Radio Kapital: Luc Boltanski
Sono talmente ambizioso da pensare che guadagnare
dei soldi sia facile, mentre fare un’opera è molto più complicato.
Christian Boltanski
Krisis
di
Anna Maria Merlo
PARIGI. La crisi colpisce duramente il mondo attuale, da finanziaria, è diventata economica e sta trasformandosi in sociale. Vediamo gli stati correre dietro al mercato, piegarsi ad esigenze che vengono considerate “oggettive”, ineluttabili, contro le quali non si puo’ intervenire. A Luc Boltanski, il sociologo che nel ’99, pubblico’, assieme a Ève Chiapello, l’importante libro Le nouvel esprit du capitalisme (Gallimard, in uscita per Feltrinelli), chiediamo una lettura della crisi attuale. Alla discussione partecipano due giovani sociologi, Bruno Cousin e Cyprien Tasset.
Luc Boltanski: “Siamo di fronte a una doppia crisi: la crisi del capitalismo e quella del nuovo stato che si è istituito in relazione con il capitalismo. Negli anni ’50-’60 era stato raggiunto un compromesso tra lo stato e la grande impresa: lo stato garantiva al capitale la riproduzione della forza lavoro e le grandi imprese pagavano le tasse. Questo modello è andato in crisi dalla fine degli anni ’60, crisi approfondita nel periodo ’75-’90. La risposta è stata allora la deregulation, l’esternalizzazione del lavoro, la finanziarizzazione. Con l’effetto, per le grandi imprese, di poter eludere il pagamento delle imposte. Quindi, quando oggi si sente dire che lo stato è povero, la cosa puo’ apparire assurda, ma in fondo è vera.
La novità è che, al contrario di trent’anni fa, lo stato si è costituito sul modello della grande impresa. Nel libro Le nouvel esprit du capitalisme, scritto con Ève Chiapello, parlando di “cité per progetto” – il nuovo criterio di valutazione, fondato su reti e progetti, promosso dal management degli anni ‘90 – a partire da un certo numero di indizi, avevamo identificato la possibilità di un’orientamento riformista del capitalismo. Anche se questa “cité per progetto” non corrispondeva peraltro alla nostra aspirazione personale. Ma questa possibilità riformista non si è realizzata: il capitalismo, invece di riformarsi, ha intensificato la violenza e le contraddizioni che gli erano inerenti, fino ad arrivare alla crisi attuale”.
Bruno Cousin: “Oggi vediamo bene che il cosiddetto rigore non vale per tutti, ma solo per i più poveri e le classi medie. In Francia, lo scudo fiscale, che impedisce di pagare in tasse più del 50% del reddito, esonera i redditi più alti da ulteriori forme di solidarietà. Inoltre, in Francia come in Italia, i giovani che entrano sul mercato del lavoro sono già e saranno i più colpiti dalla crisi e dalla politica di austerità. Siccome sono spesso precari e dunque designati come la variabile di aggiustamento, sono già vittime di una disoccupazione record, e subiranno inoltre per tutta la loro carriera occupazionale le conseguenze di averla iniziata in un periodo di crisi”.
Cyprien Tasset: “Pensiamo anche alla questione delle pensioni, oggi in discussione. Sono un fattore di redistribuzione a cui sarà molto difficile accedere per coloro che moltiplicano i contratti precari. I giovani cercano di realizzarsi, ma vivono con una nera inquietudine rispetto all’avvenire”.
-Che cosa intende per violenza nelle democrazie occidentali? E come viene usata nello specifico contesto attuale della crisi?
L.B.:“Prendiamo la questione dal punto di vista della critica del capitalismo, che era stata molto intensa nel decennio ’65-’75 e che poi si era ritrovata quasi ridotta al silenzio tra l’85 e il ’95. In molti casi, c’è stato un rinnovamento della critica, nel mondo artistico e intellettuale, nel mondo del lavoro – penso al movimento contro il Cpe, il contratto di primo impiego per i giovani nel 2006, o alle proteste contro la riforma del Cnrs e dell’università nel 2008-2009. Nelle imprese, scioperi e movimenti di rivolta si sono intensificati nel corso degli ultimi cinque anni. Anche nel campo politico, vari indizi vanno nella stessa direzione. Eppure, salta agli occhi la differenza rispetto al ’65-’75: non per un diverso livello di intensità né per una marginalizzazione dei critici, ma perché allora la critica era seguita da effetti, cioè aveva una presa sul mondo sociale e sul campo politico. Oggi, è come se la critica avesse sempre maggiori difficoltà ad aver presa sulla realtà. E secondo me vanno analizzati i cambiamenti intervenuti nella governance, che sia pubblica o privata, poiché oggi sono più o meno la stessa cosa, cioè i dispositivi che permettono ai responsabili di contenere la critica. C’è stato un perfezionamento degli strumenti di gestione e l’importazione nella sfera pubblica e politica di tecniche di management che si erano sviluppate, in un primo tempo, nelle grandi imprese. Non siamo quindi al dominio attraverso il terrore, il modo più semplice. Né a un modo di dominazione ideologica, in un periodo in cui si è sviluppato il tema della fine delle ideologie. Ma negli ultimi decenni del XX secolo si sono sviluppate altre forme di dominio compatibili con delle società ipercapitalistiche che si basano, politicamente, sulla democrazia elettorale. Si tratta di forme di dominio che possiamo chiamare “di gestione”, che rinviano a una logica della causalità. Cioè a una forma di necessità annunciata. La critica, la cui validità viene pure riconosciuta in questo contesto, ha meno presa: ai dominati viene solo chiesto di essere realisti. Cioè di accettare i vincoli, in particolare economici, come si presentano, non perché siano buoni o giusti in sé, ma perché si pretende che non possano essere altro da quello che sono”.
B.C.: “Lo si è visto con il movimento dei ricercatori: malgrado esista una forte domanda di riforma che viene dall’interno, c’è stata un’incapacità completa ad esprimere un’alternativa al sistema in modo comprensibile nello spazio pubblico. Col risultato di una ripresa in mano dal governo, spesso fondata su una retorica populista e blandamente anti-intellettuale”.
-La violenza viene quindi dai mercati, considerati una realtà oggettiva che né lo stato, né l’azione politica possono modificare?
B.C.: “Prendiamo le agenzie di rating, di cui si parla molto ultimamente: sembra che lo stato valga solo quanto lo valuta il mercato”.
L.B.:“In un regime politico “di gestione”, il realismo è al centro dei dispositivi di dominio. Costituisce, contemporaneamente, il principio di giustificazione principale a cui i dominanti fanno appello e la virtù che reclamano dai dominati. Ma non si tratta solo di un discorso o di un’ideologia. Cio’ che caratterizza un regime del genere è in effetti la sua capacità a legare, non solo idealmente, ma nei fatti, i diversi elementi che compongono la realtà in modo da renderli strettamente interdipendenti. Dirigenti e dominati sono nella stessa posizione: entrambi devono essere al servizio della realtà, a tutti è richiesto di essere realisti. Ma questa eguaglianza di principio nasconde una profonda asimmetria. Mai nel passato era stato raggiunto un tale grado di oggettivazione della realtà, di feticizzazione del reale. Sono tecniche di gestione che si sono sviluppate nelle grandi imprese multinazionali e poi si sono diffuse non solo nella piccola impresa, ma anche nello stato e negli enti locali. Il progresso delle tecnologie informatiche non ha fatto che accelerare il processo. Questo tipo di governance, strumentalizzata dal management, rende la critica difficile e, sovente, poco efficace, almeno nelle forme politiche ereditate dalle lotte del XX secolo, sia che si tratti delle lotte operaie che di quelle per la democrazia”.
C.T.: “Dal 3 maggio, per esempio, c’è in corso uno sciopero dei disoccupati, che si articola soprattutto con occupazioni delle agenzie di collocamento e con il rifiuto di accettare, come sarebbe obbligatorio, qualsiasi lavoro venga proposto – “disoccupato piuttosto che manager”, rifiuto di lavori implicati nel disastro ambientale ecc. – oppure i continui controlli. Ma nessuno ne parla, a parte quando hanno occupato una trasmissione tv”.
-Il governo degli esperti, che prendono le cose in mano seguendo leggi che vengono definite naturali, cerca di limitare la critica. E’ per questo che, malgrado l’impegno della strategia di Lisbona di trasformare l’Europa nella zona più creativa, le professioni intellettuali vengono emarginate, con forte incidenza del precariato?
L.B.: “La tendenza alla precarizzazione è generale. E’ palese nel caso di chi ha meno, in particolare sul piano scolastico. Ma tocca anche, come sappiamo, i giovani laureati. Per quanto riguarda questi ultimi, in particolare, il fatto di disporre o meno di un patrimonio familiare, per esempio sotto forma di un appartamento, è un fattore molto importante di diseguaglianza. Ma c’è anche un’altra tendenza: la politica, più che l’economia, ha paura di veder nascere una pericolosa plebe intellettuale. Era già successo nel XIX, sull’onda di Burke e della sua analisi della rivoluzione francese, che puntava l’eccesso di gente istruita. Sarkozy ha dunque preso delle decisioni che hanno come obiettivo la diminuzione del numero di questi intellettuali: ci sono tagli per gli intermittenti dello spettacolo e il numero di dottorandi è calato ai livelli del 1980 (mentre nelle grandes écoles il tasso di studenti provenienti dalla classi superiori non è mai stato cosi’ alto). Il potere ha paura che questa gente possa unificare le lotte sociali, oggi disunite, dalle banlieues al vecchio proletariato francese. Ma la paura domina anche l’altro fronte: impedisce di unirsi e lottare; il precariato impedisce alla gente di incontrarsi”.
B.C.: “La cultura, l’istruzione e la ricerca vengono sempre più spesso considerate come superflue, come non meritassero investimenti, nonostante gli impegni europei. Cosicché, paradossalmente, il governo è uno dei primi responsabili della pauperizzazione degli intellettuali precari. Ma non è l’unico paradosso: in altri settori, l’economia francese ha bisogno dei sans-papiers e li fa lavorare, mentre il governo li espelle…”.
C.T.: “Il tentativo attuale è di risolvere la questione tagliando alla base, cioè tagliando le aspirazioni, rendendo più difficile e selettivo l’accesso all’insegnamento superiore”.
Articolo uscito sul manifesto” del 12 giugno -pag.9
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Mi pare giusto situare la “crisi” del capitalismo nella seconda metà del XX secolo, ma non si tratta a mio avviso di crisi tout court, quello che si è costituito negli ultimi decenni del XX secolo non è un capitalismo in supposta crisi (delocalizzazione, nuove e più intense estorsioni di plusvalore dalla forza-lavoro, forme moderne di schiavismo, bolle speculativo-finanziarie, ecc.), bensì una forma nuova di capitalismo, che oggi è ben vivo e vegeto, dotata di nuove dinamiche sociali capitalistiche. Quello che è andato in crisi, o meglio che è stato superato dalla trasformazione capitalistica in atto, è il vecchio capitalismo proprietario borghese studiato da Marx (modello inglese), non già la struttura e la formazione sociale capitalistica in sé. Le attuali “forme di gestione” del capitalismo, come le chiama Boltanski (che mi paiono molto analoghe alla “rivoluzione manageriale” di Burnham), e che altri chiamano il capitalismo dei “funzionari del capitale”, sono l’aspetto peculiare della faccenda, che testimoniano la novità di fase (genericamente definita globalizzazione neoliberista) e che merita una analisi adeguata, che oggi solo in pochi, per quanto ne so, tentano di sviluppare. A livello mondiale, poi, quello che è andato in crisi è stato il bipolarismo che ha segnato quasi tutto il XX secolo, dopo il ’91 “sostituito” dal monopolarismo della potenza dominante, gli Usa, apparentemente uscita vincitrice dalla lotta tra i due blocchi politici (bipolarismo), ma che ha durato nemmeno 20 anni, e che oggi mostra chiari segni di cedimento (ma ancora relativamente forte, visto che riesce a condizionare anche la UE), incalzata dal multipolarismo dei paesi emergentI (Russia, Cina, India i principali) che lottano (con vari mezzi e metodi) per la loro affermazione. Ciò che invece è andato in crisi è l’analisi del sistema-capitalismo di stampo economicista che mette appunto in primo piano l’economia. Le strategie e il contrasto tra monopolarismo e multipolarismo a livello mondiale sono essenzialmente politici, non economici.
Godiamoci i Boltansky finche’ ci sono, con i tagli all’universita’ ci saranno sempre piu’ Alberoni…
Il capitalismo è in crisi in partenza, perché non dà a tutti le stesse possibilità. Ciò determina una sperequazione in fatto che è la scintilla dell’odio di classe e di molte forme di invidia. Il capitalismo è un attentato alla pace sociale. Un rito tribale che fa scempio dei più deboli. Da secoli.
Il meccanismo non funziona più, è inceppato. Mi sembra una follia di conservare un sistema fallito. Il peggio è che ora è l’uomo che deve si adeguare al meccanismo. Più il congegno è ammalato, pù è spinto, più il liberalismo è esarcebato, un liberalismo crudele, su scala mondiale, un liberalismo che nessuno stato ferma: un sistema che non lascia speranza
all’uomo.
Perché un’opera “capitale” come questa di Boltanski deve attendere dieci anni per essere tradotta in Italia e perché se ne parli? E’ vero, noi traduciamo ancora parecchio rispetto ad altri paesi. Ma ci sono stati anni in cui traducevamo anche in modo tempestivo. Non è piu’ così. Pochi sono, che io sappia, i sociologi italiani che possono vantare un apparato teorico ampio e sofisticato come quello di Boltanski e una capacità di lavoro documentario simile.
Mi sembra che ‘sto Boltanski abbia veramente capito tutto della vita, vista la citazione.