Sciascia, ieri, oggi e domani
(da «il Fatto Quotidiano» – giovedì 25 marzo 2010)
(RI)LETTURE
Lo scrittore siciliano e l’«infezione» di quest’Italia
di Evelina Santangelo
C’è un libro di Sciascia di cui è rimasto impresso nella mente anche di chi non lo ha mai letto un passaggio cruciale. Le parole pronunciate da don Mariano Arena riguardo all’umanità, fatta – secondo questo «galantuomo… amato e rispettato da un paese intero» – di «uomini, mezz’uomini, ominicchi, cornuti e quaquaraquà». Una visione pronunciata con la protervia di chi si arroga il diritto di decidere della vita e della morte di altri individui, al di fuori della legge dello Stato, o meglio, secondo proprie leggi: chi è un quaquaraquà, nel territorio sottoposto alla giurisdizione di don Arena e dei suoi sgherri, è condannato a morire di morte violenta, come chi non si adegua, d’altro canto. Che questo giudizio pronunciato da un capomafia potentissimo e intoccabile sia finito per diventare non solo la citazione più famosa di un libro come Il giorno della civetta, ma quasi un modo tutto sommato consueto di apostrofare uomini e comportamenti è un fatto abbastanza incredibile, a pensarci bene, quasi la dimostrazione di come sia sdrucciolevole toccare in forma narrativa un fenomeno come la mafia capace di fagocitare tutto ciò che la riguarda e, per vie esplicite o contorte, rigurgitarlo sotto forma di mito. E infatti Sciascia, consapevole probabilmente del rischio insito in una scelta del genere, non cede mai, in verità, alla tentazione di narrare la mafia, i suoi uomini, le sue vicende, ne definisce piuttosto la grammatica, il linguaggio, la portata delle sue ramificazioni materiali e culturali, la notomizza insomma, analizzando minuziosamente tutti gli aspetti sociali, economici, politici, culturali, antropologici che concorrono a quell’intreccio sotterraneo di interessi e connivenze di cui il fenomeno criminale mafioso è la manifestazione più evidente.
Così, se violando qualche veto terapeutico lanciato di recente contro gli scrittori che «portano sfiga» (Sciascia, in primis) da un assessore regionale siciliano in vena di zelante ottimismo, se ci prendiamo la libertà di scegliere quel che, di volta in volta, ci sembra rilevante rileggere per decifrare aspetti della contemporaneità e, con questa attitudine, ritorniamo a un libro come Il giorno della civetta, scopriamo che «nel rovescio» di quella vicenda di indicibili collusioni politico-affaristico-mafiose passa una trama che corre da un capo all’altro dell’opera, e questa trama ha a che vedere con qualcosa che oggi ci riguarda più che mai: il sentimento della legge e l’idea di giustizia connesse profondamente all’idea stessa di libertà. Ed è proprio lì, nella natura di tali sentimenti e idee, che passa il discrimine intanto tra chi, come il capitano Bellodi, serve e fa rispettare «la legge della Repubblica» e chi, invece, alimenta l’idea che la legge non sia «immutabilmente scritta ed uguale per tutti», ma sia piuttosto «assoluta irrazionalità… a ogni momento creata da colui che comanda… da chi ha la forza insomma». Un concetto che, nel corso del libro, Sciascia declina in tutte le sue implicazioni e conseguenze facendone la radice malata da cui scaturisce il «sentire mafioso» assunto come «regola di vita, dei rapporti sociali, della politica» e, in ultima analisi, il male oscuro che cova in tutto il paese, soprattutto in quella «borghesia che assumeva la mafia quasi come un’ideologia». Il paese e la borghesia, certo, così come li vedeva lo scrittore nella lontana estate del 1960. Altri tempi, altre circostanze… che, indagati attraverso una vista lucidissima adombrano substrati di collusione tra poteri e mafia inverosimili (potere politico, clericale, economico, giudiziario) e, in questa inverosimiglianza, incredibilmente attuali (come sembra stia ritornando attuale il costume di negare le mafie, se è vero che anche il prefetto Valerio Lombardi si sia lasciato andare a inopinate considerazioni sull’inesistenza delle mafie in quel di Milano… lì dove lui, prefetto di Milano, appunto, dovrebbe vegliare più che mai).
Così, se seguiamo questo filo di riflessioni sulla «legge che nasce dalla ragione ed è ragione» (non amore, non odio, non compassione, né benevolenza… verrebbe da precisare in questi nostri tempi confusi di eserciti del bene contrapposti a eserciti del male, di eserciti dell’amore contrapposti a eserciti dell’odio…), se seguiamo dunque questo filo ininterrotto di pensieri, non sembra affatto un caso che nel cuore del libro s’innesti una nota sul pericolo insito in ogni tentazione di spezzare l’«angustia» cui costringe la legge, sospendendo anche in via del tutto eccezionale le «garanzie costituzionali» per sradicare persino il male dei mali, come è accaduto in Sicilia durante la repressione del prefetto Mori, la Sicilia «che, sola in Italia, – scrive Sciascia, – dalla dittatura fascista aveva avuto in effetti libertà, la libertà che è nella sicurezza della vita e dei beni» (la libertà, a ben guardare, che alcune forze politiche, la Lega in testa, oggi pericolosamente vagheggiano). Una libertà – nota Sciascia – costata tutte le altre libertà. Uno spaventoso compromesso cui può rassegnarsi solo un popolo che si è assuefatto a concepire e sperimentare «l’autorità», non come «strumento da usare con precauzione, con precisione, con sicurezza» secondo «una legge immutabile e uguale per tutti», ma come «arbitrio», sia nella forma del sopruso sia nella forma del più soggettivo, e dunque arbitrario, senso della giustizia riservato a pochi «uomini di pace» che si arrogano il diritto o si conquistano il consenso per amministrare la legge in deroga a tutte le leggi (e i principi costituzionali). Ed è proprio questo quel che fa don Mariano Arena, di quegli «uomini rispettati… per il loro saper fare, per la capacità che hanno di comunicare…». E questa deroga, questa difformità, parziale o totale da quanto stabilito da una legge, da un regolamento, sembra dire Sciascia, è ciò che permette appunto a uno come don Mariano Arena di sostenere che «il popolo, la democrazia… sono belle invenzioni: da gente che sa mettere una parola sull’altra e tutte le parole sulla schiena dell’umanità»; questa deroga è ciò che trasforma chi governa in «chi comanda», e le leggi fatte da chi comanda in benefici di cui «godere» stando dalla parte, o «infilandosi» tra coloro che comandano, a tutti i livelli e in ogni ambito, per tessere una trama di amicizie e interessi economici insospettabili (quelle che oggi chiameremmo «cricche»). Questa deroga sistematica e capillare è, insomma, la vera profonda radice del male con cui è costretto a fare i conti, e contro cui oppone la sua semisolitaria resistenza, il capitano Bellodi, uomo del nord, emiliano, «per tradizione familiare repubblicano», uomo di legge che svolge il suo mestiere con «la fede, – scrive Sciascia – di un uomo che ha partecipato a una rivoluzione (la resistenza nda) e dalla rivoluzione ha visto sorgere la legge… che assicurava libertà e giustizia, la legge della Repubblica». Quella legge costituzionale che fa della libertà qualcosa non solo di profondamente diverso dalla «felice aerea libertà di una bolla di sapone», ma qualcosa di profondamente antitetico, anzi di inconciliabile con qualsiasi libertà che si accompagni a un’idea particolaristica della libertà o addirittura promozionale… Come lo è, particolaristica e promozionale (almeno negli slogan), quella forma di libertà che oggi sono chiamati a «diffondere» – quasi fosse un prodotto finanziario, un investimento a buon rendere – i promotori della libertà, promotori di diritti e interessi sempre preceduti da un qualche aggettivo possessivo, «i tuoi», «i miei», «i nostri».
Eppure è proprio quest’idea della libertà e dei diritti intesi come prerogativa di alcuni e non di tutti, quest’idea della legge come arbitrio o interpretazione particolaristica, come stato umorale, pensiero individuale o di parte, che fa della Sicilia raccontata da Sciascia una terra dove la legge suscita paura, rassegnazione, rabbia e, di contro, sopraffazione, impunità, appetiti individuali o di comitati d’affari. È questa idea di legge che il capitano Bellodi non si rassegna ad accettare nella consapevolezza che solo nel rispetto di uno stato di diritto passa il rispetto per l’uomo, il rispetto per l’uomo, sì (attitudine etica e rigore deontologico che gli varrà addirittura la considerazione di uno come don Mariano Arena).
Così, guardando oggi allo stato presente dei costumi degl’Italiani, suonano quasi profetiche alcune considerazioni con cui si chiude Il giorno della civetta: «bisogna andare in Sicilia per constatare quanto è incredibile l’Italia»; «forse tutta l’Italia va diventando Sicilia…». A quelle considerazioni seguiva una «fantasia»: s’immaginava una sorta di «linea degli scandali» che saliva su per l’Italia come «la linea della palma», il clima propizio alla vegetazione della palma che da sud si andava spostando pian piano verso nord…
Ora, oggi, in Sicilia, però, c’è una fatto nuovo. E il fatto nuovo, che potrebbe suscitare altre «fantasie» forse troppo funeste, troppo di malaugurio (ci perdonino dunque gli alabardieri dell’ottimismo) è che nel tronco delle palme, di un numero sterminato di palme, un coleottero, il punteruolo rosso, ha deposto da tempo, di nascosto, centinaia di uova. Le uova si sono schiuse, le larve hanno preso a muoversi verso l’interno dei tronchi, divorando i tessuti fibrosi, scavando tunnel e cavità sempre più grandi sino a svuotare i fusti, sino a infestare qualsiasi parte della pianta. Così oggi, in Sicilia, beh, un numero sterminato di palme ormai è collassato. In Sicilia, oggi.
In tutta Italia, domani.
O forse, già oggi…
Grazie, Evelina, per questa riflessione e per l’immagine tremenda e meravigliosa del punteruolo rosso.
Christian
bella contro-metafora, grazie…e speriamo nei punteruoli “rossi”.
Il brano risponde come uno specchio al libro che ho comprato ieri a Genova:la parola contro la camorra di Roberto Saviano. Ieri nella mia camera di albergo, ho letto e si puo dire che ogni parola mi attraversava il cuore.
La palma, l’ho sempre vista come albero della libertà, ma con l’ombra fragile, un fantasma del sud che copre ogni pensiero, e questo pensiero è vicino del cielo. La palma era nel mio immaginario di infanzia, era nella scuola, e oggi leggendo, capisco che l’innocenza di un immagine puo morire. Mi chiedo che futuro per i bambini della Sicilia, del sud, che palma hanno sognato. E questa felicità da cui parla Roberto Saviano, questa felicità non l’hanno sognata: è divorata da un cielo luminoso che ha solo il colore per fare dimenticare il sole di cimento nel cuore.
Mi chiedo che posto ho in questa parte di luce, e ho un po’ di vergogna a sentire un aria di libertà oggi seduta sulla piazza principale con fontana.
Questa libertà puo venire. Forse il colleottero di fuoco farà incendio per creare un nuovo paesaggio. Altre palme, ma create per la felicità e la libertà di vivere, di pensare, di scrivere, di creare.
profonda e lucida riflessione.
Il problema nuovo, che conferma l’analisi di Sciascia e ne arricchisce la metafora, pare sia la disillusione generalizzata rispetto all’auspicabile razionalità della legge. Sciascia aveva già intuito dove stava andando il nostro Paese ed era già scettico trent’anni fa; ma oggi, anche nelle coscienze dei pochi disposti a credere nella “razionalità” della Legge, s’è infiltrato il punteruolo della disillusione. Anche nei pochi che credevano nel primato del governo illuminista (sia di destra o di sinistra, cattolico o laico) ha covato il dubbio, la rassegnazione.
Non si vedono alternative e non si può, ahinoi, sperare soltanto nella forza della parola e della denuncia (con buona pace del coraggioso Saviano).
La disillusione scava dentro di noi da venti anni almeno e ci ha già decapitato (nel senso bataillano di averci tolto la ragione, la fiducia nella comunità e nel potere).
Molto bello questo post; sempre utili le riflessioni sull’opera di una figura scomoda e mai adeguatamente celebrata (e ricordata) come quella di Leonardo Sciascia.
Schillo,
Credo nella forza della parola, perchè entra nella mente. Quando si legge una frase viva, rimane stempata. Non si puo dimenticare un grido.
La parola fa intravedere un prato mai immaginato a l’uomo abituato al
silenzio, alla prigione.