Giacometti su Aldebaran
I due testi che si presentano sono tratti da: Valerio Magrelli, Il violino di Frankenstein / Scritti per e sulla musica, «fuoriformato» 25, Le Lettere, 2010. Il volume — prefazione di Guido Barbieri, postfazione di Gabriele Pedullà — contiene tre cd audio con musiche di Guido Baggiani, Carlo Boccadoro, Luigi Ceccarelli e Fabrizio De Rossi Re.
di Valerio Magrelli
a Jean Genet e Yves Bonnefoy
Si avvicinava, e quelle via, sempre più minuscole, sempre più distanti. Dove andavano a finire?
Quando gli viene chiesto che cosa salverebbe da un incendio nel suo atelier, risponde: «Il gatto». Invece qualcun altro preferisce dire: «Il fuoco». Faceva dello spirito, costui. Ma osservando le opere tanto riarse e combuste di Giacometti, veri tizzoni della forma, si capisce che gatto e fuoco, qui, sono la stessa cosa. La sua creatura (donna, uomo o animale) appare ormai abitata dalla propria morte, trasformata in ciò che la minaccia, come nel caso di quella spaventosa famiglia che si potrebbe intitolare delle Figurine in fuga.
L’aggressione del Nulla. Un giorno, poco a poco, le sue sculture iniziarono a rimpiccolirsi: «Nel 1940, con mio grande terrore, le statue hanno cominciato a ridursi. Era veramente una spaventosa catastrofe […] Diventavano così piccole che non riuscivo più a inserirvi nessun particolare». (Forse per via di un eccesso di peso, perché i suoi volti erano masse di vita talmente colme da non riuscire a sopportare neanche un grano di vita in più. Zeppi di vita, sovraccarichi, duri come sassi, pieni come uova, pesanti da sembrare palle di piombo in picchiata. Un tocco in più, e c’è il collasso stellare.)
Mentre la madre, turbata, gli confessa il suo orrore per questo popolo microscopico, e glielo rimprovera, eccome, lui assiste impotente a tale mutazione. Sgomento (e le gambe gli fanno giacomo giacometti): «Non ci capivo niente. Tutte le mie statue finivano per raggiungere il centimetro. Una spintarella e hop! Niente più statua».
Si rattrappiscono, discendono nella voragine, saltano giù con un passaggio al limite. Un tuffo matematico. E insieme all’unità della figura, cresce anche la sua fragilità, il suo quoziente di inesistenza. Così, quando nel 1945 il loro autore lascerà Ginevra, le sculture staranno facilmente in una sola scatola di fiammiferi.
Immaginare il ticchettio che facevano, in tasca. Spiccioli.
Bell’alfabeto Morse: «Forse Morte».
Alla fine il dissanguamento verrà arrestato e il vuoto tamponato; alla fine la sua astronave riuscirà a allontanarsi dal buco nero (lo immagino tramutato nel tormentato e saggio Spock di Star Trek, in viaggio per Aldebaran, con le orecchie allungate dall’ossessivo esercizio dell’ascolto); alla fine Giacometti potrà esclamare: «Ho giurato a me stesso di non permettere più alle mie statue di ridursi di un pollice». Alla fine. Ma a quale prezzo! Quante figure inghiottite in quella falla! Quante sculture colpite dal raggio della morte!
L’Osiride del Louvre. Funebre, egizia, lavorata dal tempo e dall’oscurità, quest’arte è destinata al popolo dei morti, al popolo che continuava a strapparle lo spazio, a portarglielo via come dormendo si tira la coperta a chi ci giace accanto dentro un letto matrimoniale.
Luigi Ceccarelli, Giacometti su Aldebaran, 4:58.
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Roba USA
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Luigi Ceccarelli, Roba USA, 4:34.
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Immagini:
Alberto Giacometti, La place II, 1948-49, bronzo.
Pubblicità Ryvita.
giacomo giacometti? ma mi faccia il piacere!
mi sorprende sempre meno che quando su NI capita qualcuno che sa veramente scrivere con un’immagine davvero sofisticata venga fuori un ignorante che non sa scrivere che ci fa dell’ironia poco sofisticata