In lungo e al largo
Le storie mica si scrivono a tavolino, lo sguardo perso nel nulla, gli occhi a cercare un’ispirazione, no, no, caro lettore di Fresco di Stampa, le storie, ma sarebbe meglio dire, la storia, ti affonda la penna nelle narici e senti un odore di miscela e gomme. Ferro, come quello del ponte del Garigliano – perché l’umanità in quegli anni si divideva in al di qua del fiume e nell’al di là. Da Caserta Noi ci arrivavamo con la 500 guidata da mamma. Noi, perché nelle famiglie numerose l’io non esisteva nemmeno per i primogeniti che manco cominciavano a parlare che già c’era una sorella e un fratello a mettere la N di noi a IO. Da questa parte del Garigliano c’era il mondo, il nostro, preso tra due cumuli di terra e verde, monte d’oro e monte d’argento, da quella il bel mondo, il loro. Baia Domizia. Le classi si dividevano sopra quel ponte, e se prima dell’estate con i grembiuli si era tutti uguali, con la stagione perfino i compagni di banco si separavano per affermare il diritto della proprietà. Ville da una parte e appartamenti da questa, dalla nostra parte. La villeggiatura durava due mesi interi trascorsi a fare tuffi, capricci con gli altri, gli amici, a cercare una vocazione, i primi baci, la nobile visione dei peli sotto le ascelle di Lucy, che poi non ci dormivi la notte. Da quella parte del fiume invece, ci arrivavano poi al rientro di fine settembre, nelle aule di scuola, racconti fantastici, come di sopravvissuti dal paese dei balocchi, e allora ci sembrava ancora più povero il campo di calcio con le porte senza rete di fronte al lido Italia e senza alcun appeal la discoteca del Lido del Sole con l’ insegna, Poubelle.
Dall’altra parte del Garigliano c’erano loro: le svedesi. Da noi, al Lido del Sole i più a nord erano Paola e Stefano in terza fila, e Massimo Meleo in prima, di Frosinone. Settimana dopo settimana, mentre sui giornali locali e nelle omelie tuonava il vescovo di Sessa Aurunca – nomen omen- tutto il suo risentimento contro Baia Domizia, la pietra dello scandalo, l’impudicizia delle ragazze straniere che osavano fare il bagno semi nude, degenerate, svergognate – ovvero liberate, visto che libertà è senza vergogna- noi avremmo di gran lunga preferito quell’inferno se solo avessimo potuto con i nostri mezzi guadare il fiume e passare il ponte di ferro sospeso accanto a quello antico, sul Garigliano.
Saremmo stati i saraceni che governavano nei ribat, dalla foce il territorio, più forti dei Longobardi che ce ne avrebbero voluti privare. Saremmo stati cavalieri francesi imbattibili perfino per gli spagnoli nel cinquecento e nel 1860 i Borboni che avrebbero respinto l’assalto dei piemontesi. Per quel pezzo di Svezia avremmo indossato finanche le divise grigio verdi delle truppe tedesche a difesa della Linea Gustav. E fu a fine estate che mettemmo a punto il piano. C’era da scegliere il motorino, ‘o papariello o la vespa cinquanta truccata di Corrado. Che gliel’aveva manipolata Gualtiero e schizzava come una Kavasaki. Se ci pigliava la polizia ci mandavano al Polo Nord ma poi. Allora il Ciao, che minimo minimo ti avrebbe fatto ciao con la mano sul ponte alla prima folata di vento, o il Garelli, sì il Garelli di Anna Maria, bianco pulito, degna ricompensa di una brillante promozione in prima liceo, al Diaz di Caserta. Il patto da non tradire mai era che non si sarebbe detto nulla a nessuno. Nemmeno ai fratelli e alle sorelle. Io però a mia sorella Rosaria ce lo avevo detto. Fu il giorno più bello della mia vita. una corsa contro il tempo, contro il vento e dopo aver superato Marina di Minturno, man mano che ci avvicinavamo alla meta mi batteva forte il cuore senza sapere se fosse per la paura di incontrare un posto di blocco – e noi avevamo la Vespa 50 truccata visto che Anna Maria ci aveva dato picche- o di vedere di prima mano, per la prima volta un volto e un corpo che significasse amore. Il passaggio del Garigliano avvenne più rapido del previsto, imboccammo la strada lungo il fiume raccogliendo sui Ray Ban tutte le specie di insetti del litorale. Chiedemmo a più di uno, informazioni, sfacciatamente, ma a volte ci precedevano, ammiccanti, prima ancora che aprissimo bocca: “Per il villaggio delle svedesi? e ci ridevano appresso e ci trattavano come buzzurri. Quando finalmente giungemmo a destinazione. trovammo un portale di ferro altissimo, e davanti a noi una ventina di altri paparielli che schizzavano da tutte le parti che sembrava un rodeo. Noi non eravamo i soli. Ci guardammo negli occhi attraverso le lenti e accordammo al crepuscolo che stava avanzando di suonare per noi poche note, di una ritirata che era simile a un farsi da parte, e a pensare, senza nemmeno dirlo, che l’Inferno è un privilegio che solo il tempo potrà elargire.
Gli anni ottanta esplosero con violenza inaudita il 23 novembre. Terremoto e camorra spazzarono via quell’inutile sogno. All’inizio degli ottanta Sessa Aurunca accolse il vescovo straniero Raffaele Nogaro, illuminato prelato nemico di tutte le ingiustizia. Sul finire, fu assassinato Olof Palme. “L’albero svedese sarà abbattuto”, aveva scritto in un telegramma Licio Gelli.
Pubblicato sul numero di Agosto di Fresco di Stampa
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Una corso contro il vento del largo, nel tempo dove il mare era senza guerra. Mille occhi dall’infanzia guardano. E’ il ricordo di un ragazzo su una spiaggia -baiia- Domizia- mescola sensazione sensuale e sentimento di fare parte di una famiglia- li era un mare che non aveva ancora perso la sua nobiltà, la sua avventura nel delicato tuffo tra infanzia e età di adolescenza.
C’è sempre una catastrofe segnando il termine dell’infanzia-intima o colletiva- l’irrompere della violenza-terremoto o camorra- annunzia che il mare era l’ultimo luogo dell’innocenza, quello che nel tempo rimane nel suo bagliore blu-verde chiaro- nel suo profumo di pineta- quando il paesaggio era intatto- e adesso nella scrittura da un posto qualunque, in un varco di ispirazione, la memoria vede il mare antiquo, anche se il presente, la mare di cemento, di guerra, di sangue resista all’ingiunzione di obliare la catastrofe- La libertà di scrivere è di potere ancora nuotare o correre sulla terra d’infanzia dal punto di partenza di qualunque dolore- il nostro dolore è sempre essenziale con vespa o no- con insetti su Ray bBn o no-
La scrittura ha il potere di fare credere che siamo della parte mai dimenticata: quella dell’infanzia e dell’orizzonte.
Forlaniana
antologica di veri racconti del Maestro Francesco Forlani
bisogna viverle le storie per scriverle
ma in questa maniera superlativa possiamo solo leggerti!
grazie
c.
Ah, il mito inossidabile delle svedesi che è trapassato di generazione in generazione… In altri termini: quanto si era sfigati.
FRANCESCO FORLANI = lo scrittore che scrive a colori
Acrilici
Ad olio
A tempera
Acquarello
Gessetti cxolorati
Matite Giotto
Pennarelli
PaStelli grassi
Chine cinesi
Sabbie incas
Ombretti
Fard
Rossetti
Eyepencil
Tecnicolor
t u t t i i c o l o r i d e l l a r c o b a l e n o
S T A R R I N G
fRANCESCO EFFEFFE FORLANI
s t a r r i n g
France’, ma tu al villaggio delle svedesi ci andavi attraversano il Garigliano da Nord verso sud? E se venivi da Caserta, che giro facevi?
Ad ogni modo è vero, ha ragione Anna Maria Papi, scrivi proprio a colori. La fantasia e la memoria sono straodinarie, anche nello stravolgere i riferimenti geografici. Io ancora ci vado a Baia Domizia, anzi, scrivo essendoci appena tornato. Vado avanti e indietro, da vero forzato-pendolare, sulla Nola Villa Literno- Castelvolturno- Mondragone -Domiziana-Strada Provinciale Bocche di Pantano ed ecco Baia Domizia…”Mare sole e…” come dice l’enorme cartellone all’ingresso, che dell’euforia degli anni sessanta conseva solo il ricordo, slavato del tratto iconico stampatovi sopra. Ma di mare sole e….rispetto allo scintillìo della fantasia tua e di noi altri adolescenti ( tu nei primi anni settanta, noi nella seconda metà dei sessanta) c’è rimasto ben poco, se non strade polverose e le retroguardie dei “nuovi ceti affluenti”, tignosi e cafonissimi…Di svedesi…bah, pochi pensionati e molte/i e panzute/i russi scaricati a mappàte da arcigni torpedoni. Il mare dal colore incerto, chissà pechè, mi fa pensare a un’era post-atomica (nel senso dell’incombere della vicina centrale sul Garigliano). E Baia Domizia si annuncia sempre dalle eterni rammère, scassatorie. erbacce e pagliarelle del lungomare di Mondragone con le sue teorie di Lido Papèle, Lido “Giuseppe da Antonio”con le scritte vergate da mano incerta su compensati sostenuti da paletti malfermi nel bel mezzo di cumuli di buste di monezza ammacchiàte tra canne e marane. Sembra tutto un ambiente” vintage”, un set a bella posta alla Pasolini. E si vedono cose veramente interessanti. Vuoi vedere che sono queste le mitiche “vacanze intelligenti” inseguite fessamente lungo la prima ingenua ed entusiasta giovinezza? altro che isolette dell’Egeo, altro che Capo Vaticano fine anni settanta o Sveti Stefan del Montenegro pre-guarra civile!…Anzi, già che ci sono, mo’ m’allungo un po’ a Cancello ed Arnone e mi vivo la trentatreesima sagra della mozzarella e della pasta e fagioli lungo il Corso, che è anche la Strada Provinciale di scorrimento, tra la lenta teoria di macchine a passo d’uomo, gli scarichi di piombo, l’urlìo degli ultimi successi “house” sparati dalle casse dei venditori dai camioncini superaccessoriati, tra l’entusiasta ma lento passo di improbabili sbandieratori che sbucano da una stradina laterale e il marziale e civettuolo incedere di tre vigilesse-tre dirette da una marescialla-vigile anch’essa, un gruppo che è una visione del postfellinismo più spinto e citazionista possibile. Sì, farò proprio così, un po’ per celia un po’ per non morire…