piatto, ne verrebbe un dibattito reale, non surreale! PROVATECI !
Fine dell’invettiva.
Il dibattito (surreale) , il si può, non si può, i distinguo, il giustificato disprezzo dell’oggi del nostro teatro, gli equivoci, ha di positivo che scava in una ferita evidentemente aperta, almeno per quelli che dibattono.
Beh, non sono un critico, non ne ho gli strumenti, diciamo scientifici. D’altra parte i soli che ho conosciuto ( e letto, ma sempre di meno e oggi per nulla) sono stati quelli teatrali, uomini e donne senza immaginazione, alcuni sopraffatti da studi teorici e incapaci di essere “spettatori” altri troppo “partecipanti”, nel senso di voler rifare gli spettacoli attraverso la loro recensione. Tutti o quasi scrivono con lo scopo di diventare direttori artistici di qualcosa “a prescindere” dallo spettatore/lettore e si rivolgono al regista e al teatro produttore dello spettacolo “a prescindere” dagli attori, loro sono fuori dal gioco, sono “solo” prestatori d’opera.
Le due polarità del Teatro, attore e spettatore, sono dunque sempre ignorate scientificamente, nel senso della critica ”scientifica”, dimenticando ( salvo NG per ovvio motivo) che quello che si chiama Teatro è quel momento lì, diverso ogni sera e in ogni spazio e in ogni diversa “assemblea”. Regno di una fondamentale ed ineludibile vita effimera, il testo pubblicato è solo un “copione” destinato a svirgolare e scivolare verso sensi inattesi, emozioni diverse, piattezze sorprendenti anche dopo la gestazione della matita che taglia, rimanda, sostituisce durante la messa in scena. Anche quelli di Beckett, già capolavori alla lettura e ci si potrebbe fermare lì, sulla scena “soffrono” l’attore, anche quello più rispettoso della didascalia. L’”assemblea” che assiste, a sua volta, vive (o dovrebbe vivere) il suo presente con ingenuità, senza filtri, e dunque, fatto lo sconto su problemi di digestione comune a tutti, vive com’è giusto le diverse contingenze culturali e civili di Latina piuttosto che di Carpi, di Roma piuttosto che Milano, di Matera piuttosto che Chiavenna,
Se l’attore è un grande attore, nel senso dell’autorevole e non del famoso, sa come parlare ogni sera
a una diversa assemblea senza cambiare il “copione” ma trasgredendo al “canone” dell’autore o del regista.
Credo di capire il senso, non la lettera, dei paletti di Dell’Orco: il suo è un tentativo di normare le nefandezze che si compiono da 40anni a Roma, del tipo di quelle suggerite da NG – frantumare, svisare rompere il linguaggio anche quando non si è Carmelo Bene, in una concezione di straniamento che appartiene, nelle altre discipline, ad avanguardie storiche finite cinquant’anni fa.
Allora ecco quel che penso per un percorso verso la scena di “Dimora unica”.
Uso come esempio le arti figurative: le più potenti immagine che mi è capitato di vedere negli ultimi anni appartengono a un Senegalese, una coppia di Cinesi e un Indiano (vedere su Google Ousmane Sow, Sun Yuan e Peng Yu e Anish Kapoor ) e non agli ormai cosiddetti artisti occidentali,
dove nei primi due, nascosta da un apparente naturalismo figurativo o addirittura iperrealismo, sta l’anima della crudeltà, quella di Artaud. Nel terzo, dietro una apparente frantumazione e “astrazione” sta la concretezza della materia, il peso della tradizione, la bellezza delle forme e del colore. Metalinguaggi, ma contemporanei, che sanno parlare non alle elite autoreferenziali ma alle decine di migliaia di visitatori ( come da noi i van Gogh o Chagall etc) che hanno avuto a Parigi o Londra per mesi e mesi, non i pochi giorni della Biennale dei Cascella e dei performativi effimeri
.
Traduco facendo ammenda del salto e fidandomi delle capacità transintuitive di chi mi legge:
cercare l’ attore che “in sé” già possa comunicare la complessità del testo di Dall’Orco.
Beckett vivente si è scelto ed ha anche scritto per David Warrilow, attore inglese francofono (vedi Google) – che commozione risentirti in “Solo” amico mio perduto… – capace di convivere con Woody Allen come con Pinget, Walser,Bernhard.
O come Bernhard con Minetti, il quale fece anche Krapp – bei tempi – resuscitato e rimorto nel senso di spettacolo con Michel Piccoli di recente in, appunto, “Minetti. (Rileggerlo almeno, così da rinfrescare la memoria di cos’è, chi è un attore).
Plausibile il dubbio che esista da noi tale fauna umana – anche se ho una mia idea – e allora ecco la scappatoia post-artuadiana, quella dove in Italia si sono rifugiati certi registi creativi, cioè i non-attori vedi carcerati, handicappati, clochard e disturbati in genere ipocritamente chiamati “diversamente abili”.
Senza teorizzare un nuovo teatro – a me emoziona un attore che raggiunge la vetta del disturbato non il disturbato – cosa che i succitati utilizzatori fanno a piene mani con parecchia demagogia e a volte rivoltante pietismo interessato.
Infine, scartate le due prime ipotesi per impossibilità pratica o morale, l’oralità pura, l’oratorio
eseguito come partitura, la forma più onesta, dove si dichiara un’impossibilità con un onesto artigianato.
In tutti i tre casi mai un “regista”, il demiurgo, ma un direttore d’attore, come in Gran Bretagna.
Qui da noi tutta ormai merce rara, e purtroppo anche, e per carità non solo, a causa dei nostri intellettuali che si esercitano su Nazione Indiana al girotondo intorno alla carne viva del “fare teatro”
e notano che ormai puzza.
Beh , si, lo confesso ho fatto l’attore per dieci anni in Italia, nei favolosi anni ’70, prima e dopo solo
in altre più civili nazioni con accanto il fantasma di Goldoni, mio nume tutelare nella fuga.
Con amicizia e con stima (anche per gli Indiani)
+
A tutti. Ma in particolare a Nevio Gàmbula, Elio Matassi e George Caney.
NOTE DI REGIA A “LA DIMORA UNICA” – SECONDA PARTE
Allora, facciamo il punto e precisiamo alcune questioni che nel corso del dibattito possono essere state dimenticate. La prima è che qui non stiamo discutendo del teatro in generale, e quindi dell’attore in generale, delle messinscena in generale, del rapporto tra autore e regista in generale. Qui stiamo discutendo di qualcosa di particolare: la messinscena della pièce “La dimora unica”. La quale pièce non è detto che cada nella definizione di teatro così come la conosciamo. Da qui i fraintendimenti. Perché dovendo parlare della “Dimora” non abbiamo a disposizione che le parole e i concetti del linguaggio teatrale, mentre essa in qualche modo sfugge a quei concetti e quelle parole; e così può accadere che si pensa di aver indicato un determinato suo aspetto, mentre l’interlocutore ne ha capito un altro. Quindi ha ragione Elio Matassi, quando dice che bisogna mettersi d’accordo sulle definizioni e sui concetti, e ovviamente Nevio, quando suggerisce di andare a una “verifica dei nomi”, ma con la precisazione che non si è di fronte a una pura querelle terminologica, derivante da una qualche confusione soggettiva in merito alle parole da usare per indicare dei concetti fissi, stabili, sui quali alla fine si dovrebbe per forza convenire, ma a una questione di contenuto, alla posizione di nuovi concetti, i quali si presentano rivestiti delle vecchie parole, perché non ne esistono altre.
Qualche esempio servirà a precisare la cosa. Io parlo di personaggi. Ne ho parlato in questa discussione, e soprattutto ho chiamato personaggi, nel mio testo, Arturo, Sergio ed Elvira. Ma insieme ho sostenuto “che l’attore deve rinunciare – nel caso della Dimora unica – al suo ruolo tradizionale di interpretare e immedesimarsi in un’altra anima, un altro IO. Non deve cioè spogliarsi del suo proprio IO anagrafico, empirico, per acquisirne un altro: quello di Sergio, Arturo o Elvira (i personaggi appunto della “Dimora”). Egli deve invece spogliarsi del proprio IO anagrafico, empirico, e rimanere quale pura marionetta di carne a disposizione dei diktat, degli ordini ineludibili costituiti dalle battute, dalle didascalie e dalle note che gli competono.” E più avanti ho detto addirittura che “L’attore non si deve confrontare con il personaggio, ma con il testo e i suoi ordini.” Tutto ciò appare contraddittorio, e Nevio me lo fa notare, ma lo è solo se i termini del mio discorso vengono riferiti agli usuali concetti teatrali, non a ciò che effettivamente accade sulla scena.
Ora, se io chiamo “personaggi” le figure umane che metto sulla scena, ciò non è dovuto tanto al fatto che esse lo siano, quanto al fatto che non esiste un’altra parola per definirle. Mi spiego. Un personaggio teatrale rappresenta in genere un essere umano, cioè un essere dotato di una propria coscienza, di una propria volontà, di una propria anima, di una propria storia; un essere che ha memoria di sé e del mondo ed elabora razionalmente tale memoria per determinare il proprio futuro e la propria vita. Cioè: la PERSONA è un IO CONSAPEVOLE E AUTONOMO, determinato nello spazio e nel tempo, che ha un certo carattere, certe inclinazioni, individuate dalla sua storia biologica, psicologica, familiare e sociale, mentre il PERSONAGGIO è la sua rappresentazione sulle tavole del palcoscenico. Per cui un attore si deve in generale spogliare del proprio IO e cercare di assumere l’IO del personaggio, IO che comunque quest’ultimo possiede e ha sempre posseduto in tutta la storia del teatro.
Ma adesso, per pura ipotesi, si immagini un mondo che – per una ragione che qui non è importante analizzare – non produca più esseri dotati di IO, cioè di consapevolezza, di libera volontà, di autodeterminazione. Un mondo che produca solo “other – directed people”. Un mondo che, per dirla in breve, non generi più vere e proprie PERSONE. Quale sarebbe il teatro corrispondente a questa nuova situazione? Con quale IO si dovrebbe identificare l’attore se il personaggio non ne ha più uno? L’unica cosa che può fare l’attore è: 1) gettare via i resti, le macerie dell’ IO che ancora possiede e 2) diventare senza IO come il personaggio.
Ecco, in un certo senso, io nella “Dimora” ho ipotizzato, immaginato e rappresentato un mondo simile. E, facendo questo, ho rispettato il principio sempre valido di immedesimazione nel personaggio, ma adeguandolo ad una situazione limite in cui non esistono più persone, cioè individui in senso forte (coscienti e padroni di sé e del mondo), ma solo individui biologici, “marionette di carne”, a cui appunto gli attori debbono conformarsi.
Dal punto di vista, diciamo così, operativo, questa nuova situazione scenica non dovrebbe presentare particolari difficoltà per gli attori. Essi debbono semplicemente continuare a fare il loro secolare mestiere di interpretare qualcun altro, solo che stavolta questo qualcun altro è per così dire regredito ad una fase antichissima del suo sviluppo filogenetico, ad una fase in cui il comportamento non obbedisce più alla valutazione della coscienza razionale, ma a richiami e segnali esterni, al circolo biologico stimolo – risposta. Il fatto che i personaggi della pièce parlino ancora, ricordino, immaginano, sperino, eccetera, non deve ingannare in proposito: si tratta infatti di attività spirituali residuali, destrutturate, confuse, che girano a vuoto, senza alcun rigore logico, e quindi assolutamente inutili a far di essi degli individui. Come dire che essi hanno ancora un cervello, la possibilità biologica di usarlo, ma per qualche ragione vi abbiano definitivamente rinunciato, rinunciando perciò stesso ad essere persone.
@George Caney, grazie, era tanto che non piangevo dal ridere in questo modo, grazie , grazie..
L’ho immaginata, sin dalle prime righe, fine dicitore seduto su di un vespasiano, tutto bardato in stile ‘700, con ricami d’oro ai polsi, il parruccone posticcio, il cerone avorio e il neo sullo zigomo, uno spasso.. grazie!!
@sandro dell’orco.. mi scusi, ma la sua necessità recitativa non le pare un po’ scontata se già c’e’ un testo destrutturato con fini destrutturanti.. la sua necessità recitativa, sulla scena, risulterebbe un’ enorme ridondanza. Il rischio è che se la pieces dura piu’ di 40 minuti, la platea si auto infligge una rivoltellata dopo il 41° minuto. E’ vero che probabilmente il suo intento non è intrattenere, ma non deve neanche avere intenti istigativi al suicidio.
@ Ares
Vorrà dire che le riserverò un posto alla prima, sperando tanto che lei venga.
Caro Ares, io discetto volentieri sulla tazza, in linea con il mondo del mio nume tutelare. Le mie origini sono schiettamente aristocratiche: mio bisnonno materno esercitava la professione di scimiaro in società con gli orsanti. L’associazione partiva d’autunno, a piedi, a volte anche con cammelli e cani sapienti, per esibire alle folle dell’Austria felix, dell’ Impero Ottomano e quello dei Rus , l’intelligenza artaudiana dei suddetti animali. E il suo asinello, ad ogni primavera, portava a casa due sacchi pieni di monetine. Per converso il bisnonno materno, boscaiolo e commerciante di legna da ardere, suonava il clarino nei “concerti” di fiati per i balli nelle feste patronali. Dalle polke-mazurke-walzer di quei “concerti”Peppino Verdi partì per la sua riforma del teatro in musica detto “melodramma” sottraendo alle elite l’esclusiva della musica “colta”.
Vede bene che le mie idee non nascono da libresche afflizioni ma da un sangue fecondato da solide basi aristopopolari. Il “mio” teatro, se non fonda la propria necessità nel parlare alle folle del proprio tempo, non è Teatro, è teatrino di corte. Per non essere frainteso Beckett è teatro popolare, se vuole aggiungiamo d’arte. Come, d’altronde, l’Urbeckett Anton Cechov, che nella sua Melikovo curava emorroidi contadine scrivendo Zio Vania, E’ vero, in due casotti diversi.
Questo devo come postilla finale, e a scanso d’equivoci, al mio intervento di ieri. In sua solidarietà e a beneficio di Sandro Dell’Orco che, una volta sbarazzato dalle girandole filosofali in cui l’hanno cacciato assai dotti mosconi, sono sicuro stia arrivando a chiarirsi, non solo l’ottimo suo sacrificio d’autore, ma anche le leggi che governano il ghigno* del Teatro. Perché è un’uomo sincero.
M’è venuta sonno, volevo tornare sulla faccenda degli “animali artaudiani”, lo farò domani.
Adesso dodò.
• Ghigno dal dialetto celtico ghigna, faccia.Tete coupèe celtica infissa sulla facciata delle case, una volta vera, oggi maschera in funzione apotropaica da cui deriva il dialettale ghignaro, colui che esegue ritratti come pittori, fotografi, costruttori di maschere e anche attori etc
Caro Ares, io discetto volentieri sulla tazza, in linea con il mondo del mio nume tutelare. Le mie origini sono schiettamente aristocratiche: mio bisnonno materno esercitava la professione di scimiaro in società con gli orsanti. L’associazione partiva d’autunno, a piedi, a volte anche con cammelli e cani sapienti, per esibire alle folle dell’Austria felix, dell’ Impero Ottomano e quello dei Rus , l’intelligenza artaudiana dei suddetti animali. E il suo asinello, ad ogni primavera, portava a casa due sacchi pieni di monetine. Per converso il bisnonno materno, boscaiolo e commerciante di legna da ardere, suonava il clarino nei “concerti” di fiati per i balli nelle feste patronali. Dalle polke-mazurke-walzer di quei “concerti”Peppino Verdi partì per la sua riforma del teatro in musica detto “melodramma” sottraendo alle elite l’esclusiva della musica “colta”.
Vede bene che le mie idee non nascono da libresche afflizioni ma da un sangue fecondato da solide basi aristopopolari. Il “mio” teatro, se non fonda la propria necessità nel parlare alle folle del proprio tempo, non è Teatro, è teatrino di corte. Per non essere frainteso Beckett è teatro popolare, se vuole aggiungiamo d’arte. Come, d’altronde, l’Urbeckett Anton Cechov, che nella sua Melikovo curava emorroidi contadine scrivendo Zio Vania, E’ vero, in due casotti diversi.
Questo devo come postilla finale, e a scanso d’equivoci, al mio intervento di ieri in sua solidarietà e a beneficio di Sandro Dell’Orco che, una volta sbarazzato dalle girandole filosofali in cui l’hanno cacciato assai dotti mosconi, sono sicuro stia arrivando a chiarirsi, non solo l’ottimo suo sacrificio d’autore, ma anche le leggi che governano il ghigno* del Teatro. Perché è un’uomo sincero.
M’è venuta sonno, volevo tornare sulla faccenda degli “animali artaudiani”, lo farò domani.
Adesso dodò.
• Ghigno dal dialetto celtico ghigna, faccia.Tete coupèe celtica infissa sulla facciata delle case, una volta vera, oggi maschera in funzione apotropaica da cui deriva il dialettale ghignaro, colui che esegue ritratti come pittori, fotografi, costruttori di maschere e anche attori etc
Signr Sandro verrei comunque, dopo questa discussione è il minimo che io possa fare, poi lei sembra così convinto della bontà del suo lavoro che, sono convinto, lascerò a casa la rivoltella.
Ci faccia sapere la data e il luogo e non si preoccupi di riservarmi un posto, preferirei sceglierlo al momento della prenotazione: ho le mie angolazioni predilette per osservare una pièces
Il dibattito sta diventando più vivace. Geaorge Caney e Ares lo stanno spostando su un’angolazione molto stimolante. E non vedo una differenza abissale tra le due impostazioni. Mi sembra di aver già affermato che la cifra segreta de “La dimora unica” sta nella capacità di tenere insieme due esigenze centrali: quella kafkiano-beckettiana e quella metateatrale.
Il ricongiungimento di questi due filoni è il punto di forza della pièce di Dell’Orco.
Anche io una volta ho recitato in una fiction e mi sono molto immedesimata nel personaggio che non sto qui a dire per ragioni di privacy. Devo dire che le didascalie mi hanno aiutato molto e ho cercato, ovviamente con l’aiuto del regista, di seguirle il più possibile. Certo, era un po’ difficile ricordarsi tutto ma alla fine ho capito che recitare mi piace un sacco.
@ Sandro Dell’Orco
Le tue note di regia posso approvarle o non approvarle, com’è normale che accada; il problema è che non riesco a estrapolarle DAL TESTO. In fondo, anche tu ne stai proponendo una lettura arbitraria (una interpretazione). D’altra parte, visto che ti senti in dovere di specificarle, vuol dire ammettere che il testo in sé non le contiene. Io, ad esempio, avrei calcato la mano di più su quanto accenna Muzzioli nella sua introduzione: post-catastrofe, più che pre-umano, con tutto ciò che comporta in termini di realizzazione scenica.
Non sto qui a dire cosa penso della tua idea del “personaggio”, che mi pare un poco confusa, o per lo meno un tantino limitata; e mi riferisco alla tua idea del personaggio come “rappresentazione” di una “persona” reale, dotata “di un Io consapevole e autonomo”. Non bastasse il solito Beckett, potrei citare i non-personaggi di Giorgio Manganelli o i deragliamenti della persona-maschera di Sanguineti … Ma è un gioco ozioso …
Resta l’oggettività del tuo testo e resta, erronea finché si vuole, l’infinita serie delle letture possibili. Dov’è la verità?
@ George Caney
A parte che non si capisce il richiamo a quelli di Nazione Indiana, e a parte le digressioni che non riesco a seguire, così piene di sottintesi che mi sfuggono (o che capisco e con cui non ho voglia di confrontarmi, per non sviare dall’argomento), ecco, diciamo che condivido la necessità di “cercare l’ attore che ‘in sé’ già possa comunicare la complessità del testo di Dall’Orco”. Questa è l’unica strada possibile per rendere giustizia a “La dimora unica” (ma è anche l’unica strada percorribile per chi voglia uscire dalla semplice produzione di “passatempi serali”).
***
Reagendo alle sollecitazioni registiche di Dell’Orco e agli impulsi disordinati di Caney, farei recitare il testo con una gestualità e una vocalità in tutto e per tutto simile a quella del macaco: i segni possono così alludere alla ritualità primitiva, dove le vibrazioni corporee reagiscono alle insidie ambientali … Ma anche in questo caso, agendo, per così dire, un contraddittorio tra spinta emotiva e parola (le parole di Dell’Orco hanno un significato), siamo ancora dentro … No, non dico dentro lo “straniamento”, ché mi ci vorrebbero dieci pagine solo per spiegare il concetto … Ecco, diciamo dentro un pensiero di recitazione secondo me adatto al testo di Dell’Orco …
Ripeto: chi potrà mai verificare la giustezza di una o dell’altra tesi senza salire sul palcoscenico?
ng
Caro Nevio,
ancora una volta purtroppo non ci capiamo, le mie ultime note di regia non erano un’interpretazione della pièce: non do personali o “autentiche” interpretazioni del mio lavoro: la pièce è quello è, è come appare, si riferisce solo a se stessa, come qualsiasi opera con intenzioni d’arte, non intenziona altro che quello che accade sulla scena e che è scritto sulle pagine del libro, questo mi sembra di averlo ripetuto fino alla nausea dall’inizio di questo thread. Ciò che hai inteso come interpretazione era solo una metafora che mi serviva ad illustrare il rapporto che l’attore deve tenere con i personaggi del mio lavoro. Se rileggi attentamente il pezzo ti accorgerai che scrivo: “Ecco, IN UN CERTO SENSO, ho ipotizzato, immaginato e rappresentato un mondo simile” e con quella locuzione avverbiale intendevo dire che NON HO ipotizzato, immaginato, rappresentato quel mondo, ma qualcosa di essenzialmente diverso, che poteva essere espresso – per amore di comprensibilità, e al solo fine pratico di dare indicazioni di comportamento per gli attori – nei termini di quel mondo.
Questa è la verità. E la sua distorsione è anche colpa mia, perché da quando è iniziata la discussione, mi sforzo inutilmente di spiegare sul filo della ragione, e aiutandomi con le metafore più ardite (prima quella dell’ipnosi, poi quella dell’other-directed people), il modo particolare in cui, secondo me, andrebbe rappresentata e recitata la pièce, cioè con l’adesione “a corpo morto”, assoluta e incondizionata alle note e alle didascalie. Ma queste metafore, queste iperboli, mi accorgo che vengono scambiate per interpretazioni, per cui il rimedio è peggiore del male, e dunque continuerò la discussione – se sarà possibile – facendone a meno.
Quanto alla mia idea di personaggio non è né confusa, né ignora le esperienze novecentesche che l’hanno ridefinita, comprese quelle degli autori da te citati. Non stiamo facendo una gara a chi sa di più. Né dobbiamo darci i voti a vicenda. Mettila così: essa è semplicemente l’idea di personaggio che mi permette di realizzare la pièce esattamente come l’ho pensata, e questo a me basta. Quell’idea di personaggio funziona alla perfezione nel mio teatro, e dunque per me è quella buona, qualsiasi giudizio ne possano esprimere altri.
Postilla.
Le note di regia sono già nel testo. Sono ovviamente le didascalie e le note. Io con le mie metafore ho voluto semplicemente ribadire il fatto che vanno rispettate alla lettera; non volevo aggiungere altri significati a quelli già scritti nel testo, ma mostrare in qualche modo la necessità di rispettarli per mantenere al lavoro il suo senso.
Caro Nevio,
a proposito della tua chiusa “…chi potrà mai verificare la giustezza di una o dell’altra tesi senza salire sul palcoscenico?”
In tutta sincerità penso che la “giustezza” delle nostre tesi non sia in discussione. Ho già detto sopra, da qualche parte, che la tua interpretazione della mia pièce ha la stessa legittimità artistica della mia. Tu, in linea di principio, puoi fare un capolavoro stravolgendo il mio testo secondo un tuo progetto artistico, ed io realizzandolo secondo le mie vedute. Ciò che contesto è che l’opera da te così realizzata abbia qualcosa a che fare con la mia, tanto che imporrei a te, come a qualsiasi altro – e sia pure ringraziandovi dell’onore che mi fate – di non usare il titolo della mia pièce per il vostro lavoro, o di usarlo con una formula che indichi esplicitamente lo stravolgimento effettuato.
Per finire
@ Nevio
Non tenere conto della locuzione “Per finire”. E’ un errore.
@ Sandro
Sto simulando una situazione dove, trovato interessante il tuo testo, ne ipotizzo una realizzazione scenica. Ad ogni mia proposta, tu avanzi una negazione e proponi le tue note di regia, considerate da me medesimo inemendabili, e inemendabili al punto da imporre il non utilizzo del titolo qual ora la realizzazione non le soddisfi. Se permetti, non funziona così il teatro. O meglio, funziona così solo in un ambito “produttivo”, come ho detto qualche commento fa: i diversi agenti (attore, regista, scenografo, etc) obbediscono all’autore per dovere professionale. No, mi tengo la mia idea di teatro come creazione collettiva, dove ogni istanza si mescola alle altre, senza alcuna pretesa di autorità … E continuerò a leggere la tua pièce trovandone godimento.
George Caney ha citato il “Minetti” di Thomas Bernhard … Ecco, proprio in quel testo è presente una sintesi di quelo che è il rapporto tra attore e autore:
“L’attore si accosta allo scrittore / e lo scrittore distrugge l’attore / esattamente come l’attore distrugge lo scrittore”.
Questo è teatro. Il resto è produzione di spettacoli.
Nevio Gàmbula
Caro Nevio,
non ti irritare, non è per partito preso che ti contraddico, ma perché sono convinto delle mie idee. Le tue ipotesi sceniche sulla Dimora – sarà la millesima volta che lo dico – mi interessano, mi fanno piacere, mi lusingano, mi incuriosiscono, mi stimolano intellettualmente, e, alla luce di quello che ho visto di tuo – me le figuro belle e originali, tanto che se tu le realizzassi ne sarei contentissimo e magari converrei con te sulla bontà dell’operazione da te compiuta. Ma questo non potrebbe cancellare il fatto che la tua opera non avrebbe più nulla a che fare con la mia. Il cui spirito, la cui vita, il cui SENSO, sarebbe semplicemente svanito nel nulla.
L’opera artistica non è del creatore ma del fruitore e questa ha valore artistico solo se il fruitore decide che ha valore artistico.
Non rivendichiamo il possesso o la paternità di qualcosa che decidiamo di tirar fuori da noi, e definiamo prodotto artistico: nel momento che l’opera fuoriesce da noi, visto che nessuno ci impone che esca, dobbiamo convincerci che non è piu’ possibile rivendicarne la paternità; altrimenti non è opera d’arte in partenza.
Dall’Orco lei persegua i suoi obbiettivi, cerchi chi è ingrado di dar vita alla sua opera così come lei impone, attori e registi mestieranti ne troverà a manciate in Italia.
Ma non pretenda che dei grandi attori e dei grandi registi, siano disposti a sacrificare il loro ingegno , il loro istinto, il loro valore artistico per asservirsi a un opera, che se ha valore artistico, non ne ha più di altre.
La mediazione e la colaborazione tra teatranti, in rapporto vicendevolmente non dispotico, è pre-requisito fondamentale per la buona riuscita di qualsiasi pièce.
..lei addirittura necessita di attori che dovrebbero essere degli androidi, degli esecutori meccanici di note attuative… °_°
La robotica stà facendo passi da gigante, la sintesi vocale è già a buon punto, aspetti qualche anno è avrà degli attori perfetti per le sue esigenze. e_e
Su questo argomento si potrebbe creare una pièce molto divertente ^__^
Mi dispiace, Sandro, ma proprio non vuoi capire. Chiunque porterà in scena il tuo testo, e dico proprio CHIUNQUE, non potrà che tradirlo, proprio perché il teatro funziona così. Attenzione però: a funzionare così non è il MIO teatro, ma il teatro reale, quello che si fa sulle assi del palcoscenico. Per me, questo, è un concetto banale, che chiunque abbia dimestichezza con la scena può verificare. Ma è inutile insistere. La tua intransigenza renderà irrealizzabile la tua opera, che resterà soltanto un esperimento drammaturgico; se vorrai farla diventare TEATRO, allora dovrai abdicare al tuo ruolo d’autore e lasciar fare (in dialettica creativa col testo, certo) agli operatori della scena. Credimi, anche se non verranno rispettate le tue indicazioni, il testo si animerà e renderà presente il SUO senso … Ecco, lo renderà presente, al di là della pagina.
Vedi, Sandro, si torna al principio di questa discussione, alle mie riserve (mie non in quanto di NG, ma del meccanismo teatrale) sul dispositivo impositivo delle tue note di regia. Evitiamo di mangiarci la coda e chiudiamo qui.
Nevio Gàmbula
Leggo solo ora l’ultimo commento di Ares, che ovviamente condivido. Tra l’altro, la realizzazione della “dimora” con androidi sarebbe geniale (anche se continuo a preferire i macachi). Ricordo che CB usò un robot per irridere l’idea di personaggio, di immedesimazione, etc.; era, se non ricordo male, “La cena delle beffe” …
ng
Si, Ginevra
Inserisco qui, come contributo alla discussione, la recensione del poeta, narratore e drammaturgo Alberto Toni apparsa su “L’Avanti” di oggi.
ARCIPELAGOLIBRI di Alberto Toni
Con “La dimora unica” (Manni, 114 pagine, 14 euro), Sandro Dell’Orco, autore di due originali romanzi, “I Benefattori” del 1996 e “Delfi” del 2007, sperimenta il genere del teatro. In una stanza chiusa due personaggi, Arturo e Sergio, con in più una terza figura, misterioso archetipo femminile, Elvira, agiscono, potremmo dire, senza una finalità. Ma il teatro, si sa, è azione, e allora tanto basta a creare una mitologia quotidiana, fatta di paradossi, dentro una realtà metaforizzata all’eccesso, apocalittica e apparentemente senza via d’uscita. Un teatro nel teatro, claustrofobia e tensione verso l’esterno, dentro e fuori, la dicotomia dell’essere negli impulsi primordiali, che però anche qui sembrano incorniciati nella finzione: fame, sete, aggressività e riconciliazione, tutto è ricondotto a un tempo senza tempo, a un luogo senza definizione. La realtà e la sua negazione: il diluvio e la distruzione, e poi il contrario di tutto ciò, come in una sospensione, un limbo inquieto e drammatico. Non poteva esserci strategia migliore per raccontare il nuovo secolo: la spirale novecentesca, e in particolare Beckett e Ionesco, ma nel contempo già fuori, in una via di fuga, selva intricata di simboli e nodi ancora da sciogliere. Per Dell’Orco la parola futuro è una vuota parabola, l’uscita di scena di uno dei personaggi coinvolge nella fine tutta la drammaturgia dell’azione. Siamo relegati in una condizione di prigionia collettiva, l’io è anche un altro di cui non possiamo sbarazzarci. Un testo a scatole cinesi, in cui le azioni sono il perno di una riflessione sull’uomo e sul teatro, sul concetto di libertà e di difesa.
@ Ares
L’opera ha valore artistico se ha valore artistico. Non se il suo “fruitore” decide di darglielo. E’ come per i soldi, o per le merci, hanno il valore che hanno, e nessun fruitore può decidere di darglielo (magari!).
L’arte non è una merce.
E in hogni caso, anche gli ori e le merci hanno un valore relativo dato dal fruitore.
Finiamocela. Ho altri “impulsi disordinati”, “digressioni” criptiche o fuori tema.
Non è una Nazione ma una Riserva Indiana che pispiglia intorno a un fuoco di sterpi, una dimora unica che se la gode un mondo a scaldarsi la cuccia.
Fine della trasmissione
George Caney, è stato comunque un piacere ^__^
@ George Caney
E’ già andato via è già mi manca. Quando si dice la classe… Avevo ancora alcune cose da dirle, gliele dirò come si dice, in absentia. Riguardavano… adesso vedo… ecco riguardavano questo pezzo:
“Traduco facendo ammenda del salto e fidandomi delle capacità transintuitive di chi mi legge:
cercare l’ attore che “in sé” già possa comunicare la complessità del testo di Dall’Orco.
Beckett vivente si è scelto ed ha anche scritto per David Warrilow, attore inglese francofono (vedi Google) – che commozione risentirti in “Solo” amico mio perduto… – capace di convivere con Woody Allen come con Pinget, Walser,Bernhard.
O come Bernhard con Minetti, il quale fece anche Krapp – bei tempi – resuscitato e rimorto nel senso di spettacolo con Michel Piccoli di recente in, appunto, “Minetti. (Rileggerlo almeno, così da rinfrescare la memoria di cos’è, chi è un attore).
Plausibile il dubbio che esista da noi tale fauna umana – anche se ho una mia idea – e allora ecco la scappatoia post-artuadiana, quella dove in Italia si sono rifugiati certi registi creativi, cioè i non-attori vedi carcerati, handicappati, clochard e disturbati in genere ipocritamente chiamati “diversamente abili”.
Senza teorizzare un nuovo teatro – a me emoziona un attore che raggiunge la vetta del disturbato non il disturbato – cosa che i succitati utilizzatori fanno a piene mani con parecchia demagogia e a volte rivoltante pietismo interessato.
Infine, scartate le due prime ipotesi per impossibilità pratica o morale, l’oralità pura, l’oratorio
eseguito come partitura, la forma più onesta, dove si dichiara un’impossibilità con un onesto artigianato.
In tutti i tre casi mai un “regista”, il demiurgo, ma un direttore d’attore, come in Gran Bretagna.”,
il cui senso complessivo condivido. E in particolare riguardavano il consiglio dell’oralità pura, l’oratorio come partitura, con quel che segue. A costo di parlare ormai al vento oppure di far uscire dai gangheri anche lei, così tollerante del mio cosiddetto integralismo scenico, gliele dirò quelle cose. Ma non ora, ora volevo sinceramente ringraziarla della sua presenza qui, ed esprimerle la speranza che la sua trasmissione non sia finita.
Con grande stima ed amicizia
Sandro Dell’Orco
@ Nevio
“Vedi, Sandro, si torna al principio di questa discussione, alle mie riserve (mie non in quanto di NG, ma del meccanismo teatrale) sul dispositivo impositivo delle tue note di regia. Evitiamo di mangiarci la coda e chiudiamo qui.”
Anche tu rivolti il tavolo e te ne vai sbattendo la porta. Attribuendomi di fatto un integralismo e una testardaggine che ti potrei rinfacciare. In fondo, uno ti potrebbe dire: “Ma che ci rimetti a scrivere sul cartellone ‘LIBERAMENTE TRATTO DA?'” , perché in ultima analisi di questo solo si tratta.
Anche i cani più buoni e tolleranti, se disturbati mentre lappano nella ciotola…
Nel mio caso ho sentito odore di disputa scolastica, ricordate Rabelais.
Dopo che NG l’ha menata un bel pò sui Testi non risparmiandosi un poco celato fastidio – è duro accettare un pò d’ironia da parte dell’integralismo scolarmarxlacaniano – vi siete messi ha discettare del sesso degli angeli, se l’arte è merce! Ma chi se ne frega!!!!!!!
Comunque, ho giusto scritto ancora per raggiungere in numero di 100 interventi di questo post. Porta bene. With Best Wishes for a Merry Christmas and a Happy New Year!!!!!
Siete fatti per non capirvi, se come ‘lettrice’ posso seguire Dell’Orco, come ‘spettatrice’ non posso che dare ragione a Nevio Gambula.
Certamente sarete entrambi insoddisfatti della discussione, ma è stato interessante seguirvi. Dopotutto io sono il terzo elemento necessario.
@ Sandro
Non sono in procinto di mettere in scena la tua “dimora”; perché dovrei pensare a un “liberamente tratto da”? Qui si stava discutendo della plausibilità delle rispettive ipotesi registiche. Se fin dall’inizio ritieni irricevibile ogni ipotesi diversa dalla tua, allora è inutile qualsiasi discussione in merito, non trovi? Comunque, il tuo testo mi convince; le tue note di regia le trovo UMANAMENTE irrealizzabili … Direi di finire qui, davvero; non mi pare che si possa aggiungere altro di interessante … Un integralista scolarmarxlacaniano, poi, cosa potrebbe dire di così fondamentale?
@ George Caney
Fastidio? No, è del tutto fuori strada. Così come lo è quando cita a sproposito (con evidente irritazione) Nazione Indiana, di cui non facciamo parte né io né gli altri intervenuti a questa discussione. Lei ha buttato lì, sommariamente, tutta una serie di battute su questo e su quello, mettendosi al di sopra della contesa; che cosa pretende, che applaudiamo? Clap!Clap! Ecco, ora può tornare alla sua ciotola.
nevio gambula
@ George Caney
Con tutto il rispetto, ti stai allargando troppo:
“…vi siete messi ha discettare del sesso degli angeli…”
Vi chi? Io ho solo riaffermato l’oggettività dell’opera d’arte, l’abc, il pilastro di ogni comprensione estetica. Dunque il presupposto stesso di questa nostra discussione.
Comunque buone feste anche a te.
@ Nevio
So bene che non stai mettendo in scena ecc. Volevo dire che in generale la nostra opposizione trova lì la sua espressione concreta.
@ Nevio
Lì in quella formula volevo dire.
@Alcor
sei, per importanza, il primo elemento assolutamente indispensabile, poi viene l’attore, seguito dall’autore… il regista segue..
.. ma se , l’attore è anche l’autore, ben saprà essere il regista di se stesso medesimo..
.. possiamo dire che le figure fondamentali sono solo due, lo spettatore, tu Alcor, e il pubblico.
Se non ci sei tu, il pubblico, possiamo chiudere baracca e burattini e darci ha pratiche onaniste, come la scrittura per il teatro senza essere nè attori, nè registi.
ops..
.. possiamo dire che le figure fondamentali sono solo due, lo spettatore, tu Alcor, e l’attore..
..va bè, ma che lo dico affffare.
oh bien io anche ho seguito in rigoroso silenzio
non avendo letto il testo
in teatro ci sono nata&studiato&lavorato&recitato ecc ecc, si può dire e credo che il mezzo, così teorico e portato per natura al labirinto del senso e al fraintendimento incrociato, dei post da blog, non sia il luogo adatto per discutere di cose teatrali
anche di altre, di cose, ho notato, ultimamente
io sono un voi di Nazione Indiana assai anomalo…. forse
le note di regia a me invece hanno suggerito moltissime immagini e modi per una possibile messa in scena
Dell’Orco fa bene a diffidare
gli autori contemporanei, viventi, in lingua italiana, di testi teatrali sono così rari e temerari che è giusto si preservino ed esigano rispetto
poco poco Dell’Orco le fanno entrare in Lambretta uno dei personaggi vestito da Happy Days e un’altro glielo vestono da nazista o da fascista col fez…. e passo dell’oca d’ordinanza, se gli gira
si scherza
ma non troppo
in realtà
quel che Bene chiamava scrittura scenica però è qualcosa che anche un autore diffidente (…) prima o poi deve accettare e consegnare la sua creatura, magari dopo un lungo lavoro comune di studio e progettazione a chi il testo lo realizzerà
,\\’
@ orsola puecher
in totale concordanza e affinità spirituale con lei,
ringrazia,
sandro dell’orco
“Io ho solo riaffermato l’oggettività dell’opera d’arte, l’abc, il pilastro di ogni comprensione estetica.”
vedo che hai fatto progressi, Sandro. Condivido e constimo
“Io ho solo riaffermato l’oggettività dell’opera d’arte, l’abc, il pilastro di ogni comprensione estetica”
vedo che hai fatto progressi, Sandro. Condivido in pieno
@ Enough
Grazie per i progressi. Cosa vuoi, non siamo tutti così dotati. Io, benché sia l’abc, ci ho messo una vita per arrivarci.
Così, per sintetizzare cos’è, nella realtà, il rapporto testo-scena:
“Certo la pagina scritta non è (non può essere mai) la stessa cosa del teatro: il teatro è azione qui e ora, la scrittura è azione che può essere avvenuta o che può avvenire. In altre parole, la scrittura scenica è sempre un’epigrafe. Ne consegue che se il mio spettacolo è un labirinto, il mio teatro scritto è un criptogramma. Se dunque il mio spettatore ideale ha il cervello del navigatore (dell’esploratore), il mio lettore ideale ha il cervello dell’archeologo. Ho già detto altrove che il mio teatro somiglia, in senso laico, a una seduta spiritica. Posso aggiungere ora che il mio teatro scritto – con le sue minuziose didascalie, che non sono accessori ma forme dell’evento scritto – somiglia al libro nero della magia: contiene cioè le “istruzioni” e le “parole magiche” in grado di evocare, nel rito scenico, i fantasmi della coscienza e della storia. E certo ognuno sa che la seduta spiritica è cosa assai diversa dal libro nero. Se, quando metto in scena un mio testo, lavoro anche contro il testo, è perché sto cercando di rendere presenti e attivi i fantasmi fossilizzati nella scrittura. Ma senza una “scrittura scenica” non è possibile alcun vero teatro: perché il teatro è presentificazione di un evento misterioso “scritto – fossilizzato – nella mente di una civiltà. E la scrittura conserva a sua volta la possibilità di rivelare fisicamente (nello spettacolo) i profondi dilemmi di un’epoca e i dubbi vitali di tutte le epoche.”
Michele Perriera, regista e drammaturgo (e narratore)
@ Nevio
Torno adesso dalla manifestazione del No – Berlusconi day, che è andata benissimo. Se la mia lunga esperienza di sessantottino non m’inganna si è trattato di qualcosa di unico: piazza S.Giovanni era piena come negli anni settanta, e soprattutto – cosa abbastanza inedita – di giovani. Spero che contribuisca a cambiare le cose. Ma torniamo a noi.
Grazie del testo che ci sottoponi. Ti confesso che conosco Perriera solo come narratore, per cui non sono autorizzato a parlarne in questa sede: l’ultimo suo libro che ho letto mi pare sia stato “Delirium cordis” , nel 97 o giù di lì. Comunque, stando al pezzo che ci sottoponi mi pare di poter concordare con lui, e per gli stessi motivi per cui ho concordato ieri con Orsola Puecher. Entrambi valorizzano la pagina scritta, rilevandone però la profonda differenza dalla sua concreta realizzazione, che può anche costringere l’autore a lottare contro il suo stesso testo. Perché un conto è far muovere i personaggi nel proprio cervello, e un conto sulle assi del palcoscenico. E dunque l’autore è tenuto ad emendare gli errori, le ridondanze, i passi falsi, o addirittura impossibili, che INEVITABILMENTE la sua onnipotenza fantastica gli ha fatto compiere.
Cioè:
…a emendarli da sé ove sia il regista di se stesso, oppure lasciarli
emendare dal regista, ove non lo sia.
Veramente nella mia esperienza di attrice nella fition non mi sembra che c’erano tutti questi problemi. Secondo me ve ne state facendo troppi. Cioè, se gli attori sono bravi e il regista pure, l’importante è che lo spettacolo riesce. All’autore che gliene importa del resto? Mi sembra che ormai si sta facendo solo un discorso intelletuale.
Si tratterà pure di un discorso intellettuale, ma non è separabile dall’esperienza specifica della regia e della recitazione. Senza un chiarimento pregiudiziale (intellettuale), anche la ragia e la recitazione sarebbero prive della loro vita e autenticità.
Colloco qui la recensione di David Frati sulla mia pièce.
Pubblicato su Mangialibri (http://mangialibri.com)
La dimora unica
Due uomini in una grande stanza grigio piombo, dapprima buia poi illuminata da una impietosa luce bianca.
L’uno ? Arturo ? è un sessantenne brizzolato, l’altro ? Sergio ? è una versione vent’anni più giovane del
compagno di sventure. Perché sventure? Perché i due a quanto pare si sono rifugiati in quel luogo per
sfuggire a un tremendo diluvio, un’inondazione che minaccia la sopravvivenza stessa del genere umano. Ma
sarà davvero questa la verità? Mentre esplorano palmo a palmo la loro nuova spoglia dimora, i due si
interrogano sul loro passato nebuloso, sulla loro identità e soprattutto sul loro futuro. Fino a quando
l’apparizione di una figura femminile velta non li strappa alle loro elucubrazioni…
Dopo il noir kafkiano di Delfi Sandro Dell’Orco pubblica un po’ a sorpresa una breve ma suggestiva pièce
teatrale. L’impianto drammaturgico è innegabilmente di derivazione e atmosfere beckettiane; l’approccio
filosofico forse ricorda di più Sartre, ma comunque siamo dalle parti della grande tradizione esistenzialistasimbolista-
fantastica del ‘900. Sin da subito appare infatti evidente che al centro dell’attenzione di Dell’Orco
non c’è la vicenda strettamente intesa ? poco più che un mero pretesto ? ma piuttosto un sottotesto ricco di
allusioni, richiami ed enigmi. Cosa è esattamente questa dimora (unica?) nella quale i protagonisti si svelano e
nascondono in un gioco di trasparenze e dissolvenze? Una prigione o una tana? Un luogo dell’anima o un
bunker? Il mood escatologico che aleggia sulle pagine rimanda a una apocalisse concreta o a un simbolo,
magari un inganno? I due protagonisti ? l’uno doppelgänger più giovane dell’altro ? sono legati da vincoli di
parentela o sono due aspetti della stessa persona (presenti contemporaneamente grazie a un paradosso
temporale o a una proiezione psichica non si sa)? La mattanza da serial killer della quale cade vittima Elvira è
davvero opera di una oscura forza esterna o peggio i mostri vanno cercati nell’anima di Arturo e Sergio?
Interrogativi che non sta a noi sciogliere e che forse nessuno ? neanche l’autore ? può sciogliere, ma che
rappresentano la spina dorsale del testo assieme alle considerazioni più o meno filosofiche che via via i
protagonisti propongono al lettore.
Scusate per la precedente versione della recensione: qui di seguito quella graficamente più corretta.
Sandro Dell’Orco
La dimora unica
Due uomini in una grande stanza grigio piombo, dapprima buia poi illuminata da una impietosa luce bianca. L’uno – Arturo – è un sessantenne brizzolato, l’altro – Sergio – è una versione vent’anni più giovane del compagno di sventure. Perché sventure? Perché i due a quanto pare si sono rifugiati in quel luogo per sfuggire a un tremendo diluvio, un’inondazione che minaccia la sopravvivenza stessa del genere umano. Ma sarà davvero questa la verità? Mentre esplorano palmo a palmo la loro nuova spoglia dimora, i due si interrogano sul loro passato nebuloso, sulla loro identità e soprattutto sul loro futuro. Fino a quando l’apparizione di una figura femminile velta non li strappa alle loro elucubrazioni…
Dopo il noir kafkiano di Delfi Sandro Dell’Orco pubblica un po’ a sorpresa una breve ma suggestiva pièce teatrale. L’impianto drammaturgico è innegabilmente di derivazione e atmosfere beckettiane; l’approccio filosofico forse ricorda di più Sartre, ma comunque siamo dalle parti della grande tradizione esistenzialista-simbolista-fantastica del ‘900. Sin da subito appare infatti evidente che al centro dell’attenzione di Dell’Orco non c’è la vicenda strettamente intesa – poco più che un mero pretesto – ma piuttosto un sottotesto ricco di allusioni, richiami ed enigmi. Cosa è esattamente questa dimora (unica?) nella quale i protagonisti si svelano e nascondono in un gioco di trasparenze e dissolvenze? Una prigione o una tana? Un luogo dell’anima o un bunker? Il mood escatologico che aleggia sulle pagine rimanda a una apocalisse concreta o a un simbolo, magari un inganno? I due protagonisti – l’uno doppelgänger più giovane dell’altro – sono legati da vincoli di parentela o sono due aspetti della stessa persona (presenti contemporaneamente grazie a un paradosso temporale o a una proiezione psichica non si sa)? La mattanza da serial killer della quale cade vittima Elvira è davvero opera di una oscura forza esterna o peggio i mostri vanno cercati nell’anima di Arturo e Sergio? Interrogativi che non sta a noi sciogliere e che forse nessuno – neanche l’autore – può sciogliere, ma che rappresentano la spina dorsale del testo assieme alle considerazioni più o meno filosofiche che via via i protagonisti propongono al lettore.