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Per Svetislav Basara, ovvero l’assurdo che si fa parola

di Lorenzo Pompeo

Tra le voci della ex-post-Jugoslavia a cui tra gli anni ’90 e la prima metà del decennio successivo l’editoria italiana ha dedicato un minimo di attenzione (penso in primo luogo all’antologia Dizionario di un paese che scompare. Narrativa della ex-Jugoslavia del 1994 e, a un decennio di distanza, l’antologia Casablanca serba. Racconti da Belgrado, entrambi curate da Nicole Janigro), quella di Svetislav Basara, nato nel 1953 a Bajina Bašta, piccolo paese di provincia vicino al confine con la Bosnia – l’autore in Mongolski Bedeker, lo definisce “una bufala giornalistica, una leggenda metropolitana piuttosto che un vero centro abitato” -, mi sembra quella più interessante.
Lo scrittore serbo, fino a poco tempo fa ambasciatore della Repubblica serba a Cipro, dopo aver scritto e pubblicato alcuni racconti, esordì nel 1984 col romanzo Kinesko pismo (“Lettera cinese”, tradotto in inglese ma non in italiano). Negli anni ’90 era uscito dall’Unione degli scrittori jugoslavi e si era espresso apBasara-Mongolski-mertamente contro il regime di Milošević.
I suoi due romanzi tradotti in italiano, Quel che si dice dei ciclisti rosacroce, edito nel 2005 dalle Edizioni Anfora e il recentissimo Mongolski bedeker, edito dalla Quodlibet lo scorso anno, insieme ai due racconti presenti nelle citate antologie, offrono al lettore italiano la possibilità di entrare nel mondo di questo autore serbo, dotato di uno stile e di una scrittura assolutamente personali e riconoscibili.
I suoi libri a stento possono essere chiamati romanzi. La linea narrativa infatti viene continuamente e deliberatamente interrotta, stravolta, deviata verso un corso irreale nel quale l’io narrante si smarrisce, insieme al narratore onnisciente (il quale scopre che non riesce neanche a conoscere se stesso) in un labirinto di rappresentazioni speculari, uguali e contrarie. Dalla prima all’ultima riga vi si riconosce la mano dell’autore: la sua passione per il grottesco, lo sberleffo dadaista nei confronti del “mondo delle belle lettere”, la decostruzione di tutti i miti della cultura novecentesca, dalla psicoanalisi alla Rivoluzione russa, fino ai più recenti miti del nazionalismo post-comunista.
Mentre altri scrittori serbi della sua generazione si affannano a fare i conti con i fantasmi del passato jugoslavo e con la sua tragica fine, tentando disperatamente di conciliare la condanna della follia nazionalista con l’amor di patria (mentre l’accusa di “tradimento” volteggia come un avvoltoio sulle loro teste), Basara prende tutte le carte e le mescola, non per vincere la partita, ma solo e semplicemente per dissacrare qualsiasi altare e per smontare, con la sua raffinata ironia, qualsiasi costruzione retorica. Per questo la scommessa di Basara, a mio avviso, risulta l’unica operazione veramente vincente dal punto di vista intellettuale. Anche perché la più limpida e onesta.
Le citazioni tratte dai miti della sub-cultura esoterica (peraltro spesso saccheggiati anche da pseudo-teorie nazionaliste) sono un elemento caratteristico della sua prosa (si veda ad esempio la storia della setta dei ciclisti rosacroce in Quel che si dice dei ciclisti rosacroce) insieme alle citazioni delle utopie politiche, i miti del realismo socialista, e alle citazioni delle teorie psicoanalitiche più note (Freud, Jung).
L’apocrifo per Basara diventa l’essenza, la matrice della sua scrittura, nella quale religione è continuamente contaminata con le utopie novecentesche e la realtà si mescola col sogno. La sua irriverente vena grottesca, che molto deve a Borislav Pekić, grande “eretico” delle lettere serbo-jugoslave (fu lui l’autore della raccolta di testi apocrifi Il tempo dei miracoli edito recentemente dalla Fanucci), ricorda per altri versi anche alcuni film di Dušan Makavejev (penso soprattutto a Misterije organizma, strampalato e divertente film-collage del 1974 dedicato alle teorie di Reich che fu giudicato “sovversivo” dalle autorità, cosa che costrinse il regista all’esilio). Tra i “maestri” della letteratura mondiale lo stesso Basara, nelle sue interviste, ha riconosciuto, e non a torto, Samuel Beckett, Borges e Kafka (ma l’impronta di quell’umorismo nero dell’Europa centro-orientale è a mio avviso abbastanza evidente).
Gli scritti di Basara posso essere considerati un vero e proprio distillato di quella follia che, dopo aver covato per anni sotto le ceneri sparse sul mausoleo di Tito, è esplosa negli anni ’90, dando vita a quello che probabilmente verrà considerato come l’ultimo rantolo di quel totalitarismo nazionalista tutto europeo che già oggi, a pochi anni di distanza, risulta quasi incomprensibile.
Purtroppo la scarsa diffusione dei due editori che hanno pubblicato i due volumi di Basara in Italia confinano il suo nome tra i cultori delle lettere balcaniche e tra pochi curiosi. In patria, al contrario, è uno degli autori più apprezzati e premiati (ha pubblicato oltre una ventina di titoli). Considerarlo un autore umorista probabilmente vuol dire fare torto al suo talento, ma se ciò potesse in qualche modo tornare utile per avvicinare il lettore più distratto ai suoi scritti, ben venga. Purché, se proprio umorismo deve essere, sia almeno umorismo nero, di un nero che più nero non si può (anche se qui e là illuminato da un filo di speranza legato a una dimensione religiosa, anche se distorta e stravolta, alla quale l’autore ritorna nei suoi scritti): pericoloso veleno per i regimi di ogni tempo e, allo stesso tempo, nutrimento degli intelletti liberi.

2 COMMENTS

  1. Stimolante recensione verso la lettura di un mondo così vicino, ma poco frequentato anche dal punto di vista letterario. “la sua passione per il grottesco, lo sberleffo dadaista nei confronti del “mondo delle belle lettere”, la decostruzione di tutti i miti della cultura novecentesca, dalla psicoanalisi alla Rivoluzione russa, fino ai più recenti miti del nazionalismo post-comunista. “. Ecco, questo passaggio lo trovo pungolo fertile, garanzia, direi, di buona lettura. Grazie e auguri a tutti di feste tranquille.

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