Ancora sull’università, la poesia, il gusto
[Mi permetto di presentare le risposte di Alfano, nate da questo thread, in forma di post autonomo. I punti toccati mi sembrano davvero importanti.]
Giancarlo Alfano
Cari commentatori,
non so bene come funzioni l’etichetta del discorso in un blog, non so cioè se ci si aspetta una risposta a ciascun commento o se invece è più educato tirare le somme da un certo numero di osservazioni. Mi sembra però il caso di riprendere alcune vostre osservazioni, soprattutto per alcuni punti ricorrenti. Ci sono in particolare due aspetti che vorrei spiegare meglio. Il primo riguarda l’impegno “divulgativo”. Far conoscere la poesia. Nell’incontro di Fosdinovo mi sono chiesto se noi che lavoriamo all’Università creiamo davvero nuovi lettori. Se cioè l’Università funziona ancora come luogo di promozione della libertà individuale e di conseguenza come luogo di educazione del gusto. L’espressione può sembrare vecchia, ma vi prego di ponderarla: educazione del “gusto” (non “al” gusto).
Siamo stati educati da Bourdieu, e dagli storici dell’arte, a pensare che il gusto fa “distinzione”, che cioè crea sistemi di élite. Ciò sarebbe una cosa cattiva, mentre invece la libertà degli atteggiamenti, l’apertura dei canoni sarebbe una cosa buona. Quel che accade, però, è che senza l’educazione del gusto, senza cioè la consapevolezza che la lettura è un’esperienza di stratificazione e selezione al tempo stesso (si accumulano letture e si creano preferenze in base a specifiche associazioni) si rischia il preconcetto della equivalenza: quella notte in cui, secondo Hegel, tutte le vacche sono nere semplicemente perché non c’è la luce per distinguerle.
Ecco, io credo che il senso dell’Università sia nell’apprendimento di questa consapevolezza, a partire dalle Facoltà di Lettere, innanzitutto, il cui compito dovrebbe essere l’insegnamento della critica dei linguaggi. Poi è chiaro che molti di noi vivono anche o soprattutto al di fuori dell’Università, e quindi propongono letture, organizzano festival, scrivono recensioni, prestano libri, si confrontano… Il secondo aspetto che mi interessa chiarire riguarda la concezione, da me condivisa, dell’Università che dovrebbe essere un luogo aperto, dinamico, ma che tale non risulta. Perché, mi chiedo? A mio parere non perché i tempi sono oggi più bui che in passato, ma perché l’Università è una istituzione, dunque ha un suo modo specifico di funzionare. Può essere indirizzata in modo diverso, aperto, certo, ed è quanto ci si sforza di fare in alcuni casi; ma non si può pensare che si giochi lì la “rivoluzione”.
Esiste un’ideologia movimentista, che è in apparenza di opposizione, ma che in realtà è utile alla conservazione perché non è disposta a ragionare sulle “forze” in campo, sulla logica dei rapporti di potere, che possono essere modificati, o sovvertiti, a mio avviso, solo nel coordinamento di un insieme diverso di forze. Chiudo con un’ultima riflessione, che riguarda l’atteggiamento ideologico degli studenti. Chi regge le Università dice sempre che l’Università è fatta per gli studenti: lo fa in genere per comodità e per demagogia. Ma che cosa dicono gli studenti? Dicono la stessa cosa. Se è così, come mai il mondo giovanile non riversa nelle Università i propri contenuti, le proprie forme di socialità e di produzione culturale? Perché per lo più esse coincidono con quelle normalizzate dalla società. E allora torna il problema della mediazione, torna cioè la questione legata al ruolo di chi lavora all’Università. L’Università, osservavo in precedenza, “produce” discorsi interni al sistema di potere nel quale essa esiste”. Le nuove pratiche, critiche, didattiche, di ricerca, vanno cercate in un continuo confronto con la società, sapendo però che nella società esiste una forte tendenza, ripetiamolo ancora una volta, alla conservazione, cioè alla cultura, alla stabilità.
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gentilissimo Alfano
ti ringrazio per aver per la cura e il rispetto che hai dimostrato nei confronti di chi ha letto il tuo intervento e ha espresso la sua opinione (piu o meno ineteressante e pertimente, la mia sicuramente meno ne sono consapevole) e per il metodo che hai adottato che ha il pregio di evitare il rischio che la discussione precipiti nel narcisimo sterile.
Vorrei tentare di fare due osservazioni.
E’ giusto che nell’ambito dell’istituzione accademica il sapere venga organizzato e trasmesso in modo sistematico utilizzando determinate metodologie di analisi e griglie interpretative che ciascun docente ritiene di dover applicare; qualsiasi pratica anche la piu’ rivoluzionaria, richiede metodo, impegno, severità ,umiltà e disciplina, gl istudenti che incosciamente sono intrisi del modello consumistico lo hanno scordato.
mi permetto di citare ancora biagio de gennaro:
Il problema dell’arte, insomma, non è diverso dal problema dell’esperienza in generale: occorre molto aver macinato e molto aver dimenticato perché sotto ai nostri occhi, quasi increduli, una tradizione si riattulizzi… Fosse anche la tradizione del nuovo, fosse anche la tradizione del rifiuto di ogni tradizione… Ma la serietà è difficile perché richiede un giudizio severo verso le proprie concrezioni. L’umiltà è difficile perché richiede che accanto alla severità vi sia l’indulgenza e la generosità anche verso se stessi. E difficile è la disciplina……..Eppure ogni momento di serietà, di umiltà e di disciplina ci promettono qualcosa: non il riconoscimento altrui del nostro sforzo (un atto è pieno solo se è indifferente al suo frutto) ma il senso di quell’atto gratuito che si aggiunge, nel suo piccolo e nel suo splendore, alla creazione.
seconda osservazione: il rischio che correte oggi voi docenti critici e poeti è quello DI PARLARE LEGGERE E SCRIVERE VOI MEDESIMI.
Non e’ triste pensare che la poesia oggi debba essere lette solo dai poeti dai critici e dai docenti?
Quindi le mie modeste osservazioni nel mio commento erano riferite al che fare dei critici e poeti e docenti non dentro l’universita e tra di loro, ma fuori dall’universita’ e per i lettori affinchè non succeda che
tutte le vacche sono nere semplicemente perché non c’è la luce per distinguerle.
io vorrei distinguere il colore delle vacche il peso e la qualità del loro latte.
Sono condannato a iscrivermi a un corso di lettere per avere uno sguardo che sappia leggere la poesia?
Non so se l’Università funzioni ancora come garante o cinghia di trasmissione di una *tradizione* (o del Canone Occidentale?): dall’esterno la mia impressione è che i neo-laureati in lettere – salvo ovviamente eccezioni -abbiano una lodevole preparazione su microaree ma un’assenza di visuale strategica : insomma, percepiscono l’albero ma il bosco gli è ignoto e, suppongo, non per colpa loro. Per poter rompere gli schemi occorre conoscerli o almeno avvertirli come schemi e invece nell’ecolalia generale si annega il pensier loro –e il nostro forse.. ma sarei lieta di aver notizie in diretta da chi come Alfano e Josa, sia pure in ambiti diversi, in Università lavora, V.
sorry, Josa è in realtà Stefano Jossa
Esiste un forte scarto tra la trasmissibilità e la valorizzazione della cosa da trasmettere che si riflette come problematica forte in chiunque oggi pretenda di occuparsi di culture, a partire da università latitanti e a chiudere con operatori culturali improvvisati.
Chi si interroga sul senso di un’educazione poetica sa perfettamente che poesia altro non è che uno dei modi e degli aspetti della conoscenza. Credo che la necessità oggi sia cercare di costruire un senso critico che non giunga forzatamente a una negazione, ma possa contibuire a un educazione all’ascolto.
un caro saluto
alessandro assiri
L’Università dovrebbe almeno servire a sviluppare la capacità di critica. Invece la classe intellettuale è totalmente succube dell’ideologia mondialista!
Secondo me siamo fritti…
all’università ci lavoro, non come docente e ci ho vissuto come studente.
E’ vero, cito, “L’Università, “produce” discorsi interni al sistema di potere nel quale essa esiste. “, ricito
“Le nuove pratiche, critiche, didattiche, di ricerca, vanno cercate in un continuo confronto con la società, sapendo però che nella società esiste una forte tendenza, ripetiamolo ancora una volta, alla conservazione, cioè alla cultura, alla stabilità.”
è auspicabile ma come?
modificando i rapporti di potere dentro le università. e chi può farlo? solo i docenti. come aprendo alla democrazia: 1 testa un voto nell’elezione degli organi di governo delle università. E’ quasi banale.
Domanda. Perchè si preferisce sempre teorizzare, analizzare, riflettere e filofeggiare piùttosto che pragmaticamente chiedere quello che dovrebbe essere naturale e scontato in una democrazia?. La rappresentanza?
il discorso nasce da qui.
http://scriptavolant.net/?s=universit%C3%A0
dal post dell’11 novebre 1 testa 1 voto alla lettera aperta postata propio oggi.
@GC: grazie ma non sono d’accordo. Io continuo a credere che ci sia bisogno di instabilità anziché stabilità. Naturalmente senza degenerare in violenza. Però dare riferimenti e strumenti per romperli, i riferimenti.
@Viola: molto in sintesi, non lavorando nell’Università italiana, cosa succeda lì non posso dirlo io. Nell’Università inglese, dove io lavoro, si prova a presentare il quadro, entrare nei dettagli e ricomporre il tutto. Meglio se fatto con gli – e da gli – studenti: prassi anziché discorsi su “cosa si deve fare”. Prima fare, poi interrogarsi sulle ragioni. Senza rinunciare al ruolo di guida che il docente responsabilmente deve assumere, ma anche senza fare di questo ruolo una barriera perché gli studenti stiano lontano, ammirati e a bocca aperta, come li vuole un amico-collega con cui parlo spesso a Roma.
@Carmelo: PARLARE LEGGERE E SCRIVERE VOI MEDESIMI: esatto! D’accordissimo. Comincio subito.
costruire un senso critico che …..possa contibuire a un educazione all’ascolto.
E’ da qui che bisogna partire perchè viviamo un tempo che ci ha privato dei sensi; non sappiamo più vedere nè ascoltare schiacciati come siamo sulla superficie piatta ed effimera del presente e dalla compulsione a consumare in fretta, un panino, una canzone, una…poesia.
Al di la di ogni posizione teorica, comunque, mi stupisce che nessuno abbia sottolineato che l’insegnamento è innanzitutto un’arte e necessita di passione. Quanta passione è rimasta nelle università morenti, escludendo i baroni, i docenti mediocri che stanno li per affiliazione parentale clienterale o per semplice servilismo intellettuale?
Poi serve l’immaginazione, rompere gli indugi, sporcarsi le mani, sperimentare fuori da ogni canone.
Per esempio questo blog potrebbe essere un mezzo per educare alla lettura e all’ascolto.
Cari co-commentanti,
oggi è stato pubblicato un articolo sul “manifesto” che mi ha dato da pensare. Vi si dice che in Itlaia non occorrono gli intellettuali, peraltro già morenti o già morti, ma un pensiero. Nel corso dell’argomentazione di questo articolo si capiscono due cose: 1) che il “pensiero” sigifica “dei contenuti”; 2) che bisogna elaborare questi contenuti soprattutto attraverso il canale del web.
Mi rifaccio a questo articolo (firmato da Giorgio Fontana), perché è un po’ quel che ci si auspica in generale, e che soprattutto sperano coloro che praticano la rete. Della quale, io resto però un osservatore piuttosto critico e diffidente. Il pensiero deve essere collettivo, per forza. Ma il problema è che un pensiero collettivo, cioè intendo elaborato collettivamente, deve possedere un vocaboloario grosso modo comune e dei procedimenti di individuazione delle priorità logiche (una sintassi) che siano ampiamente condivisi. Altrimenti non si elabora, ma ognuno dice la sua, in maniera più o meno bella, ma comunque senza alcuna efficacia.
È con questo spirito che adesso mi proverò a riprendere in poche battute le osservazioni che molti di noi in questi giorni si sono spinti a “isscrivere” in questo blog.
@carmelo, tu osservi (se ho ben capito) che i “docenti critici poeti” parlano e scrivono solo tra di loro, cioè formuli l’accusa di autoreferenzialità. Gli intellettuali sono autoreferenziali: è la tipica accusa al mondo degli intellettuali. Parliamone: io non credo che sia sempre così. Occorre secondo me pensare che ci sono funzioni diverse del discorso, legate a spazi e contesti differenti. Io ho provato a illustrare un certo modo di funzionamento del discorso universitario. Ho anche detto che poi tanti di noi vivono anche fuori dell’università, dove fanno altro, cercando di farlo con efficacia. Invito però a diffidare dalle accuse di autoreferenzialità, perché ci si riferisce solo a se stessi quando si costituisce un gruppo di riferimento preciso, il che, mi pare, non è così. Anzi, se stiamo parlando è proprio perché così non è. e questo è un problema.
In un secondo commento, hai aggiunto che “l’insegnamento è innanzitutto un’arte e necessita di passione”: sono perfettamente d’accordo, mentre non ti capisco quando aggiungi che occorre “l’immaginazione, rompere gli indugi, sporcarsi le mani, sperimentare fuori da ogni canone”: io mi chiamo Giancarlo Alfano, non Arthur Rimbaud. Dopo di che, oltre l’orario di lezione, faccio anche dei seminari coi miei studenti, nei quali provo a renderli più direttamente protagonisti, chiedendo loro interventi e relazioni: ma non mi sembra di essere andato al di là “di ogni canone”.
@viola, tu dici che oggi gli studenti “percepiscono l’albero ma il bosco gli è ignoto e, suppongo, non per colpa loro. “. L’Università italiana è infatti peggiorata, per ragioni strutturali che sono esterne, nel complesso, all’Università stessa. è vero che c’è un problema didattico specifico; a me non sembra però che il problema sia l’eccessivo specialismo. Anzi, paradossalmente, i vecchi corsi monografici che potevano trattare anche argomenti piuttosto settoriali (che so, la trattatistica del comportamento nel s. XVI anziché il Furioso o la Liberata), offrivano proprio quel passaggio dal’albero al bosco che tu auspichi. Era, ed è ancora oggi, un problema di metodo, cioè di trasferimento agli studenti di un modo per organizzare il sapere, affrontarlo e trovarvi una propria posizione. Perché questo è il vero problema: trovare un posto nel sapere. Ma su questo torno tra poco. Non prima di aver sottolineato la delicatezza del lavoro in Università oggi, in un paese, l’Italia, dove, secondo una ricerca canadese che è stata molto citata due estati fa ma che adesso nessuno più ricorda, due terzi della popolazione non sono capaci di intedendere un periodo di una certa linghezza (quello che ho appena scritto), e non sanno fare un’operazione aritmetica di base (del tipo 12 x 4). Quando parlo del fatto che l’Università collabora alla cultura e non alla esplosione, è perché io spero che il sistema scolastico italiano sia interessato in pieno da questo problema, e non invece esautorato. Spero di essere chiaro.
@ alessandro assiri, tu spingi a “un’educazione all’ascolto” con la quale sono completamente d’accordo, e che credo sia appunto il compito principale di chi elabora il sapere, a qualunque livello lo faccia. Quel che io chiamo, nel campo dell’insegnamento delle arti, educazione del gusto.
@fabio masetti, tu osservi (sempre se ho capito bene) che il mio discorso è nella sostanza truffaldino, se non ipocrita, perché propongo un atteggiamento didattico e di pensiero che all’Università si può ottenre soltanto “aprendo alla democrazia”, cosa che invece gli universitari si guardano bene dal fare. Anche io, dunque, avrei, secondo le tue parole, “filosofeggiato” piuttosto che operato praticamente. Devo dire che fare le cose significa pensarci. Un corretto pensiero aiuta a orientarsi nel momento in cui bisogna agire, o addirittura spinge ad agire. Non capisco perché usi il dispregiativo (verbo in –eggiare): non faccio filosofia (come diciamo a Napoli per dire che non si fa niente di concreto); avanzo una serie di considerazioni per aiutare a capire un mondo e una funzione. Aggiungo un fatto pratico: chi vuole vada a scaricarsi il file pdf del testo del DDL cosiddetto Gelmini e faccia, con la funzione “trova”, una semplice ricerca vedendo, in quel testo, chi è il soggetto del verbo “deliberare”, cioè chi sarà a decidere nell’Università che si sta preparando in queste settimane. Si fanno solo parole quando poi non si sta attenti ai processi concreti che attraversano il nostro mondo.
@stefano jossa dici che c’è “bisogno di instabilità anziché stabilità”. E io, figurati se non sono d’accordo, ma l’instabilità si crea, come dici anche tu coi “riferimenti” e gli “strumenti”. Da qui la condizione paradossale di chi lavora all’Unversità: dà qualcosa di cui propone lo smontaggio. Per farlo adeguatamente, occorre che si muova nell’ottica del “dare spazio”, cioè fare che gli studenti trovino, col tempo, il proprio spazio dentro il sapere, imparino a trovare una posizione che gli permetta sia di portare novità sia, più umilmente, di non restare schiacciato dal passato. Ogni aula scolastica è per questo un mondo utopistico. Però, qui devo ribadire quel che sto provando ad argomentare, non possiamo credere che l’Università sia un luogo di cambiamenti sociali. L’Università, per me, deve riuscire a operare sui singoli, contribuendo a renderli più liberi. Al tempo stesso, occorre essere consapevoli che la società vuole persone sempre più adeguate. Ciò, come ben sai, accade anche in UK, da cui peraltro stiamo tendenzialmente importando le novità universitarie. Salvo quelle che riguardano il numero degli studenti in aula: da me sempre tra i 100 e i pù di 200.
Grazie
Giancarlo Alfano
Leggo oggi sul sole24ore la recensione di un libro di J.E.Cutting che cercherò di leggere e che nella sua brevità mi conferma un dato empirico, l’apprezzamento delle opere è legato alla loro familiarità. L’università non riusciva neppure ai miei tempi a creare con le opere una familiarità sufficiente se non era sostenuta da una serie di sostegni esterni, curiosità personale, ovviamente, ma frequentazione di quella vasta area di opere e relazioni che provenivano dall’area di quella che Alfano chiama “esplosione”. Tutti quegli studenti che si limitavano a restare all’interno dei confini del sapere trasmesso istituzionalmente non lo rendevano vitale, conoscevano meno. E lo dimostrava – e purtroppo lo dimostra ancora – quel grandissimo numero di laureati in lettere (e parlo di un’università che cominciava appena allora a diventare di massa) che pur essendo in grado di snocciolare date e opere, non erano stati -e non sono – in grado di sviluppare un rapporto vivo e critico con le opere del loro tempo.
Non so come stiano le cose adesso, mi pare peggio. Non che io non sia d’accordo sulle cose che dice Alfano, ma penso che «l’educazione del gusto» si compia in modo più complesso che nella semplice dialettica istituzionale tra docente e discente. Alla fine di questa breve recensione, il recensore, Casati, scrive che :
«il mondo commercale ha già “scoperto” – forse per prova ed errore – il potere di un ambiente abitato da icone, simboli, figure come i personaggi di Disney, che a modo loro influenzano il giudizio estetico per il semplice fatto di essere lì.»
Benché il discorso si riferisca all’arte figurativa penso che possa facilmente essere trasportato nel campo della letteratura. Nel momento in cui il “commerciale” ha stravinto e non solo ha stravinto nel rapporto diretto tra il lettore e il “prodotto”, ma anche nella diffusione che poi viene amplificata dell’interazione tra lettore e lettore.
L’apertura alla «democrazia» mi lascia assai fredda se la democrazia è poi solo numero, perché nei numeri vincerà sempre quel che c’è, il commerciale.
Senza un’alleanza tra l’università e quell’area esplosiva, anche se oggi minoritaria, che opera fuori dall’università e che dovrebbe riuscire a mettere in pratica strategie seduttive, mi pare difficile che quel «gusto» di cui parla Alfano si possa diffondere.
La rete non dovrebbe spaventare, la rete è esattamente quello che c’è fuori, solo che ha trovato voce e mostra quello che prima si poteva elitariamente ignorare. La rete va usata.
@alfano
ti ringrazio per le risposte che oltre ad essere chiare mi hanno aiutato a riflettere sulle mie stesse domande, le cui argomentazioni non erano del tutto coerenti. Probabilmente son oacnhe andato fuori tema. Il mio voleva essere il lamento triste e quasi disperato di un lettore autodidatta, che osserva la poesia che muore, la letteratura che umiliata dai “prodotti standard”.
Tu non sei Rimbaud, ma il tuo pensiero e’ lucido e profondo e sai ascoltare; hai dimostrato tu stesso che anche un lettore senza titoli e senza sintassi come me puo’ imparare. Il mio “fuori dal canone” no nera riferito al tuo lavoro nell’università e con ituoi studenti (che senza volerti adulare, sinceramene invidi).
Allora io dico di fronte alla cultura che viene osteggiata, umiliata e sbeffeggiata, ma come oggi occorre tanta immaginazione per invertire questo declino inarrestabile non solo dentro ma fuori dell’università.
Mi permetto di essere completamente d’accordo con te sul web e sui facili entusiasmi declinati in modo superficiale con frasi forti (intelligenza collettiva, relazion iorizzontali etc..) e vorrei qui citare cosa dice Marcello Fois su Nuova Rivista letteraria:
[..] il web sarebbe il veicol oe lo spazio che avrebbe mutato radicalmente le modalità di diffusione e di fruizione della nostra letteratura “attuale”. Non sempre positivamente, m ipare. Da un lato il wen ha funzionato come straordinaria cassa di risonanza, dall’altro però ha trasmesso l’illusione che chiunque abbia titoli per parlare di letteratura. Ha reso il lettore, anche quello saltuario o mediocre, o protagonista. Ha fatto protagonista perfino il non lettore, che in un sito di scrittura puo’ affermare il suo inalienabile diritto di giudicare quanto non ha mai letto. E’ un paradosso che ha evidenziato la necessità assoluta di una critica che non abdichi al suo compito di custodire, interpretare……
….Il confronto diretto è solo apparentemente democratico, non vedo scrittori che discotono di operazion ia cuore aperto in siti di cardiologia, ammesso che non siano medici. …….vorrei più lettori con più argomentazioni, ma vedo solo scrittori che aprlano tra di loro, o non lettori che farneticano”………
Infine vorrei che questo blog fosse consapevole che Giancarl Alfano ha creato un metodo per rendere la discussione attorno agli interventi, più proficua, utile e seria.
miserabilia, comincia a con meno parsimonie ad elergiare i trente e lode alla massa, vedrai che…
familglie io vi odio !