Radio Kapital: Peter Sloterdijk

Per una teoria dell’intossicazione
intervista in rete a Peter Sloterdijk
traduzione dal francese di Francesco Forlani

La sua diagnosi del nostro tempo inizia con una strana professione di fede. Lei dichiara che, per capire il mondo di oggi, bisogna essere “leggermente intossicati”. Cosa ci vuole dire con questo?

Peter Sloterdijk: I medici omeopati del diciannovesimo secolo credevano che il professionista dovesse  sperimentare prima su se stesso  le medicine che avrebbe in seguito prescritto alla clientela. Diciamo allora che  un buon filosofo è una specie di intossicato illuminato e che il suo sapere  consiste in una sorta di polifonia dell’ avvelenamento. Questo per me vuol dire che il sapere filosofico non è solamente il risultato di una riflessione approfondita, nè tanto meno soltanto l’espressione di sé quale  soggetto, ma il risultato di un tipo di successo immunologico. La verità deve essere interpretata, a mio parere, come un fenomeno immunitario che il discorso  del filosofo contemporaneo porta al termine di una serie di vaccinazioni o addirittura di auto-avvelenamenti. Nelle reazioni del pensatore moderno emerge un nucleo di verità che non è altri che la lotta del sistema in grado di sopravvivere grazie a una serie di produzioni di anticorpi, sia logici che semantici, che fanno da diga all’invasione di virus ostili.

Questo modello è, a mio parere, una buona risposta alla domanda: che cosa è la saggezza contemporanea? Il pensatore contemporaneo, dopo molteplici intossicazioni, forte di una lunga serie di piccole morti e di reazioni immunitarie, sfugge alla definizione tradizionale  e universitaria di logico del discorso. Vorrei accostarlo alla poesia attuale che pure ha la tendenza  a diventare una reazione di un sistema immunitario che libera la capacità allucinatoria del suo autore. Provare allucinazioni – e non soltanto sognare – significa creare  uno spazio autenticamente vivibile  per gli esseri umani. E la questione fondamentale di ogni politica è il modo di sapere come provocare allucinazioni per le persone a ritmi più o meno sincronizzati.

Allo stesso tempo, a proposito del crollo del sistema socialista, lei dice che non è da poco aver perso una verità basata su un’illusione …

Peter Sloterdijk: C’era, in quelle società, un sistema che produceva allucinazioni ma che non ha funzionato a sufficienza. Nessuna società può sbarazzarsi del compito di riorganizzare lo spazio allucinatorio in cui gli esseri umani si ritrovano . Spostarsi da un’ allucinazione ad un’ altra, non significa sostituire l’errore con verità, come si pensava in modo un po’ troppo semplicistico durante l’Illuminismo …

L’illusione è una percezione distorta, ma l’allucinazione è una percezione senza oggetto. In quale categoria si colloca l’ utopia? Non assistiamo a un processo di laicizzazione dell’ utopia, più particolarmente dell’utopia comunista?

Peter Sloterdijk: Indubbiamente. Ma laicizzazione significa anche che i flussi dei desideri si riorganizzano attorno a nuovi nuclei di cristallizzazione. Il modo di sognare l’avvenire  rappresentato dal comunismo classico è stato sostituito da altri modi di sognare. Ma la necessità di gestire i sogni non è affatto scomparso.  Il crollo del sistema comunista non ha agevolato il compito della sinistra classica, che è quello di creare un nuovo ponte tra, da un lato, i sogni, i desideri delle persone e, dall’altro, lo spazio politico. È un lavoro che deve essere fatto incessantemente sul concetto stesso di lavoro. Vorrei qui  ricordare che tutti i miei riferimenti alla funzione allucinatoria negli esseri umani si rifanno ad un pensatore francese a cui dobbiamo molto, senza rendercene conto, Gabriel Tarde, illustre sconosciuto della sociologia francese, ripubblicato in questi giorni dalle edizioni Synthélabo/ Empêcheurs de penser en rond. Pubblicarlo oggi significa avere cento anni di ritardo, ma fortunatamente abbastanza in tempo per le esigenze teoriche del nostro tempo

Usciamo, dice lei,  da due secoli di individualismo, dove ognuno ha avuto la tendenza a rivendicare diritti d’autore su se stesso e sulle relazioni  con gli altri. A cui aggiunge la rivendicazione che ciascuno fa del copyright sull’aspetto esteriore. Cosa vuol dire con questo?

Peter Sloterdijk: Se passeggia per cinque minuti, in una bella giornata di sole, sul Boulevard Saint-Germain, capisce cosa intendo con questo. Si osservano   sui marciapiedi, persone che hanno trovato  praticamente  quasi tutti i loro diritti d’autore nell’ aspetto esteriore. Vestirsi è anche una forma di scrittura. Si diventa  autori ogni volta che ci si veste. E questa è una scoperta che contribuisce all’ inflazione della funzione dell’autore del nostro tempo. La maggioranza degli individui  acquista la loro parola ai grandi magazzini. Non vanno molto lontano nella loro sperimentazione. Eppure, a New York, per esempio, l’individualismo vestimentario è ben più pronunciato che in Europa. In teoria, questa evoluzione potrebbe essere creatrice. Ma al tempo stesso, è all’origine di un enorme messa in pericolo esistenziale. Ogni individuo vive la sua vita come se lui (o lei) volesse dirci: “Sono felice di essere l’ultimo uomo, l’ultima donna. Se il mondo dovesse finire dopo di me, sarei stato il consumatore della mia vita, consumatore finale, il che equivale a dire  che avrò approfittato delle mie possibilità fino all’ultimo  e non mi pongo la domanda  se ci saranno persone dopo di me ad avere, come me, la possibilità di consumare la loro vita “. L’ultimo uomo e il consumatore finale sono in una convergenza profonda. Qui troviamo un elemento apocalittico che è insito nella società dei consumi di se stessi  e del mondo. Siamo entrati in una crisi di consumi assoluta. Le guerre locali del nostro tempo sono da collocarsi in questo contesto. Si dovrebbe ripristinare la coscienza di  ciò che io chiamo processo generativo. Dobbiamo ripensare lo statuto del soggetto a partire dal campo delle  generazioni e reimparare a contare fino a tre. Dobbiamo capire che essere  mediatori, significa essenzialmente occupare una posizione tra la generazione precedente e quella successiva.

Cosa prevarrà secondo la sua constatazione: viviamo in un vecchio mondo  in declino o in un nuovo mondo che emerge?

Peter Sloterdijk: Declino e la ricostruzione sono, dal mio punto di vista, un solo e unico processo. Ma c’è un conflitto di interpretazioni. I giovani delle nostre società sono di solito molto più pessimisti degli intellettuali della generazione mediana. Provo ad aprire spazi di riflessione, reazioni immunitarie, che contribuiscano a sconfiggere la cupezza che ci circonda. Oggi, tutto è pensato attraverso miti. La mitologia classica è un sistema di organizzazione dell’oblio per rimuovere le nuove esperienze, di ridurre il nuovo al vecchio. Il mito è una narrazione che si ripete all’infinito con piccole variazioni in risposta alla realtà movimentata del reale e ridurlo ancora a  un modello identico di quello che succede, in fondo, al mondo, da sempre. Allo stesso tempo, vi è una mitologia moderna che funziona come un sistema di gestione dell’oblio collettivo. Vale a dire, organizzare il presente come un bagno di informazione permanente. I nostri informatori sono, da un punto di vista sistemico, i mitologi  che contribuiscono in permanenza alla soppressione della memoria. L’ informazione sul presente  scompare dietro al mito che crea un universo in cui, in fondo, nulla cambia. Racconta una molteplicità di  storie  per non raccontare La Grande Storia, che  è la strada della Rivoluzione.

Lei dice però che il mondo moderno ha lasciato lo spazio delle  le rivoluzioni politiche per entrare in quello, più lento, delle rivoluzioni tecnica e mentale ?

Peter Sloterdijk: La rivoluzione è stata sostituita  da correnti multiple,  con i loro stravolgimenti  e ramificazioni. Bisogna  lanciarle, canalizzarle e interpretarle.  il canale e interpretare. Noi abbiamo esportato l’idea della rivoluzione nei dispositivi. Indubbiamente siamo troppo inerti per una vera rivoluzione. Le macchine, invece,  conoscono un’evoluzione senza fine. Il che porta il progresso a diventare, sempre più, un epifenomeno di ciò che sta accadendo nel campo della scienza e della tecnologia. Gli intellettuali più avveduti sono quelli che hanno compreso di non essere a capo di un’ evoluzione, ma in una retroguardia avveduta che misura lo scarto e l’anticipo della tecnologia sull’umano. Bisogna salvaguardare qualcosa di questo ritardo. Questa è, a mio avviso, l’attuale definizione di progresso: salvaguardare il nostro status di arretrati rispetto a un progresso non vivibile.

7 COMMENTS

  1. Tarde sosteneva che sono le credenze a generare i desideri, cioé in pratica i nostri sistemi allucinatori (leggasi la società), provocano in noi desideri e aspettative basate sui miti fondanti della collettività nella quale ci troviamo a vivere. Alquanto sconfortante, ma tant’è.
    Grazie per aver postato questo articolo, molto più rivelatore di quanto appaia in un primo momento.

  2. E’ la ragion critica che distrugge se stessa,il percorso era obbligato ed il risultato apocalittico finale pure.E quella che ha distrutto pure l’utopia marxista e non si fermerà certo qui.Nessun mito,illusione può resistere,e l’unica allucinazione è la sua.
    Viene detto:
    ““Sono felice di essere l’ultimo uomo, l’ultima donna. Se il mondo dovesse finire dopo di me, sarei stato il consumatore della mia vita, consumatore finale, il che equivale a dire che avrò approfittato delle mie possibilità fino all’ultimo e non mi pongo la domanda se ci saranno persone dopo di me ad avere, come me, la possibilità di consumare la loro vita “.

    L’individualismo forsennato non è anch’esso un prodotto,degenerato o no,del continuo lavorio di due secoli della ragione critica?
    Non è che si può fermarla dove si vuole,una volta iniziato il processo,a proposito di Illuminismo e di Rivoluzione… Francese.

  3. Rivoluzione… Francese?
    Ma perchè fermarsi lì? Dostoevsky faceva parte la scristianizzazione dell’Occidente (con tutto a seguire, democrazia, ateismo, socialismo, individualismo etc) dalla separazione della Chiesa Cattolica da quella Ortodossa: da una parte il patto col Diavolo ed il mondo moderno, dall’altro la difesa intransigente della fede cristiana.

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francesco forlani
francesco forlani
Vive a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman e Il reportage, ha pubblicato diversi libri, in francese e in italiano. Traduttore dal francese, ma anche poeta, cabarettista e performer, è stato autore e interprete di spettacoli teatrali come Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, con cui sono uscite le due antologie Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Corrispondente e reporter, ora è direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Con Andrea Inglese, Giuseppe Schillaci e Giacomo Sartori, ha fondato Le Cartel, il cui manifesto è stato pubblicato su La Revue Littéraire (Léo Scheer, novembre 2016). Conduttore radiofonico insieme a Marco Fedele del programma Cocina Clandestina, su radio GRP, come autore si definisce prepostumo. Opere pubblicate Métromorphoses, Ed. Nicolas Philippe, Parigi 2002 (diritti disponibili per l’Italia) Autoreverse, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2008 (due edizioni) Blu di Prussia, Edizioni La Camera Verde, Roma Chiunque cerca chiunque, pubblicato in proprio, 2011 Il peso del Ciao, L’Arcolaio, Forlì 2012 Parigi, senza passare dal via, Laterza, Roma-Bari 2013 (due edizioni) Note per un libretto delle assenze, Edizioni Quintadicopertina La classe, Edizioni Quintadicopertina Rosso maniero, Edizioni Quintadicopertina, 2014 Il manifesto del comunista dandy, Edizioni Miraggi, Torino 2015 (riedizione) Peli, nella collana diretta dal filosofo Lucio Saviani per Fefé Editore, Roma 2017