T.R.S.T me!

(Trieste vista dalla Luna)


di
Azra Nuhefendic

Essendo la più piccola mi toccava sempre fare lo «schvabo», come chiamavamo i tedeschi, i nostri peggiori nemici, nell’immediato dopoguerra. Il ruolo dei partigiani lo giocavano i bambini più grandicelli, quelli di sette, otto anni. Era scontato che i partigiani dovevano vincere sempre. Quando i «partigiani» si stancavano di vincere, si giocava a intonare canti rivoluzionari; o a gridare vari slogan che per un bambino di cinque, sei anni non avevano alcun significato. Me ne ricordo due in particolare: «Zona A, Zona B, bice nase obadvje» (Zona A, Zona B, sarete nostre, oh sì) e «Trst je nas», Trieste è nostra. Quest’ultimo mi è rimasto impresso più a lungo nella memoria. Di certo per ragioni né ideologiche né politiche. All’età di cinque anni non avevo idea di cosa volesse dire «Trst», e nemmeno capivo perché era «nostra». Ma mi divertiva un sacco pronunciare tutte quelle consonanti con la bocca piena di latte in polvere. Mentre scandivo le lettere T R S T, dalla mia bocca uscivano delle nuvole bianche che coprivano non solo la mia faccia ma anche quella di coloro che mi stavano vicino.
Il latte in polvere, americano, lo mangiavamo a merenda, prendendolo con una mano direttamente dalla busta. Ci arrivava assieme agli aiuti umanitari – operazione Unra. C’era anche il chaddar cheese, un formaggio giallognolo ed elastico come la gomma. Erano anni di povertà collettiva. Ma a nessuno importava niente, perché ci veniva promesso un futuro bello, radioso, ricco e pieno di giustizia e di uguaglianza.

Poi, trascorsi gli anni dell’entusiasmo, abbandonati i sogni di ricchezza collettiva e dimenticati i giochi d’infanzia, la parola «Trst», tornò, alla grande, nella mia vita. E non soltanto nella mia. Erano gli anni Sessanta. Si era sparsa voce che un vicino era andato con la moglie in Italia, a Trst. Nel mio piccolo mondo quella notizia ebbe una risonanza comparabile a quella che ebbe nel resto del mondo la notizia che Armstrong aveva camminato sulla Luna. La Jugoslavia era un Paese chiuso, le notizie dall’estero arrivavano dopo essere state filtrate da vari comitati e commissioni; e tutto questo per proteggerci dal «mondo cattivo dei capitalisti», come la politica ufficiale definiva il resto del mondo. Ed ecco che uno di noi, uno come noi, se ne andava tranquillamente all’estero, a Trst! «Torneranno sani e salvi? Se li mangeranno?», mi domandavo io. Poi accadde che il vicino si sentì male mentre faceva il suo primo shopping a Trieste. Se la cavò per un pelo. Ma la cosa non ci fece né caldo né freddo, presi com’eravamo dalle discussioni sulla prima camicia di nailon che lui aveva portato da Trieste, su quel primo soprabito, lo scuscavaz, chiamato così perché era fatto di una plastica orrenda che crepitava. E poi su quella gondola di plastica, con una piccola lampadina dentro che la illuminava quando la attaccavi alla presa.

Naturalmente le cose che i vicini avevano comprato a Trieste divennero all’istante l’oggetto del desiderio di tutti noi. «Perché loro sì e i miei genitori no?», mi chiedevo invidiosa. È così che abbiamo cominciato ad arrenderci a Trieste. È così che, grazie a Trieste, il nostro mondo ha cominciato a cambiare i suoi colori. Letteralmente. Le cose che la gente portava da Trieste erano diverse, soprattutto nei colori. E tutti avevamo fretta di scambiare il nostro grigio, o il nostro nero, con colori più chiari, più sgargianti e più felici.

Mi ricordo perfettamente del giorno in cui mio zio arrivò da Trieste con una valigia piena di roba. La posò sul pavimento del salotto. Aspettavo qualcosa di bello, ma ciò che apparve davanti ai miei occhi e davanti agli occhi delle mie sorelle, superò ogni nostra aspettativa: dalla valigia, come uno schiaffo in piena faccia, venne fuori un’esplosione di colori: rosso vivo, giallo fosforescente, fucsia, verde, viola, arancione intenso… Per un attimo restammo paralizzate davanti a questa meraviglia. Ma solo per un attimo, però, perché un attimo dopo ci avventammo sulla valigia cercando di afferrare quanta più roba potevamo senza neanche pensare se i vestiti erano della nostra taglia.

Davanti a questa scena mio padre, deluso, si ritirò nella sua stanza. Non voleva essere testimone delle prime avvisaglie della sconfitta del suo mondo, di «essere» con il mondo del consumismo, cioè di «avere». Quando tutti, ormai, andavano a Trieste per fare acquisti, nostro padre non ce lo permetteva, dicendo che una persona non si distingue per come veste, ma per ciò che è. Io non lo capivo e neanche lui capiva me. Volevo avere, adesso, tutto ciò che di primo acchito sembrava una manifattura di Trieste; volevo essere invidiata per quegli abiti belli, per quelle gonne dai colori chiari, per quelle calze sottili. Ero disposta a sacrificare tutta la mia educazione, tutto il mio mondo, per un bel paio di scarpe italiane. Forse le scarpe italiane sono state il simbolo più incisivo di un mondo diverso, più bello, la tentazione più irresistibile. Le nostre calzature erano brutte da vedere, parevano gli scarponi dei soldati austroungarici. E per giunta erano talmente dure che ti sembrava di calzare uno strumento di tortura. Te le infilavi e aspettavi soltanto che facessero clac, come una chiave nel lucchetto.

All’inizio fare le compere a Trieste era uno status symbol. Ci andavano in pochi, i privilegiati, coloro che potevano permetterselo. In seguito, quelli che andavano a Trieste aumentarono sempre di più. Durante gli anni Settanta, dalla ex-Jugoslavia partivano ogni giorno per Trieste oltre 500 pullman e tre, quattro treni. E in occasione delle festività il numero raddoppiava. Si andava a Trieste per portare indietro la bellezza, il lusso, i colori, ciò che era moderno, ciò che sognavamo, che ci mancava, che desideravamo. Potendo, ci si sarebbe portati dietro anche le case, i bar eleganti, le vie illuminate, le vetrine, i caffè, le brioche, il cappuccino, i negozi. Imparavamo a memoria i nomi delle vie, dei bar, dei negozi e delle piazze triestine prima ancora di quelli di Belgrado o di Zagabria. Nei nostri discorsi ostentavamo familiarità con i luoghi di Trieste.

Per decenni non ci fu una sola occasione nella vita della stragrande maggioranza degli jugoslavi che non fosse legata a questa città: ci si andava per comprare gli abiti da sposa, i tailleur e i regali di nozze; ci si andava per comprare tutto ciò che di bello e di morbido ci volesse per un bambino appena nato; prima di mettere piede in un nuovo appartamento si andava a Trieste a comprare le tende, le stoviglie, le posate, la biancheria, finanche i detersivi e i tappeti; per il ballo della maturità si andava a comprare vestiti a Trieste; non si seppellivano neanche i morti senza aver fatto un salto a Trieste, contriti, ma imperterriti a non lasciarsi sfuggire l’occasione di comprare l’abito adatto, sia per la buonanima sia per i suoi familiari.

Una volta un tale acquistò un paio di scarpe per il morto, ma gli sembrarono troppo raffinate per starsene sottoterra. Così le tenne per sé. Per poco, però, dal momento che erano fatte di cartone, con cui puoi andare sottoterra, ma non ci puoi camminare.

Per anni Trieste rappresentò per noi il mondo intero: un mondo diverso, bello, moderno, nuovo. Un simbolo, come «Harrod’s» per Londra o «Mayses» per New York. Trieste era così vicina, così nota e amata, così nostra, anche se non ci avevamo mai messo piede. Le mamme. Furono loro le prime ad accorgersi che Trieste non era soltanto il lusso e la bellezza, ma anche un modo per guadagnare. Cominciarono ad andarci due, tre volte alla settimana. Compravano cose da «Giovanni» o sulle bancarelle di Ponte Rosso e, una volta tornate a casa, le rivendevano rincarate di tre, quattro volte. Le mamme «imprenditrici» sostenevano la famiglia – quanti miei colleghi si sono laureati grazie ai soldi guadagnati con quei viaggi! Questo commercio proibito, «al nero», è stato l’inizio della libera imprenditoria nella Jugoslavia di allora.

Con l’andar degli anni la Jugoslavia ha cominciato ad aprirsi sempre di più al mondo, la gente ha scoperto nuovi posti, Paesi e città. Ma ciò non ha modificato per nulla i nostri sentimenti verso Trieste: per noi è sempre rimasta una città speciale. Oggi, da quelle parti, c’è di nuovo un mondo chiuso. Molto più chiuso di un tempo. Chiuso quasi ermeticamente da fuori. Nessuno ci vuole. E’ difficile uscire, specialmente in direzione dei Paesi occidentali. Quanto al resto, si vivacchia, e i soldi non bastano per fare shopping. Si parla nostalgicamente dei bei tempi, quando si andava a Trieste fosse solo «per bere un cappuccino». «A proposito, “Giovanni” sta ancora lì, in via Ghega?», mi ha chiesto di recente un’amica. «No, ha chiuso». «Oh no!», è stata la sua reazione. Poi, per un po’, è rimasta in silenzio, come si resta quando si apprende una brutta notizia che ci lascia senza parole.

9 COMMENTS

  1. E noi, italiani di Trieste, si andava in Yugo a comprare la carne (migliore e più economica), la benzina, le sigarette (Camel), le scarpe da basket (All Stars); se si andava in Grecia lo si faceva via Yugo perché i treni erano eccezionalmente economici, puliti, puntuali; si andava in Yugo per la musica classica, il jazz, il folk. Si andava in Yugo anche perché si aveva l’impressione che la vita, là, fosse più slow, da tutti i punti di vista. E ci si stupiva per l’incetta di robaccia, che mai noi avremmo acquistato, che facevano gli yugoslavi davanti alla stazione e al ponterosso. Insomma, punti di vista, diverse pesature da dare all’importanza degli oggetti, della roba. Della cultura. Delle aspettative.

  2. davvero emozionante; ho conosciuto in quegli anni due sorelle profughe istriane, amiche di mia madre, e i loro racconti e l’andarle a trovare ogni tanto mi hanno lasciato un sapore in bocca che non dimentico. Grazie Azra e grazie effeffe.

  3. La sinistra occidentale si è affrettata a seppellire, letteralmente, ad abrogare in toto, senza neppure guardarci dentro, senza un solo minuto di riflessione, senza concedersi una sola riga di analisi seria, documentata, approfondita, l’intero pacchetto Est Europeo, cioè socialismo reale.
    Le è bastata la parola Gulag (e sì che ce lo sapevamo da molto tempo, del Gulag) e non le è parso vero di accodarsi alla più scontata delle critiche «liberali».
    Dall’altra parte del confine Est-Ovest, la mitizzazione degli oggetti d’Occidente, manco scendessero direttamente dal paradiso: la forza d’attrazione gravitazionale del capitalismo, con la sua falsa molteplicità, col suo falso pluralismo et individualismo, accecava noi nel narcisismo e loro nell’illusione di un ben-godi inesistente.
    Adesso che è tutto uguale, assistiamo alla morte di tutte le culture sia ad Est che ad Ovest, tutto schiacciato sotto la botta immane dei padroni planetari del profitto.
    Era questo che volevamo? Se sì, è già qui e da un pezzo.

  4. Alla metà degli anni ’80 mi capitò, durante un soggiorno invernale a Budapest, di assistere a un fenomeno bizzarro. C’era, in una zona abbastanza centrale, un negozio Wrangler monomarca, l’unico della città, l’unico con vero jeans occidentale. C’erano anche molti negozi di abbigliamento tradizionali, con le vetrine in effetti un po’ ingiallite, i commessi talvolta un po’ scazzati. In questi negozi venivano venduti, ad es., cappotti di loden di buona fattura, e stivali di cuoio morbido, alti, un po’ da equitazione. Molti occidentali li compravano, costavano davvero niente, almeno per le nostre tasche di occidentali, per le loro non so. So però che i pantaloni, i giubbini, le scarpette di tela della Wrangler costavano molto più dei loden e degli stivali, direi enormemente di più. Gli ungheresi facevano la fila, davanti a quel monomarca, e se ne uscivano molto soddisfatti, benché tremanti, nel rigido gennaio di Budapest. Mah!

  5. @the o.c.
    se pensi che il “senso” di un racconto, qualsiasi racconto, sia univoco, se pensi che a fine lettura dobbiamo giungere tutti alle medesime conclusioni… beh non credo che tu possa pensare cose del genere.
    dunque non dovresti avere difficoltà a constatare che in me questo post ha innescato le riflessioni sintetizzate (al massimo) nel commento qui sopra e però, probabilmente, diverse dalle tue.
    e allora?

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francesco forlani
francesco forlani
Vive a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman e Il reportage, ha pubblicato diversi libri, in francese e in italiano. Traduttore dal francese, ma anche poeta, cabarettista e performer, è stato autore e interprete di spettacoli teatrali come Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, con cui sono uscite le due antologie Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Corrispondente e reporter, ora è direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Con Andrea Inglese, Giuseppe Schillaci e Giacomo Sartori, ha fondato Le Cartel, il cui manifesto è stato pubblicato su La Revue Littéraire (Léo Scheer, novembre 2016). Conduttore radiofonico insieme a Marco Fedele del programma Cocina Clandestina, su radio GRP, come autore si definisce prepostumo. Opere pubblicate Métromorphoses, Ed. Nicolas Philippe, Parigi 2002 (diritti disponibili per l’Italia) Autoreverse, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2008 (due edizioni) Blu di Prussia, Edizioni La Camera Verde, Roma Chiunque cerca chiunque, pubblicato in proprio, 2011 Il peso del Ciao, L’Arcolaio, Forlì 2012 Parigi, senza passare dal via, Laterza, Roma-Bari 2013 (due edizioni) Note per un libretto delle assenze, Edizioni Quintadicopertina La classe, Edizioni Quintadicopertina Rosso maniero, Edizioni Quintadicopertina, 2014 Il manifesto del comunista dandy, Edizioni Miraggi, Torino 2015 (riedizione) Peli, nella collana diretta dal filosofo Lucio Saviani per Fefé Editore, Roma 2017